1.12.17

"Meno male che non ha tirato fuori il coltello". L'esordio veneziano di Girolamo Li Causi

Il lungo cammino è il titolo che Girolamo Li Causi, il più prestigioso dirigente dei comunisti in Sicilia negli anni del secondo dopoguerra, scelse per la prima parte della sua autobiografia, l'unica portata a termine, che si apre nel 1906 e si ferma al 1944, data del suo avventuroso ritorno in Sicilia, dopo aver partecipato alle prime fasi della guerra partigiana nell'Italia occupata dai tedeschi. Il brano che qui riprendo riguarda il tempo degli studi universitari, nell'ateneo di Ca' Foscari a Venezia, ove c'era una facoltà di economia politica aperta ai diplomati in ragionieria. Quando giunse a Venezia, nel settembre del 1913 il giovane Li Causi non aveva ancora 18, ma si iscrisse subito alla sezione socialista, benissimo accolto dai compagni veneziani. Non accadde lo stesso all'Università. (S.L.L.)
Non mi fu difficile rintracciare la sezione socialista, in Malcanton, dove c’era anche la sede della Camera del lavoro. Ogni lega aveva il suo ufficio, il suo sgabuzzino, e mi colpi il fatto che la vita sindacale si svolgesse, nei giorni feriali, di sera; il segretario della lega, al termine del proprio lavoro normale, passava quotidianamente due o tre ore nell’ufficio della lega, dove riceveva gli iscritti, dava spiegazioni, raccoglieva le quote e tutto questo lo faceva gratuitamente. La Camera del lavoro era animatissima; in tempi ordinari le assemblee si facevano sempre la domenica mattina e in quelle occasioni i saloni si riempivano. Anzi, le varie leghe dovevano fare attenzione a prenotare in tempo la sala e a rispettare gli orari, per non intralciarsi reciprocamente nell'attività.
Fu in quell’ottobre 1913 che mi iscrissi al partito socialista. Non fu una decisione a freddo, la mia. C’era stata la partecipazione alla campagna elettorale in Sicilia e poi il clima politico trovato a Venezia con la vittoria del candidato socialista, il fervore che questo avvenimento aveva creato, le convinzioni che nel corso degli anni precedenti erano andate lentamente maturando; tutto questo fece sì che, fin dalle prime settimane della mia residenza a Venezia, mi trovassi a partecipare assiduamente alla vita del partito. Fui notato per la mia vivacità e venni subito utilizzato sia dalla sezione cittadina che dalla federazione per tenere comizi nei vari sestieri, specialmente in occasione di scioperi di categoria. Dato il mio temperamento focoso, la funzione che mi era riservata era quella del «surriscaldatore», del suscitatore di entusiasmi: servivo cioè a mantenere alta la pressione, la carica.
Andavo anche in provincia, per « sfondare » nelle località a noi più ostili. Ad esempio non ci era praticamente possibile entrare a Burano, il regno di Jesurum, che sfruttava migliaia di ragazzi, figli di pescatori poveri, nella fabbricazione dei famosi merletti. Come ci accingevamo a scendere dal vaporetto, erano aggressioni a bastonate, a sassate. Ci volle molto tempo prima che potessimo parlare a Burano.
In campagna si andava quasi sempre la domenica. Ci si piazzava, di mattina, dinanzi alle chiese ad aspettare che finisse la messa, poi, mentre la gente defluiva lentamente, improvvisavamo il nostro comizio, sperando che qualcuno si fermasse a sentirlo o almeno cogliesse a volo qualche frase, qualche parola. Naturalmente non dappertutto la situazione era così nera. C’erano già delle zone in cui ci eravamo fortemente affermati e che ancor oggi costituiscono dei veri baluardi progressisti...
[...]
Il mio ingresso a Ca’ Foscari fu contrassegnato da un episodio molto spiacevole. Io ignoravo completamente gli usi e i costumi delle università, nulla sapevo delle soverchierie imposte alle matricole. Non avevo ancora posto piede nell’ampio atrio dell’istituto quando uno studente mi investì prepotentemente:
— Vieni qua, fetente matricola!
— Cosa hai detto? — feci io incredulo, convinto di aver capito male.
— Fetente matricola...
Se non me lo levavano dalle mani lo ammazzavo. Un finimondo. A un certo punto mi sentii interpellare da un siciliano di Pantelleria:
— Ma che stai facendo?
Rincuorato di trovare un compaesano mi sfogai:
— Ma non vedi questa carogna che io non ho mai visto e che mi dà del fetente!
— Calma, calma; bada che c’è un equivoco!
— Ma che equivoco! Se ti dico che mi ha dato del fetente e per due volte anche!
E quello allora a spiegarmi che si trattava non di una ingiuria ma di una usanza consacrata dai secoli nel rito della immatricolazione. Vi lascio immaginare la mia mortificazione! Nonostante mi affrettassi a chiedere scusa, quella reazione di tipo assolutamente nuovo in quell’ambiente e il fatto che ero siciliano crearono attorno a me, nella scuola, il vuoto assoluto. Intimoriti e diffidenti gli studenti dicevano: «E meno male che non ha tirato fuori il coltello!» E io a dire: «Ma che coltello...». Naturalmente, inseguito, quando mi conobbero meglio, riuscii ad ottenere un po di fiducia, ma intanto ero partito con il piede sbagliato. Il compagno Ernesto Cesare Longobardi, professore di lingua e letteratura inglese, mi fu di aiuto prezioso per superare questa nomea di violento e di sanguinario che m’ero fatta.


Il lungo cammino, Editori Riuniti, 1974

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