17.1.18

Declino degli Hohenstaufen. La decapitazione di Corradino e la cella di re Enzo (Amedeo Feniello)

Napoli - La tomba e la statua di Corradino di Svevia
nella Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore 
L’immaginario di un Medioevo immobile si scontra spesso con la realtà che esso fu tutto tranne che immutabile. Questo anche se si considerano le sorti delle famiglie reali, che in genere immaginiamo eterne, espressione mitica della lunga durata. Le loro fortune furono invece sovente piuttosto rapide nell’esaurirsi, entro quattro, al massimo cinque generazioni. È il caso degli Hohenstaufen, la cui parabola, dal primo imperatore, Federico I Barbarossa sino al suo epigono, Corradino, dura poco più di cento anni, dal 1155 al 1268. Con gli ultimi vissuti in un declino irreversibile.
La loro fortuna comincia intorno a un monte: lo Staufen, dalla forma a calice, da cui il nome familiare ( hohen significa alto), sito nell’odierno distretto di Göppingen, Land del Baden-Württemberg. Si fanno largo tra la nobiltà locale, fin quando, nel 1079, il capostipite Federico riceve dall’imperatore Enrico IV il titolo di duca di Svevia. Con una ascesa che, dopo una serie di conflitti, guerre, scalate al potere, terminerà con l’elezione di Federico Barbarossa a re di Germania, il 5 marzo 1152.
Imperatore, Federico lo diventerà dopo, il 18 giugno 1155. Poi inaugura una politica di massima simbiosi tra Hohenstaufen e impero, con l’instaurazione determinata di un ordine che garantisse al clan una presenza duratura e pervasiva su tutto il loro dominio, in particolare laddove conduceva la tradizione: in Italia. Politica seguita da suo figlio Enrico VI e ribadita dal nipote Federico II, che ampliano i confini del potere familiare, aggiungendo la perla del Regno di Sicilia al diadema imperiale.
Ma dopo Federico II, che muore nel dicembre 1250, tutto muta. Il potere degli Hohenstaufen è seriamente minacciato. Una raffica di difficoltà – dalle crescenti autonomie cittadine alla riottosità dei grandi signori feudali; dall’emergere della Francia come potenza continentale allo scontro con la Chiesa – aumenta le tensioni. Ma la tradizione familiare di dominio imperiale va perseguita e non si può abbandonare. I figli di Federico II, legittimi e illegittimi, perseverano perciò sulla scia tracciata dal padre. Ma il carisma, il prestigio e soprattutto la sorte e il tempo non stanno dalla loro. Ci prova l’erede designato, Corrado IV, che avrebbe il piglio politico e la spregiudicatezza per seguire le orme del padre, ma muore troppo presto, nel 1254. Ci prova il suo fratellastro Manfredi a bloccare le aspirazioni franco-angioine, ma inutilmente. E a Benevento, nel 1266, si frantumano tanto il sogno svevo meridionale quanto il controllo ghibellino sul resto dell’Italia. L’avventura di Corradino, figlio di Corrado IV, resta, sebbene intrisa di un forte sapore romantico, effimera. Egli si scontra con chi possiede troppa esperienza più di lui e tanto pragmatismo: quel Carlo I d’Angiò consapevole che tutto il suo futuro sarebbe stato basato sull’equazione «morte di Corradino, vita di Carlo/morte di Carlo, vita di Corradino». La decapitazione del giovane a Napoli, per quanto violentissima e vituperata, è la chiara espressione della politica angioina di cancellazione, perseguita con ogni mezzo, della presenza sveva non solo nel Mezzogiorno ma in tutta Italia.
In questo rapido declino, resta una storia da raccontare. È quella dell’altro figlio illegittimo di Federico II, Enzo, re di Sardegna. Fatto prigioniero dai bolognesi quando ancora il padre è in vita, viene incarcerato, anche in condizioni di estrema durezza, per 23 anni, fino alla morte, avvenuta nel 1272. A lui toccò la sorte peggiore: vedere sgretolarsi, giorno dopo giorno, tutto quello che, a duro prezzo, i suoi antenati Hohenstaufen avevano creato.

La Lettura - Corriere della Sera, 29 ottobre 2017

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