29.12.17

Lavoro. «Riempiamo il vuoto con ludopatia e social». Intervista a Stefano Massini (Giuliana De Vivo)


Stefano Massini
È la risposta dell’homo erectus all’imperativo naturale, ancestrale, di procacciarsi il cibo. Ma è anche uno strumento di definizione e realizzazione di sé. Il concetto di lavoro ha due facce, fin dall’etimologia della parola, alla quale Stefano Massini, romanziere e drammaturgo, autore di Lehman trilogy – l’ultima regia firmata dal maestro Luca Ronconi – e da sempre sensibile al tema (suo è anche lo spettacolo Sette Minuti, divenuto anche un film per la regia di Michele Placido), ha dedicato il libro Lavoro (Il Mulino, 2016).
Siccome «le emozioni collegate a una parola ne compromettono il senso stesso», ecco che il termine “lavoro” si è degradato via via che gli cresceva attorno la disillusione. Esaminando la prima delle due facce, il labor, cioè la fatica che implica sofferenza e risponde «alla voce che ordina di procurarci materia prima da convertire in energia», Massini si domanda: fino a quando a una bestia che, nonostante una corsa agile, veda sempre fallire il suo agguato si può chiedere di perseguire nei propri inutili slanci? Per gli uomini la materia prima oggi è il denaro, spiega il drammaturgo a pagina99, e quella «bestia mortificata» è una metafora incarnata da chi il lavoro non lo trova e dai tanti neet, giovani che non hanno un impiego, non lo cercano né investono nelle proprie competenze. «In loro il trauma è particolarmente forte per via del confronto. Veniamo da una fase storica che era esattamente il contrario: i brillanti anni ’80-’90 ci hanno consegnato il ritratto di una società fin troppo fissata con l’obiettivo continuo del fare, del produrre a tutti i costi. Rispetto a quel modello oggi tutto è rimesso in discussione».
In un Paese costituzionalmente fondato sul lavoro, ma in cui questo elemento programmatico basilare ha perso ogni concretezza, che risposta diamo a quell’imperativo di sopravvivenza? Secondo Massini l’abbiamo affidata alla sorte, alla Fortuna: «C’è uno sviluppo esponenziale di slot machine e gratta&vinci. Molti fanno notare che esistevano anche prima. Ma c’è una bella differenza tra giocare al Totocalcio una volta a settimana e stare tre ore al giorno attaccati alla slot machine. L’immagine di gente accalcata a grattare è un’esperienza che chiunque di noi ha avuto, in Italia come all’estero. Ha mai provato a guardare le pattumiere appena fuori dai tabaccai? Il tentativo della fortuna si è sostituito alla “vivanda”, a ciò che mi dà da vivere: non a caso qualche anno fa è stato introdotto il Gratta&vinci con la formula della vittoria sotto forma di stipendio, quantificata in un tot al mese invece della classica grossa vincita una tantum».
Ma è forse nell’altra faccia della parola “lavoro” che si percepisce di più la portata del mutamento culturale. La radice sanscrita da cui deriva il labor latino, spiega Massini, vuol dire “conseguire ciò che si desidera”, in un senso che arriva a disegnare una “morfologia sociale”, cioè a definire la posizione di ciascuno nel mondo. Prima che la crisi deflagrasse, alla domanda “Che lavoro fai?” si rispondeva usando il verbo essere (“Sono un medico”, per esempio), «il verbo sommo deputato dell’identità, sinonimo di “esistere”, strumento di affermazione suprema e quindi sintesi politica dell’individuo». Nel momento in cui il lavoro non è più percepito come una “colonna portante dell’edificio esistenziale di ciascuno”, la definizione delle identità di ognuno arriva da un altrove, dal modo in cui riempiamo il nostro tempo libero, spesso specchiandolo nel virtuale.

Se l’occupazione (da ob capere) è ciò che riempie il nostro tempo, sottraendolo ad altro, quando questa manca o è precaria il tempo sottratto è poco e quello (cosiddetto) “libero” si dilata: così «aspetti un tempo considerati marginali come un hobby, l’essere tifoso di una squadra di calcio o il seguire appassionatamente una certa serie tv diventano qualificanti. È molto più facile che un architetto cerchi dei propri simili in rete passando dal filtro di uno di questi interessi, percepiti come essenziali, che dal fatto di fare l’architetto», riflette Massini. Un esempio calzante? «Artisti come Jannacci o Vecchioni, che si sono connotati anche per la professione che svolgevano al di là e prima della musica, se fossero emergenti oggi nasconderebbero la professione di cardiologo o insegnante, perché – al contrario di quanto è accaduto nelle loro carriere – non lo considererebbero qualificante né determinante. Ed è chiaro che questo è un effetto del precariato: se faccio un lavoro ma non so se lo avrò ancora tra un mese, faccio fatica a definirmi attraverso esso». Il problema vero, secondo Massini, è stata la rapidità dei cambiamenti: «Era chiaro che l’arrivo delle auto a motore avrebbe determinato la fine del mestiere di cocchiere, ma ciò è avvenuto in modo lento e graduale, quindi non particolarmente traumatico; oggi i mutamenti del lavoro sono velocissimi rispetto alla nostra capacità di capirli e adeguarci: è diventato tutto così baumaniamente liquido che, nella fretta, abbiamo tolto la diga e ci è venuto tutto addosso».

Pagina 99, 8 settembre 2017

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