15.12.17

Uomo di fiducia e signore della televisione. Intervista a Ettore Bernabei (Giorgio Boatti)

Ettore Bernabei - artefice negli Anni Sessanta di quella televisione pubblica che unificò gli italiani più di quanto avessero fatto sino ad allora la scuola dell'obbligo e il servizio militare - ha sempre avuto un debole per la carta stampata. Fossero libri o giornali, li ha sempre avuti intorno, sin da quando suo padre, impiegato delle ferrovie, li portava nella casa di via della Pergola, a Firenze, dove è nato nel maggio del 1921.
Adesso, a ottantotto anni portati baldanzosamente, è ancora attivissimo nella Lux Vide, la casa di produzione costituita nel 1992 e presente sul piccolo schermo con successi - che vanno dagli sceneggiati dedicati agli ultimi papi a Coco Chanel, dal popolarissimo Don Matteo, giunto alla sua settima stagione televisiva, sino all'Enrico Mattei che si vedrà nel corso del 2009. Però quando tv e cultura, risorse pubbliche e iniziativa privata vanno a occupare le prime pagine dei quotidiani, Bernabei non si sottrae.

Ad esempio, cosa pensa dell'ultima provocazione di Baricco?
«Sono uomo cresciuto alla scuola di La Pira e di Fanfani. Non ho mai avuto la religione dell'iniziativa privata che sovrasta tutto e detta legge imperiosamente, e cervelloticamente, come è accaduto negli ultimi anni. Credo però che pagare di tasca propria un prodotto, dunque anche un'offerta culturale - un concerto, uno spettacolo, una proposta televisiva - significhi sceglierlo davvero. Apprezzarlo, o meno, nei fatti».

E quindi la proposta di una rete Rai tutta cultura e niente pubblicità, sorretta con pubbliche risorse magari dirottate da altri settori...
«Non mi garba più di tanto. Stiamo attenti a non creare, proprio adesso che giungono nuove tecnologie, una televisione pubblica di nicchia. Una specie di scimmiottatura fuori tempo massimo di quel Public Broadcasting Service statunitense che negli anni ha avuto pure dei bei problemi di condizionamento politico. Non portiamo la televisione lontano dal largo pubblico».

Dicono che capire quello che passa per la testa dell'uomo della strada e che succede sotto le finestre di casa sia sempre stata una sua mania...
«Sì, sin da bambino per me vivere ha significato guardare i miei simili nella quotidianità con cui si presentano. Nella casa di via della Pergola il giornale non mancava mai. Sfogliare quelle quattro pagine era per me scrutare il mondo in tutte le sue sfaccettature. Sono sempre stato curioso, di tutto. Fosse la vita della gente qualunque che nella Firenze degli Anni Venti vedevo svolgersi sotto casa o nella traversa di via Nuova dei Caccini, con i suoi rigattieri, le botteghe, le tre case di tolleranza. O fosse la grande politica, quella che negli anni di Moro e Fanfani, Gronchi e La Pira, ho visto dispiegarsi sotto i miei occhi, da Roma al Cremlino o alla Casa Bianca. Perché allora ero direttore de “Il Popolo”, il quotidiano della De, ma di fatto sono stato per decenni “l'uomo di fiducia” dell'establishment democristiano. Vale a dire della classe dirigente più duratura che l'Italia abbia mai avuto».

E infatti L'uomo di fiducia è il titolo di un libro che lei ha scritto con Giorgio Dell'Arti, pubblicato da Mondadori nel 1999. Un libro denso di spiazzanti dettagli sulle dinamiche sommerse di cinquanta anni di potere italiano che lei ha vissuto dentro la stanza dei bottoni. E poi ammissioni che di solito non si fanno, ad esempio sulla sua appartenenza all'Opus Dei. O sul patto tra De Gasperi e Mattioli, con cui laici e cattolici si divisero, zitti zitti, gli ambiti di rispettiva competenza. Ma in tutte queste turbolenze «l'uomo di fiducia» aveva tempo anche per i libri?
«Se si vuole c'è tempo per tutto. A cominciare dal raccoglimento spirituale e dalla preghiera. Vede questo? È il Salterio, il Libro delle lodi che costituisce l'ossatura della liturgia delle ore. Contiene i salmi, le letture che compongono i momenti di preghiera della vita del cristiano. Un tempo erano solo in latino. Adesso ci sono varie edizioni italiane, ma a fame una prima versione in italiano, almeno delle lodi della domenica, era stato Dossetti quando aveva lasciato la vice-segreteria della De per farsi monaco. Ciclostilava la sua traduzione per la domenica in arrivo e ce la faceva avere, a noi che gli eravamo stati vicini. A me, a La Pira, a Fanfani».

Ma da ragazzo non avrà cominciato col Libro delle lodi?
«In casa c'era il “Corriere dei Piccoli” per me. E mio padre comprava i Classici Italiani pubblicati negli Anni Trenta da Rizzoli, su bellissima carta e con gran cura tipografica. E poi i romanzi a fascicoli, che lui faceva rilegare. Eccoli lassù, nella libreria che lei vede in questo studio».

E accanto ci sono bei quadri. Balla, Guttuso, Rosai...
«Quasi sempre sono quadri di artisti che ho conosciuto personalmente. Spesso amici. Li vedevo all'opera e allora mi piaceva l'idea di un quadro che avevo visto nascere»

Eravamo ai classici, ai libri importanti...
«Sì, i libri sono importanti, ma appartengo a una generazione che credeva anche ai maestri in carne e ossa. Li sapeva cercare e riconoscere. Andavo all'oratorio. Andavo in parrocchia da don Raffaele Bensi, luminosa figura di sacerdote ed educatore fiorentino. Nei miei anni universitari, con un gruppo di miei coetanei, presso di lui ho avuto la fortuna di incontrare stabilmente dei veri maestri. Non solo cattolici come La Pira, Sansone, Maggini ma anche figure di diversa collocazione, da Calamandrei a Momigliano. E proprio don Bensi, in un'epoca in cui molti libri fondamentali per la formazione di un giovane erano messi all'indice dalla Chiesa, mi aveva fatto avere la dispensa dall'arcivescovo Elia Dalla Costa. Così feci i conti con il Bernanos dei Grandi cimiteri sotto la luna che raccontava i misfatti del franchismo durante la guerra civile spagnola. Con Maritain e con i testi del cattolicesimo francese. Ma anche Unamuno, Huizinga».

E con gli scrittori italiani?
«Ne ho conosciuti tanti. In redazione alla “Nazione del popolo” dove ero stato chiamato da Vittore Branca, c'erano con me, nell'estate del 1945, Cassola e Cancogni, Bilenchi e Pratolini. Più avanti nella Rai che andai a dirigere, quella delle inchieste di Zavoli e Biagi ma anche dei grandi sceneggiati tratti dai classici, da Il Mulino del Po a Delitto e castigo sino al Cronin de La cittadella, che classico non era ma funzionò benissimo, c'era Giorgio Bassani vice-presidente. Molto schivo, molto timido. Ma di narrativa, sia quando ero al Popolo sia alla Rai, ne leggevo poca: selezionavo molto. Frequentavo di più la saggistica. Infatti ricordo un Keynes, letto al mare, sotto l'ombrellone a Fregene».

E ora?
«Leggo al mattino presto e la sera, dopo aver “annusato i barattoli” di quel che ammannisce la tv. Le letture che ho in corso? Libri che facciano capire dove sta andando questo mondo ostaggio della finanza spregiudicata e della crisi globalizzata. Letture affiancate e intrecciate. Ad esempio di Loretta Napoleoni Crisi del capitalismo e Economia canaglia usciti dal Saggiatore. O il Richard Sennet de L'uomo artigiano, appena pubblicato da Feltrinelli: molto interessante. E alcune cose di Zygmunt Bauman, quello della “società liquida” per capirci»

E poi riesce a dormire?
«Benissimo. Basta pregare, anche solo un attimo, ma con convinzione. È sufficiente».


Tuttolibri La Stampa, 14 marzo 2009

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