7.12.17

I libri del cuore e la “paella” di Nilde Jotti. Un'intervista ad Alfredo Reichlin (Mirella Serri)

Riprendo qui un ampio stralcio da un'intervista ad Alfredo Reichlin per “Tuttolibri”, utile ad evocare storie da molti dimenticate. (S.L.L.)

«Non fu certo semplice la decisione di prendere il fucile e di dedicarmi alla lotta armata. Avevo molta paura. Si dormiva dove si poteva, ogni giorno si cambiava alloggio, si temevano i delatori. Fummo traditi da un compagno che condusse la banda Koch alla cattura di Luigi Pintor, mio compagno di banco al liceo Tasso, Franco Calamandrei e altri. Riuscii a fuggire, fui accolto da religiosi, sotto i tetti della chiesa di Sant’Ignazio. Altri giorni li passai chiuso nell'Almo Collegio Capranica, sotto la protezione dei seminaristi. A spingerci a tutto questo era stato anche il desiderio di vendicare la morte di Giaime. Traduttore delle poesie di Rilke, che mi aveva folgorato quanto Montale, collaboratore della casa editrice Einaudi, con la sua scelta di andare a combattere diventò il simbolo di un gruppo di giovani uomini che guardavano all’Europa e all'America raccontata da Pavese o da Vittorini e non certoa Mosca, come avvenne in epoca di Guerra fredda».

La politica fu un approdo conquistato anche con le letture?
«La mia famiglia, traslocata dalla Svizzera a Barletta, aveva un’industria chimica che fallì nel’29. Mio padre, allora, si trasferì a Roma per fare l'avvocato: aveva una biblioteca nutrita, quella di un borghese che prima aveva creduto nel fascismo e poi se ne era rapidamente allontanato. Attingevo a quegli scaffali dove c'erano Papini e Prezzolini, ma io preferivo Martin Eden di JackLondon, il Kerouac dei miei tempi, per la sua attrazione per il viaggio senza limiti e senza meta; apprezzavo l’Inghilterra raccontata da George Macaulay Trevelyan, i testi del socialista Anatole France e quelli pervasi di idee umanitarie di Romain Rolland e pure i libri, proibitissimi, di Guido da Verona. A scuotere le coscienze, come si diceva allora, contribuì pure il film Ossessione del 1943, diretto da Luchino Visconti. Poi arrivò l’opera di Antonio Gramsci, ma anche quella di Stalin e la Storia della rivoluzione russa di Lev Trotskij. Io leggevo, studiavo, mi formavo ed ero pure innamorato di una ragazza americana che sullo schermo ballava in maniera meravigliosa, Ginger Rogers».

Finita la guerra arriva la prima occupazione: commessoin una libreria. Vocazione o caso?
«Veramente durò pochi mesi, poi fui licenziato. Dovevo non solo vendere ma anche lavare per terra, rassettare. Il padrone mi disse:“Caro ragazzo, sei bravo,ti impegni. Ma mi imbarazzi… si vede che questo lavoro non fa per te”.Entrai come cronista di nera a “l’Unità”».

Una vera squadra?
«Lo era: a cominciare da Pietro Ingrao, direttore del giornale dal 1947 al ’57 (poi gli subentrai io stesso), che andava a fare lui stesso le inchieste nelle borgate con il taccuino in mano. Il nostro modello, secondo quanto ci esortava a fare Togliatti, era il “Corriere della Sera”. Dovevamo imparare dalla borghesia a conquistare le masse popolari. Togliatti a sua volta era un esempio di applicazione e di tenacia. Arrivava in redazione quasi per caso. Leggeva la cronaca di un dibattito parlamentare che stava per andare in stampa. Fermava tutto e si metteva a correggere il testo parola per parola. Diventammo amici e mi ricordo la paella che Nilde Jotti preparò per il mio matrimonio con Luciana Castellina. Era uno dei piatti preferiti dal Migliore per motivi nostalgici, era il ricordo della guerra di Spagna».

Il periodo più intrigante e fecondo dal punto di vista culturale?
«Gli Anni Sessanta. Io continuavo a leggere e anche a rileggere i grandi classici delpensiero politico e dell'economia da Adam Smith a Marx e anche i classici della letteratura, da Dostoevskij a Tolstoj, Proust, Flaubert, Thomas Mann. Ma intanto arrivava l'opera di Elsa Morante e di Pier Paolo Pasolini; La ciociara, uscitanel 1957, mentre nel 1960 faceva la sua apparizione La noia di Moravia; e poi c’erano La speculazione edilizia e La giornata di uno scrutatore di Calvino, personaggio affascinante, ironico e di poche parole. Tutti questi autori, i film di Rossellini, Visconti, Fellini, le mostre di Mafai, Morandi e Guttuso erano la dimostrazione che la nostra arte era veramente di livello internazionale».

Il romanzo preferito in assoluto?
«Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, con la sua storia di grandi seduzioni: mi ci rispecchiavo, anche a me piaceva molto amoreggiare. Ho sempre voluto essere me stesso e non trasformarmi in un grigio funzionario di partito e mantenere il mio stile, persino nell’abbigliamento».

Ai più giovani, quale autore consiglia?
«Antonio Gramsci capace di dire: “una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze…non può che essere senza fiducia in se stessa… una generazione vitale e forte tende invece a sopravvalutare la precedente”. Ai ventenni voglio ricordare che non partono da zero. Questo valeva anche per noi: avevamo alle spalle la grande storia del socialismo italiano. La politica non aveva paura di parlare del destino dell’umanità intera. Dai libri di Gramsci cerco oggi risposte sul presente. Era un eretico che, dal fondo del carcere fascista, non credeva al crollo del capitalismo ma rifletteva su un nuovo capitalismo e pensava al potere come egemonia. Che si conquista anche attraverso l’apertura alle opinioni degli altri, al confronto-scontro, a cui credo di essermi sempre dedicato. Una pratica che forse oggi manca ai nostri politici, anche a quelli della mia parte, che a volte si cimentano in un dialogo tra sordi».

Tuttolibri La Stampa, 3 luglio 2010

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