Nell'Otello secondo
Carmelo Bene non si muore, non muore nessuno. La “sospensione
del tragico”, che è un po’, dichiaratamente, la chiare
interpretativa dello spettacolo, è motivata con il fatto che «tutto
è già avvenuto». Non si rappresenta, si evoca. Ed è anche un modo
di recuperare e rifondare la borghese impossibilità del tragico, di
tornare a denunciarla in modi nuovi. E di ripuntare, così, sopra la
nostalgia del tragico, ancora. Che qui è doppiala sopra la nostalgia
dell'onore, nel senso forte, e non certo in quello coniugalmente
meschino della parola. Sopra la nostalgia dello stile.
A discorrerne con Bene in
persona, che ha portato l'Otello qui allo Stabile di Genova, per le
ultime, se non proprio le ultimissime (lo aspetta un recupero a Jesi,
se ricordo giusto) repliche, la rete delle sovradeterminazioni, cioè
degli intrichi tentatici e simbolici che si coagulano in ogni gesto e
parola e suono, si dispiega inesauribile e avvolgente. In antitesi a
un teatro rappresentativo, che mira a chiudere, a concludere comunque
poco importa, se in registro comico o tragico, in lieto fine o in
catarsi, la sospensione di Bene è, in primo luogo, una sublime arte
di deliberata inconcludenza. La nostalgia, come memoria, si colloca
al polo opposto del desiderio. Si risolve in pulsione di morte. Ma,
negazione di eros, Otello, precisamente come rivisitazione
funerea, è insieme negazione di Thanatos. L'impossibilità della
catarsi risolutiva è frustrazione perpetua dinanzi al sogno di
morire.
Tutto questo può
risultare assai più limpido a chi abbia in mente le conclusioni di
Alessandro Serpieri, che l’anno scorso ha pubblicato, proprio
all’insegna dell’eros negato, |per le edizioni milanesi del
Formichiere, la redazione definitiva della sua minuziosissima analisi
del testo di Shakespeare, come «psicoanalisi di una proiezione
distruttiva». A guardare Bene, servendosi di Serpieri, non già come
guida, il che risulterebbe assolutamente deviante, ma come reagente,
si afferrano subito alcuni nodi decisivi. Si comprende, anzitutto,
che la sospensione, la volontà di «sospensione» si avventa, in
Bene, sopra un dramma, anzi il dramma anticatartico per eccellenza.
Ma si comprende anche come, dalla tragedia dell'invidia,
nell'accezione radicalmente kleiniana della parola, che scavalca la
superficiale apparenza di una semplice tragedia della gelosia, e
porta Jago al centro, si trapassi d'un colpo, qui all'autoanalisi
fantasmaticamente monologante, per questo Otello, non tanto centrale,
quanto unico, anche con implicazione stirneriana. Del quale Cassio e
Jago, ectoplasmi esteriorizzati del soggetto, sono, alla lettera,
luogotenenti, cioè proprio tenenti luogo, stadi dell'Interiorità
che si manifestano scenicamente, in una scena psichica, momenti che
l'Io espone, esibizionisticamente, e piuttosto pone, fuori dell'Io, e
piuttosto all’interno diviso dell’Io, in ogni raso perpetuamente
riassorbendoli in sé. Come sempre, in Bene, la partitura testuale è
un monologo distribuito, come su diversi livelli, su voci diverse. su
onirici accenti distinti.
Per stringere lutto in
una formula, di contro a un Jago alla Serpieri, che inocula
proiettivamente in Otello le proprie pulsioni profonde, abbiamo qui
un Otello che porta in sé un Jago, e che se lo oggettiva in immagine
e in figura per conoscerlo, per conoscersi, per sperimentarlo come
una fase, come un aspetto del proprio vissuto. E Otello rimane sì,
naturalmente, il diverso. Ma qui il conscio che cede all’inconscio,
il simbolico che si apre all’immaginario, la censura che crolla
sotto la pressione della libido, ma al di là del principio del
piacere, e dunque funebremente (oltre che al di là del bene e del
male), non sono più gli effetti di un’invidia vitale, storicamente
determinata, e antropologicamente ideologizzata, ma rappresentano, in
universale, la condizione umana. E delegato a tanto è il poeta come
diverso, o come Carmelo Bene in persona, che costruisce il suo Otello
come un dopo-Otello, appunto, come una retrospettiva
fenomenologia, memoriale e analitica, dcll'artista come unico.
Certo, il luogo critico è
Desdemiona, come in paradigma, ma degradata nel suo manifestarsi
entro l’orizzonte della realtà, nella sua praticabilità
esistenziale. «Con la presenza della donna sono entrati in campo la
famiglia, i bambini, le corna », dichiarava Bene in una intervista,
in gennaio. Il suo esistere, infatti, è già, immediatamente,
tradimento del fantasma che di lei si coltiva nel profondo. Se
l’archetipo è, leopardianamente, la donna che non esiste, l’eterna
idea del poeta, la donna non può entrare in scena che come femmina,
negazione dell’archetipo. Cosi, intanto, la autoanalisi è
regressiva. Il soglio dell'idea è il rifiuto della maturità. Anche
per Bene, alla fine, il vero educatore è Schopenhauer. Perché la
rappresentazione teatrale, negandosi come rappresentazione, rivela
come rappresentazione il mondo. La missione teatrale di Carmelo è la
pedagogia del dolore innocente, proteso verso un pessimismo con
dignità.
Nel grande candore che
investe la scenografia e i costumi emergenti da nere tenebre, e che
sbianca infine lo stesso protagonista, in un giuoco di epidermidi
marchiate e annerite dai gesti e dai contatti, innocenza e morte si
fondono simbolicamente. Il bianco è ignoranza e lutto. Il lenzuolo
di eros negato è lo «tesso lenzuolo di Thanatos. Più ancora
irrecuperabile che inattingibile. E si comprende che questa seconda
fase della ricerca scenica di Bene si blocchi, proprio. sopra una
«sospensione». La poesia come diversità è la poesìa, per natura,
dell'inconcludenza. Dall’approdo di questo Otello negato. volgendo
addietro lo sguardo sopra l’itinerario globale di Bene, si ottiene
il ritratto dell'artista come giovane unico.
Sopra il grande letto
erotico e funerario, dove i fantasmi del soggetto si rendono infine
visibili e ossessivi. e dove il mitico fazzoletto shakespeariano
s'innalza a spello onnicomprensivo, velo fantasmatico del corpo
chiuso tra amore e morte, e chiuso a amore e a morte, quasi
afferrandosi all'estrema zattera dell'estetica, tutti i valori,
dignità, decoro, stile, onore, tentano un’ultima sortita contro la
dialettica, che minaccia di sciogliere insieme quella diversità e
quella nostalgia. Quando l’estetica non vuole morire, non può
morire, non sa morire, ricorre a quella terapia che Bene riassume
nella speranza che la malattia si curi attraverso la malattia. E
respingendo la qualifica di decadente, egli non scatena,
propriamente, il meccanismo freudiano della denegazione. Quella che è
in giuoco, all'opposto, e la sua possibilità di trasparenza critica,
analitica appunto, in quei modi di narcisismo psicotico che sono, in
un simile ordine, gli unici sperimentabili, per l'unico. Nella notte
di questo Otello, la civetta che si leva in volo canta, con voce di
cigno, candidamente perverso, un canto che sogna di ritornare
eternamente.
“l'Unità”, 17 aprile
1979
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