3.12.17

Storie parallele. Giappone 1945-1975, il paradiso degli scandali (Paolo Albertario)

Riprendo dal “manifesto” le prime due puntate di un'inchiesta sulla corruzione in Giappone nel trentennio che seguì la Seconda Guerra Mondiale, una vicenda speculare a quella di un altro paese sconfitto nella guerra, l'Italia. (S.L.L.)
1957. Il premier giapponese Nasubuke Kishi con il presidente USA Eisehhower.
Uno dei pronipoti di Nasubuke Kishi è attualmente primo ministro in Giappone
Il regno della Nissan, della super-produttività e delle geishe computerizzate continua a stupire (e a preoccupare) gli osservatori economici. C’è chi teme l’invasione del «made in Japan» e chi invece scalpita (vedi Confindustria) per importare l’armonioso modello socio-produttivo del Sol Levante. Critiche ed elogi — interessati o meno — sembrano tuttavia affrontare il «modello» Olappone come una realtà lontana, profondamente diversa, probabilmente irripetibile in occidente.
I sindacati collaborano? Certo, perché coscienza e lotta di classe sono ignote ai lavoratori giapponesi... Record della produttività? Logica conseguenza, dato che operai e dirigenti si identificano nell’azienda e ne condividono guai e fortune. E cosi di seguito, con l’evidente rischio di correre dietro a fantasmi e perseverare nell’incomprensione e mistificazione del «miracolo» giapponese.
Un atteggiamento che non favorisce certo il dibattito in un Occidente in cerca di «modelli» e che fa invece il gioco delle transnazionali giapponesi e del governo liberaldemocratico, lanciato da alcuni anni in una nuova, profonda svolta reazionaria (riarmo, riforma dei testi scolastici, fermo di polizia etc.).
Proviamo dunque a fare un viaggio a ritroso nel pianeta Giappone, per scoprire se l’armonia che traspare dalle immagini ufficiali (e dai reportage di certi inviati speciali) è davvero il frutto di un modello socio-economico che ha risolto tutte le sue contraddizioni e si avvia tranquillo a costruire la prima società «post-industriale» del mondo oppure se ci troviamo ancora una volta di fronte ad un «successo» di cartapesta, costruito sulla pelle dei lavoratori e gestito, oltre che dagli zaibatsu, da una classe politica corrotta e succube degli Stati uniti.
Il compito di «democratizzare» il Giappone — all’indomani della seconda guerra mondiale — fu avocato, come è noto, dagli Usa e delegato al generale McArthur, comandante supremo delle forze alleate nel Pacifico. Il «programma» prevedeva, tra le altre cose, la distruzione degli oligopoli familiari (zaibatsu), la riforma istituzionale ed il disarmo perpetuo, disarmo che venne poi sancito nell’art. 9 della nuova Costituzione (dettata articolo per articolo dagli «esperti» di Me Arthur alle recalcitranti autorità giapponesi).
McArthur si trovò ben presto a lottare con i suoi stessi consiglieri, inviati in fretta e furia dal Dipartimento di stato per evitare di «consegnare il Giappone in mano ai comunisti». C’erano stati i primi scioperi, le prime occupazioni e la nascita di un movimento di classe che non faceva mistero di voler gestire autonomamente il processo di «democratizzazione». La «sterzata» imposta da McArthur ha una data precisa, il primo febbraio 1947, quando uno sciopero generale organizzato dai sindacati legati al partito comunista minacciava di portare a Tokyo 5 milioni di lavi ratori con lo scopo dichiarato di far cedere il governo «fantoccio» di Shigeru Yoshida e formarne uno di unità nazionale.
Lo sciopero venne proibito dalle autorità americane e nei giro di un paio di settimane si concluse l’operazione mecha-mecha: dalle patrie galere vennero liberati decine di migliaia di criminali di guerra, mafiosi e vecchi padroni degli zaibatsu, rimpiazzati da sindacalisti e giovani dirigenti del Pc giapponese.
Basti per tutti l’esempio del carcere di Sugamo, dove erano stati rinchiusi i principali responsabili della guerra. In una della c’erano Ryochi Sasagawa, Noqusuke Kishi e Yoshio Kodama: 11 primo è attualmente presidente di un centinaio di associazioni culturali-sportive (karaté, kendo,, etc.) e boss incontrastato del mondo delle scommesse, dalle quali trae i fondi per corrompere buona parte del partito al governo; il secondo, Kishi, è stato per molti anni primo ministro e proconsole americano ed ora continua ad esercitare un vasto potere sia come «consulente supremo» del partito liberaldemocratico, sia attraverso una serie di società finanziarie Usa al quale è collegato, insieme a suo genero, l’attuale ministro del Commercio e dell’industria, Shintaro Abe. Kodama, infine, è il boss incontrastato della ’ndrangheta giapponese (yakuza), leader riconosciuto di una ventina di movimenti eversivi di destra, intimo amico del famigerato Reverendo Moon e coinvolto in quasi tutti i più recenti scandali del paese, compreso l’affare Lockeed per il quale dovrebbe essere condannato entro la fine di quest’anno.
Il «trio di Sugamo» non va comunque sopravvalutato: nello staff americano che gestì il “nuovo corso” troviamo infatti gli stessi industriali, gli stessi banchieri, gli stessi «esperti» del Pentagono che proprio in quegli anni si opponevano strenuamente al processo di «denastizzazione » della Rft e al governo di unità nazionale in Italia, nella speranza di legare il futuro economico di questi paesi alle fortune e ai profitti delle multinazionali che rappresentavano. Tra gli anni ’48-’52 troviamo a dirigere l’Acj (American Council of Japan) personaggi come i fratelli Dulles (Allen e John Foster, già segretario di Stato), consulenti legali dell’impero Rockfeller; Douglas Dillon e William Draper (dirigenti della Cia); John Me Cloy, ministro degli esteri dell’Itt ed ex presidente della Chase Manhattan Bank, intimo amico di Kodama, Chang-kai Shek e Sukarno e un certo Compton Pakenham, che più tardi divenne capo dell’uf-fucio di corrispondenza di “Newsweek” a Tokyo. Il presidente dell’Acj, guarda caso, era Joseph Grew, ex ambasciatore Usa in Giappone e ex sottosegretario di Stato, che nell’immediato dopoguerra apri a Tokyo il più grande studio di consulenze commerciali, prima di ritirarsi nella sua piantagione di canna da zucchero nelle Hawaii e di presiedere (fino al 1971) il «Comitato internazionale per l’esclusione della Cina dall’Onu».
Il ruolo dell’Acj risulta evidente da un rapporto segreto finito qualche anno fa nelle mani di un giornalista americano, John Roberts, autore fra gli altri di Mitsui, tre secoli di «affari» alla giapponese. L’autore del rapporto, ormai pubblico, parla di una serie di incontri avvenuti a Tokyo nell’autunno 1949, pochi mesi prima della visita ufficiale di John Foster Dulles, divenuto nel frattempo Segretario di stato Usa. Fu in quel mesi che tra una bottiglia di sakè, un whisky e qualche cospicua bustarella si gettarono le fondamenta di un governo conservatore e filoamericano, un governo che, giunto ai giorni nostri, non si preoccupa di mentire spudoratamente al popolo giapponese, ad esempio per quanto riguarda la presenza di ordigni nucleari all’interno delle basi militari Usa.
Nel corso della sua visita ufficiale a Tokyo, 11 14 giugno 1948 Foster Dulles venne presentato a 5 personaggi che in seguito sarebbero divenuti molto importanti. L’incontro avvenne in un ristorante esclusivo di Tokyo, a pochi metri dall’Ambasciata Usa, e fu organizzato da Kern e Pakenham, giornalisti di “Newsweek” e abilissimi intrallazzatori (Kern, in particolare, lo ritroveremo qualche anno più tardi sul libro paga della Cia quale assistente di Frank Wisner, nel colpo di Stato guatemalteco del 1961 e come «consulente» in occasione della spedizione alla Baia dei Porci di Cuba).
I cinque «samurai, che ottennero quella sera via libera da Foster Dulles, erano Yoshio Kodama. Tetsuo Nakagawa (futuro rappresentante del Giappone all'Onu), il capo della polizia Fujita, un alto funzionario del ministero delle Finanze, Takeshi Watanabe (divenuto in seguito direttore dell’International monetary Fund, vice presidente della Banca Mondiale e presidente della Banca per lo Sviluppo Asiatico) e “un uomo politico di grandi speranze per il Paese” (le virgolette sono dello stesso Kern in una lettera che spedì un paio di settimane prima dell'incontro al senatore Dulles), Nobusuke Kishi, sospetto criminale guerra ma amico personale di Kern e di varie multinazionali americane (tra cui la Exxon e la Standard Oli) che lo stesso Kern — quando non scriveva articoli per “Newsweek” — rappresentava, con tanto di lettere d’incarico in territorio giapponese. (Si può a questo punto ricordare che nel 1977 la Exxon è stata condannata dalla Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti per aver distribuito oltre 56 milioni di dollari a varie personalità dell’Acj, tra le quali lo stesso Kern).

Le profezie di «Newsweek»
L’appoggio degli Usa e delle multinazionali spianò la strada del successo politico a Kishi, cui si deve la nascita della hoshu honryu (corrente moderata) all’Interno del partito liberaldemocratico, guidato a quel tempi da Shlgeru Yoshida, una sorta di De Gasperi con gli occhi a mandorla. Nel 1954, appena cinque anni dopo essere stato rilasciato dal carcere di Sugamo, Kishi venne eletto segretario generale del partito liberaldemocratico, mentre “Newsweek” (contro il parere di tutta la stampa giapponese) lo indicava come il successore più probabile di Yoshida alla carica di Primo Ministro (cfr. “Newsweek” del 12 febbraio 1955, in un editoriale non firmato...). Kern & soci avevano naturalmente ragione, perché nel 1957 Kishi divenne davvero primo ministro, inaugurando un periodo (5 anni) di autentica restaurazione.
Fu Kishi infatti a permettere la ricostituzione degli zaibatsu (Mitsubishi e Mitsui), la rinascita del militarismo (con la fondazione delle cosiddette «Forze di Autodifesa Nazionale», tutt’ora esistenti, nonostante siano palesemente incostituzionali) e, nonostante la fortissima opposizione popolare, la firma dei trattato di sicurezza con gli Usa noto sotto il nome di Ampo, La ratifica avvenne in un Parlamento semideserto con i deputati socialisti e comunisti sequestrati dalla polizia, in una stanza attigua a quella delle votazioni, per evitare il già annunciato ostruzionismo.
La firma del trattato costò a Kishi il governo, ma nel frattempo erano state lanciate le premesse della Giappone Spa: sistema pseudo-parlamentare con i partiti dell’opposizione ridotti a elemento folcloristico; un partito di maggioranza unito — più che dalla presenza di un’ideologia politica — dalla pioggia istituzionalizzata di tangenti e bustarelle; corsa al riarmo per «tranquillizzare» gli Usa (e gli intramontabili nostalgici in patria) e soprattutto una politica economica data in appalto al moderni zaibatsu, che, come è noto, non si sono certo lasciati scappare l’occasione.

La Nixon Connection
La caduta di Kishi — accusato tra le altre cose di aver intascato tangenti dalla Mitsui & Co., società alla quale era stata delegata la liquidazione del danni di guerra all’Indonesia — non fu certo «traumatica». Si trattò, ancora una volta di una «crisi pilotata», e il suo successore, Hayato Ikeda, non fece che scaldare la poltrona al fratello di Kishi, Eisaku Sato, amico personale di Richard Nixon (quando l’ex presidente Usa era semplice legale della Standar Oil e della filiale americana della Mitsui) e di Richard Allen, l’ex consigliere di Reagan dimessosi lo scorso dicembre per aver intascato mille dollari da una giornalista giapponese, ma che già negli anni ’70 — durante la presidenza Nixon — coniugava i doveri d’ufficio della Casa bianca con gli interessi di alcune «società» del Sol Levante (Toyota, Nissan, Hitachi) di cui era legale rappresentante negli Usa.
Eisaku Sato — che la storia ricorderà come il più mediocre dei primi ministri del Giappone, in coppia con l'attuale premier Suzuki — si trovò ben presto implicato in uno scandalo elettorale (insieme al suo segretario personale, il futuro premier Kakuei Tanaka, esperto come quant’altri mai nello scucire contributi al mondo industriale), ma la questione fu messa a tacere dal vecchio Yoshida, che in un’intervista dichiarò apertamente: «Se si dovesse rispettare alla lettera la legge sul finanziamento del partiti la democrazia di questo Paese si dissolverebbe nello spazio di una settimana...». Sembra di ascoltare Aldo Moro che difende la Dc sulla Lockheed.
Sato resse fino al 1971, quando fu costretto a dimettersi dal nuovo astro nascente: il suo ex segretario Tanaka.

40.000 dollari a deputato
Corre voce in Giappone che la carica di primo ministro sia costata a Tanaka (o meglio al suo finanziere privato, Kenji Osano, già condannato a due anni di reclusione per l’affare Lockheed, proprietario di un centinaio di alberghi alle Hawaii e arricchitosi In patria grazie al monopolio delle forniture alle basi militari Usa) qualcosa come 15 milioni di dollari, o se preferiamo 40 mila dollari a ciascun deputato del partito che gli avesse garantito il voto. (La circostanza, denunciata a più riprese dal quotidiano Asahi non è stata mai smentita dagli interessati, ma è finita nel dimenticatoio dopo l'esplosione del ben più grave scandalo Lockheed).
Dopo aver legato il suo nome alla firma dello storico trattato di amicizia e cooperazione con la Cina (1972). Tanaka fu costretto alle dimissioni, ancora una volta a causa di una serie di operazioni finanziarie che ebbero come protagonlste alcune società da lui controllate. Lo scandalo Lockheed scoppiò un paio di anni dopo, nel 1976, ma a differenza ddi anni più tardi, nel 1976, ma a differenza di quanto si è portati a credere non si trattò certo di uno scoop giornalistico, né di una disavventura del potente Tanaka, incappato in un solerte magistrato.
A distanza di qualche anno è ormai provato che lo scandalo Lockheed fu interamente gestito negli Usa (come appendice del Watergate), in particolare dalla Securities Exchange Commission e dagli ambienti più influenti di Wall Street. Tant’è vero che delle decine di personaggi politici giapponesi chiaramente implicati (da Kishi a Sato, passando per l’attuale segretario generale del partito, Susumu Nikaido) soltanto Tanaka e i suoi fidi (il boss mafioso Kodama e il finanziere nero Osano) sono stati ufficialmente incriminati, sia pure con la garanzia di un processo stile Piazza Fontana.
La «caduta» di Tanaka — che nonostante il processo e la sospensione della tessera di partito continua ad essere il leader indiscusso della maggioranza — fece sperare in un «repulisti» generale, soprattutto quando la carica di primo ministro venne affidata a Takeo Miki prima e Masayoshi Ohlra poi, con l’intervallo di Takeo Fukuda, erede politico di Kishi e come lui esperto di «consulenze incrociate», leggi bustarelle.
I timidi tentativi di riforma inaugurati da Miki e Ohira erano comunque destinati al fallimento [...]



“il manifesto”, 21 e 23 luglio 1982

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