6.12.17

Arte e rivoluzione (Eric J. Hobsbawm)

Chagall, Pace ai tuguri, guerra ai palazzi (1917)
Non vi è alcun legame logico o necessario tra le avanguardie artistiche e culturali europee - il termine entrò in uso attorno al 1880 - e i partiti di estrema sinistra del XIX e del XX secolo, sebbene entrambi si considerassero rappresentativi del «progresso» e della «modernità», ed entrambi fossero transnazionali per portata e ambizioni. Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, i nuovi socialdemocratici (generalmente marxisti) e la sinistra radicale guardavano con simpatia ai movimenti artistici d’avanguardia: naturalismo, simbolismo, arts and crafts, persino il postimpressionismo. In compenso, questi artisti erano coinvolti in dichiarazioni di tipo sociale o anche politico per la loro comunione d’idee con le fazioni che si dedicavano ai poveri e agli oppressi. Ciò valeva anche per artisti affermati come Sir Hubert Herkomer (In sciopero, 1891), o, come, nella nuova esposizione, Il’ja Repin (17 ottobre 1905). In Russia, gli artisti del movimento «mondo dell’arte» probabilmente rappresentavano una fase analoga dell’avanguardia prima del trasferimento di Djagilev in Occidente. Gli anni 1905-1907 dimostrarono l’impegno politico del celebre ritrattista Serov.
Nel decennio che precedette il 1914, l’ascesa di avanguardie nuove e radicalmente sovversive a Parigi, Monaco e nelle capitali asburgiche portò a una divisione dei rami artistici e politici di modernità e rivoluzione. Di lì a poco, a queste esperienze si unì, in Russia, una componente singolarmente ampia di artiste donne, ben rappresentate nella nuova esposizione. Sotto etichette che spesso mutavano e si sovrapponevano - cubisti, futuristi, cubofuturisti, suprematisti, eccetera - questi innovatori radicali, sovversivi nella loro visione dell arte, o cosmici e mistici (in Russia) nelle loro aspirazioni, non erano interessati alla politica della sinistra e avevano scarsi contatti con essa. Dopo il 1910, persino il giovane poeta e drammaturgo bolscevico Majakovskij si ritirò per un po’ dalla politica. Se gli artisti d’avanguardia prima del 1914 leggevano qualche pensatore, non si trattava di Marx, ma del filosofo Nietzsche, le cui implicazioni politiche privilegiavano le élite e il «superuomo» piuttosto che le masse. Soltanto uno degli artisti designati per posti di responsabilità dal nuovo governo sovietico nel 1917 sembra essere stato membro di un qualche partito socialista: il bundista David Shterenberg (1881-1948).
Dal canto loro, i socialisti diffidavano delle incomprensibili innovazioni delle nuove avanguardie, essendo impegnati a portare le arti - attraverso le quali in genere imparavano a comprendere l’alta cultura della borghesia colta - alle masse lavoratrici. Ne facevano parte al massimo una o due figure di spicco, come il giornalista bolscevico Anatolij Lunacarskij, che, sebbene a loro volta scettiche, erano sufficientemente sensibili alle correnti intellettuali e artistiche dell’epoca per riconoscere che anche gli artisti rivoluzionari apolitici o antipolitici avrebbero potuto avere qualche influenza sul futuro.
Tra il 1917 e il 1922, le avanguardie dell’Europa centrale e orientale, destinate a formare una fitta rete transnazionale, confluirono in massa nella sinistra rivoluzionaria. Questo fu forse più sorprendente in Germania che in Russia, un Titanic a bordo del quale le persone erano consapevoli di aspettare l’iceberg della rivoluzione. A differenza che in Germania e nei territori asburgici, la repulsione per la Grande guerra non sembra essere stata un elemento fondamentale in Russia. Due icone dell’avanguardia, il poeta Vladimir Majakovskij e il pittore Kazimir Malevic, nel 1914 avevano già prodotto popolari giornali patriottici. Fu la rivoluzione stessa a ispirarli e politicizzarli, come in Germania e in Ungheria. Diede loro anche una visibilità internazionale che fece della Russia il centro del modernismo fino agli anni Trenta.
La rivoluzione mise le nuove avanguardie russe in una posizione unica di potere e influenza sotto l’occhio benevolo del nuovo commissario del popolo per l’Istruzione, Anatolij Lunacarskij. Il loro campo d’azione era limitato soltanto dall’insistenza del regime a conservare l’eredità e le istituzioni dell’alta cultura, che gran parte di esse, in particolare i futuristi, avrebbero voluto cancellare. (Nel 1921, il Bol’soj rischiò di chiudere.)
Altri artisti erano impegnati nei soviet. («Non ci sono degli antifuturisti affidabili?» chiese Lenin.) Chagall, Malevic e Lissitskij dirigevano scuole d’arte, l’architetto Vladimir Tatlin e il regista teatrale Vsevolod Mejerchol’d i dipartimenti ministeriali per le arti. Il passato era morto e sepolto. L’arte e la società potevano essere rifatte da zero. Tutto sembrava possibile. Creatore e pubblico non più separati o separabili, ma unificati mediante la radicale trasformazione di entrambi: questo sogno ora poteva essere realizzato ogni giorno in strada, nelle piazze cittadine, da uomini e donne che erano a loro volta creatori, come dimostrato dai film sovietici, dove gli attori professionisti, inizialmente, erano visti con sospetto. Lo scrittore e critico d’avanguardia Osip Brik racchiuse tutto questo in una frase: «Chiunque dovrebbe essere un artista. Qualunque cosa può diventare arte».
I «futuristi», termine altamente generico, e coloro che in seguito si definirono costruttivisti (Tatlin, Rodcenko, Popova, Stepanova, El Lissitskij, Naum Gabo, Pevsner) perseguirono questo fine con la massima coerenza. È soprattutto grazie a questo gruppo, che esercitò la sua influenza anche nel cinema (Dziga Vertov e Éjzenstejn) e nel teatro (Mejerchol’d), e alle idee architettoniche di Tatlin, che l’avanguardia russa ebbe uno straordinario impatto sul resto del mondo. Fu la componente principale dei movimenti russo-tedeschi, strettamente intrecciati tra loro e destinati a influire a livello internazionale sulle arti moderne tra il 1917 e la Guerra fredda.
Il lascito di queste idee radicali continua a far parte del know-how fondamentale di chiunque si occupi di montaggio cinematografico, layout, fotografia e design. Ed è quasi impossibile non essere entusiasti dei loro trionfi: il progettato monumento all’Internazionale comunista di Tatlin, il «cuneo rosso» di El Lissitskij, i montaggi e le fotografie di Rodcenko, La corazzata Potèmkin di Éjzenstejn.
Ben poco del loro lavoro sopravvisse nei primi anni dopo la rivoluzione. Non c’era nessun edificio. Da persona pragmatica quale era, Lenin riconobbe il potenziale propagandistico dei film, ma il blocco in pratica impedì qualsiasi fornitura di pellicola vergine nel territorio russo-sovietico durante la guerra civile, anche se gli studenti del nuovo Istituto cinematografico di Stato di Mosca, fondato nel 1919 e diretto da Lev Kulesov, affinavano le loro capacità nella nuova arte del montaggio tagliando e ritagliando il contenuto delle «pizze» rimaste. Un decreto immediato, nel marzo 1918, ordinò lo smantellamento dei monumenti del vecchio regime e la loro sostituzione con statue di personaggi ispiratori della rivoluzione e fautori del progresso in ogni parte del mondo, a beneficio del popolo illetterato. Ne vennero erette circa una quarantina a Mosca e Pietrogrado, ma poiché furono costruite in fretta, perlopiù in gesso, sono poche quelle che si sono conservate. Forse questa è stata una fortuna.
La stessa avanguardia si gettò con entusiasmo nell’arte di strada, dipingendo slogan e immagini sui muri e nelle piazze, nelle stazioni ferroviarie e sui «treni sempre più veloci», come pure fornendo materiale per le celebrazioni della rivoluzione. Queste ultime erano per loro stessa natura temporanee, tuttavia quella organizzata a Vitebsk da Marc Chagall venne giudicata non abbastanza politica; un’altra suscitò invece le proteste di Lenin, poiché gli alberi fuori del Cremlino erano stati colorati di blu e la vernice era difficile da rimuovere. Hanno lasciato poche tracce di sé, a parte qualche fotografia e alcuni sbalorditivi progetti per tribune trasportabili per oratori, chioschi, installazioni per cerimonie e simili, inclusa una raffigurazione della famosa torre del Comintern di Tatlin. Durante la guerra civile, con ogni probabilità gli unici progetti creativi legati alle arti visive pienamente realizzati furono nel campo teatrale, che proseguirono nel corso degli anni, ma l’esibizione sul palcoscenico è di per sé evanescente, anche se le scenografie di tanto in tanto sono sopravvissute.
Dopo la fine della guerra civile, la Nuova politica economica degli anni 1921-28, più favorevole al mercato, diede ai nuovi artisti maggiori opportunità di realizzare i loro progetti, spostando l’avanguardia da una posizione utopistica a una più orientata alla pratica, benché al prezzo di una crescente frammentazione. Gli oltranzisti del Partito comunista, insistendo su una Proletkult interamente appannaggio della classe operaia, attaccarono l’avanguardia. Al suo interno, i paladini dell’arte spiritualmente pura e totalmente rivoluzionaria, come Naum Gabo e Anton Pevsner, denunciarono i «produttivisti», che volevano un’arte applicata alla produzione industriale e la fine della pittura su cavalletto. Ciò condusse a ulteriori conflitti personali e professionali, come quelli che portarono all’estromissione di Chagall e Kandinskij dalla scuola di Vitebsk, a tutto vantaggio di Malevic.
I contatti tra la Russia sovietica e l’Occidente - perlopiù passando per la Germania - si moltiplicarono, e per qualche anno diversi artisti dell’avanguardia si spostarono attraversando senza problemi le frontiere dell’Europa. Alcuni (Kandinskij, Chagall, Julius Exter) finirono per restare in Occidente con gli esuli prerivoluzionari riuniti attorno a Djagilev, come la Goncarova e Larionov. Nel complesso, le più importanti e durature opere creative dell’avanguardia russa vennero realizzate a metà degli anni Venti, in particolare i primi successi del nuovo cinema del «montaggio», il Cineocchio di Dziga Vertov e La corazzata Potèmkin di Èjzenstejn, i ritratti fotografici di Rodcenko e alcuni progetti architettonici (mai realizzati).
Fino ai tardi anni Venti, non ci furono altri seri attacchi all’avanguardia, sebbene il Partito comunista sovietico la disapprovasse, perché, tra le altre ragioni, il richiamo che aveva sulle «masse» era indiscutibilmente trascurabile. Era protetta non solo da un uomo di larghe vedute come Lunacarskij, che rimase in carica come commissario per l’Istruzione dal 1917 al 1929, e da colti leader bolscevichi come Trotzkij e Bucharin, ma anche dall’esigenza da parte del nuovo regime sovietico di placare gli indispensabili «specialisti borghesi», l’intellighenzia colta ma per larga parte non convertita, che inoltre costituivano il pubblico essenziale delle arti, incluse quelle d’avanguardia. Tra il 1929 e il 1935, Stalin, lasciando loro i privilegi acquisiti fino a quel momento, li costrinse ad accettare una totale sottomissione al potere. Questa spietata rivoluzione culturale segnò la fine dell’avanguardia del 1917; il realismo socialista divenne obbligatorio. Sterenberg e Malevic scelsero di tacere; Tatlin, bandito dalle esposizioni, si ritirò nel teatro; Lissitskij e Rodcenko trovarono rifugio nel fotogiornale «Urss in costruzione»; Dziga Vertov finì per fare poco più che il tecnico di montaggio di cinegiornali. A differenza di gran parte dei bolscevichi del 1917, che avevano dato loro una chance, gli artisti dell’avanguardia visiva perlopiù sopravvissero al terrore staliniano, ma le loro opere, sepolte nelle collezioni private e nei musei russi, sembravano dimenticate.
E tuttavia, ancora oggi noi tutti viviamo in un mondo visivo per larga parte concepito da loro nei dieci anni successivi alla rivoluzione.


Pubblicato per la prima volta con il titolo Changing of the Avant-Garde, in «Royal Academy of Arts Magazine», n. 97, 2007. Ora in La fine della cultura. Saggi su un secolo in crisi di identità, BUR, 2013

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