Al
ventesimo dei Colloqui Ebraico-cristiani, svoltosi a Camaldoli nel
novembre del 1999, Giacoma Limentani presentò una relazione di cui
ampi stralci furono pubblicati in anteprima dal “manifesto”,
quelli che qui riprendo. (S.L.L.)
Jacopo Palma il Giovane, Caino e Abele (1615-20) |
Il nemico,
l’estraneo, lo straniero, il diverso.
Dall'ebreo Shvlock
al sangue di Abele, in cerca della fratellanza
Accade
a un soldato Usa in solitaria ricognizione in un villaggio fantasma
del Vietnam. La ricognizione è solitaria perché il soldato ha perso
i contatti con la propria pattuglia. Il villaggio è ridotto a
fantasma di villaggio, perché evacuato oppure abbandonato da una
popolazione che scompare e riappare, per subito riscomparire ai ritmi
della guerra, ma con la labilità propria dei fantasmi. Ed ecco, dal
fantasma di una casa annerita dal napalm, uscire un bimbo tutt’altro
che fantasmaticamente temibile, in quanto si sa che i bimbi
vietnamiti, tanto usi alla morte da non temere più la propria,
spesso si trasformano in kamikaze con bombe nascoste nel petto. Il
dito del soldato accarezza il grilletto del mitra, ma non osa
schiacciarlo perché il bimbo gli corre incontro ridendo e
indicandosi gli occhi. Quando gli arriva davanti indica anche gli
occhi del soldato, di uguale taglio obliquo perché quel soldato è
un indiano navajo dal nero sguardo orientale. L’incontro si
conclude con le razioni del soldato divise ridendo sotto un albero:
grazie agli occhi, i due si sono riconosciuti fratelli.
Sempre
a un soldato Usa, ma questa volta in Nord Africa durante la II guerra
mondiale, accade di trovarsi faccia a faccia con un soldato della
Wermacht, che come lui ha perso i contatti con la propria pattuglia.
Si scorgono entrambi ed entrambi potrebbero far fuoco, ma un pensiero
li coglie insieme: siamo tutti e due biondi, alti e come fratelli
crediamo nello stesso Dio. Perché dovremmo ucciderci? Perciò non si
uccidono, ma non si sa se hanno poi fatto merenda insieme.
Questi
due episodi, scrupolosamente registrati e rubricati nell’archivio
lasciato ai posteri dal fu Walter Capps, docente emerito di Studi
Religiosi presso l’Università di Santa Barbara in California,
hanno tutti gli elementi atti a trasformarli in edificanti ballate, e
come tali risuonare nei convegni con cui pacifisti canterini amano
fare ammenda di guerre sempre da altri volute e nelle quali sono
sempre e senza responsabilità alcuna capitati per caso. Se non che
viene spontaneo chiedersi cosa sarebbe accaduto quel lontano giorno
in Vietnam, se il soldato Usa fosse stato un fulvo vichingo, mentre a
proposito dell’ancor più distante episodio nordafricano, non è
detto che i due fraterni soldati in armi su fronti opposti, abbiano
allargato il loro generoso senso di fratellanza in Dio - oltre che
nell’altezza e nell’oro dei capelli - anche ai brunissimi nativi
della terra che i loro rispettivi eserciti combattendosi devastavano.
(...)
Oggi un coro unanime griderebbe all’infamia se qualcuno osasse
scorgere nelle bianche piaghe di un lebbroso la stigmatizzante
conseguenza di rapporti contronatura col re dei demoni. Sempre oggi
molti, o almeno si spera la maggioranza, scuoterebbero la testa
davanti ad accuse di stregoneria che comunque non accenderebbero
roghi. Ma la stessa maggioranza colta e gravida di pregiate letture,
continua ad entusiasmarsi per l'arringa di Porzia ne Il
mercante di Venezia, senza
spingersi oltre il piacere estetico che si può legittimamente trarre
dalla lettura di Shakespeare. Piacere che nel caso non è certo
estraneo a un’istintiva ripugnanza nei confronti del destinatario
dell’arringa e infine, ma sarebbe più esatto dire in
primis, a un uso del termine
misericordia, troppo spesso nelle storie del mondo e in questa
particolare storia in special modo, tutt’altro che misericordioso.
«La
misericordia ha il pregio di non essere forzata: essa scende come
pioggerella dal cielo sul terreno sottostante. Due volte è
benedetta: per chi dà e per chi riceve. Più potente dei potenti, si
addice al monarca sul trono più della corona». Parole bellissime
queste di Porzia, se non si librassero su un mondo che le considera
inutili quando rivolte a un ebreo, perché discutere di misericordia,
d’amore o di giustizia con un ebreo «è come andare sulla spiaggia
e dire all’alta marea d’abbassare il suo livello, è come
disputare con il lupo sul perché abbia strappato alla pecora
l’agnello». Di un ebreo ci si può al massimo far gioco, ma lo
stesso gioco che è bello, gioioso e misericordiosamente
affratellante quando apre il cuore a riso sincero, se reiterato e
portato all’estremo può essere lama di pugnale che il cuore lo
inaridisce.
(...)
Ogni senso di chiusa, convinta superiorità che a se stessi e al
proprio gruppo consente, quando non impone moralmente, un
indiscriminato disprezzo per qualsiasi gruppo considerato altro, sa
di cripto-idolatria in quanto si manifesta con pratiche di
discriminazione e asserzioni di scherno che prima di togliere la vita
tolgono vivibilità all’anima. E devitalizzata da disprezzi e
schemi è l’anima di Shylock, che nella Venezia in cui Porzia è
gran signora, che è poi una Venezia prospera di commerci, dovrebbe
vergognarsi di essere mercante. Chi in una società in cui l’usura
è pratica usuale ma nascosta, presta denari alla luce del giorno e
un bel giorno, accordando un prestito ad Antonio, amico di Porzia e
signore che più d’ogni altro in Venezia l’ha schernito e
vilipeso, in caso di insolvibilità chiede una libbra di carne da
tagliare all’altezza del cuore. Shylock è dipinto con le più cupe
tinte del peggiore stereotipo antiebraico, e la sua richiesta è
crudele al punto di rasentare la foiba, ma proprio perciò
bisognerebbe chiedersi dove è scritto che odio e scherno e offese e
l’alienazione di una figlia siano panacee per la mente di chi li
subisce. Come pure bisognerebbe chiedersi quanti, fra gli ammirati
lettori di Porzia, con la stessa attenzione hanno letto e leggono le
ragioni per cui Shylock pretende la carne di Antonio.
(...)
Per uomo bisogna qui intendere ha-adam,
la prima creatura fatta di alito divino e terra, e plasmata a un
tempo maschio e femmina in una carne sola, destinata a separarsi
nelle due componenti sessuali, per meglio conoscere e farsi conoscere
in modo da tornare spontaneamente a fondersi nell’unica carne
dell’amore. Può esservi possesso solo quando nell’essere
desiderato c’è desiderio di dedizione e comunione. Può esservi
comunione solo quando è reciproco l’anelito a fratellanze radicate
nella stima di ogni essere per il proprio prossimo, nell’onore che
gli tributa.
Non
per caso nel quarto capitolo del Cantico
lo sposo dell’anima che parla con parole di carnalissimo amante,
chiama l’amata ra’yatì:
prossima mia, femminilizzando quel prossimo
che va amato e rispettato al pari di sé stessi, perché di ognuno di
noi stessi è parte. E ahitì,
sorella mia la chiama prima di chiamarla callah:
sposa. Una sposa desiderata, e pressata all’amore, che però ha il
diritto di restare «giardino chiuso» e «fonte sigillata», finché
per libero anelito di passione spontaneamente non decida di aprirsi
ayedidì, il suo diletto, e di invitarlo a godere dei propri profumi.
C’è rispetto fraterno in questo amore espresso con termini che più
carnali non potrebbero essere, e che ancor più fanno riflettere
quando elevati ad allegoria dell’amore fra l’Eterno creatore e la
sua sposa Israele. Se il Creatore dell’Universo sa e può attendere
che il giardino dell’anima umana gli venga spontaneamente aperto,
prima di penetrarvi per esservi riconosciuto Signore, a maggior
ragione dovrà riflettere e dare e darsi tempo chiunque sulla terra
pretenda di far proprio chiunque altro.
Sulla
terra siamo tutti figli dell’Eterno Padre Creatore e perciò tutti
fratellii. Quel che manca a molti, atroppi, è un’effettiva
comprensione del termine fratello. Troppi sono vittime di un’assenza
di comprensione che potrebbe risalire a Caino e che, se così fosse,
renderebbe ancor più espbcita la divina clemenza che impone di
risparmiarlo ovunque se ne vada ramingo, per sfuggire alla terra che
lo accusa di averle fatto ingoiare il sangue di Abele. Caino deve
girare la terra e studiarne gli abitanti alla maniera di un arcaico
Balzac, per riconoscersi negb albi, capire cos’è un fratello e
poter infine rispondere che suo fratello è dappertutto, in ogni viso
in cui si specchia, in ogni occhio che incontra i suoi, in ogni mano
che stringe la sua. Purtroppo allora la mano di Caino si levò per
uccidere e sotterrare segnando la storia umana. Ma molto la storia
umana è stata segnata anche dall’interpretazione che
tradizionalmente viene data della sua risposta alla domanda: «Dov’è
tuo fratello?». Non si potrebbe leggerla altrimenti questa risposta,
visto che nell’originale ebraico, a me almeno, sembra offrire
diverse chiavi di lettura? Quel suo «non lo so», duro, categorico,
menzognero, in ebraico non suona eneniyode’a,
io non so, bensì loyada’ti,
al passato, un passato che potrebbe ammorbidirsi nel più incerto e
meno sfrontato: non saprei. Ma quel passato offre, sempre a me,
un’altra chiave di lettura dell’intera risposta, che non
suonerebbe più: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio
fratello?» Bensì: «Non sapevo di essere il guardiano di mio
fratello». E stato detto e scritto che Adamo ed Eva, creati adulti e
con tutte le facoltà di individui adulti, erano pero bambini nella
mancanza di passato e quindi della memoria di responsabilizzanti
esperienze. Perciò sbagliavano e in certo senso dovevano sbagliare:
sbagliando s’impara.
Troppo
presi a imparare, come potevano insegnare a quei loro primi due figli
cosa significhi essere fratelli e in cosa consista una fratellanza
che, al di là di loro stessi, avrebbe dovuto abbracciare un’umanità
in fieri, che certo non riuscivano neanche a immaginare? Per tanta,
comprensibile ignoranza, sulla fronte di Caino è stato imposto un
marchio al momento salvifico, epperò poi standardizzato e stampato
su troppe altre fronti. Spesso fronti di individui che mai avevano né
si sarebbero sognati di uccidere, ma che venivano e vengono
considerati capaci di farlo per via di pelli o fedi diverse, e quindi
non più fratelli, con le drammatiche conseguenze che abbiamo sotto
gli occhi ogni giorno. Ma la più profonda e nascosta difficilmente
accettabile radice del dramma sta nel fatto che molto, troppo spesso,
le emarginazioni, i rifiuti, le accuse, le persecuzioni, gli eccidi
prendono di volta in volta l’avvio, non tanto da odio disumano e
disumanizzante, quanto da umanissima, malintesa, faziosa pretesa
d’amore. Perché amore può essere sinonimo d’ingiustizia.
Amando
troppo Giuseppe, Giacobbe non scatenò forse l’odio degli altri
figli contro quell’unico preferito? E quell’odio non scatenò
forse all’interno della famiglia una drammatica separazione? È
scritto che verso la fine dei suoi giorni, quando al termine della
lunga separazione potè riabbracciare il dilettissimo Giuseppe,
Giacobbe pianse. Perché pianse? Un midrash
spiega che Giacobbe pianse perché, concedendosi quell’ultimo,
speciale abbraccio, si strappava anche dal cuore il di più d’amore
per Giuseppe, che lo aveva portato a fare differenze fra i suoi
figli, così seminando gelosie e odio.
Amore
e fratellanza comportano giustizia. Quando non la comportano, sono un
carcere non solo per chi ne subisce le conseguenze, anche per chi
agisce, a sua volta agito da pregiudizi che spesso gli sono stati
inculcati da vizi di pensiero atavici. Uscendo dal carcere in cui era
stato rinchiuso da un regime che a pregiudizi e discriminazioni
aggiungeva la violenza, l’ancor giovane Vittorio Foa, una delle più
libere menti di questa nostra Italia di fine millennio, così
scriveva ai genitori: «Arrivato al termine della mia dura e lunga
esperienza di galera, non ritrovo in me quella gioia smodata che
l’immaginazione presagiva; ma solo un senso di grave
responsabilità». Fratellanza e responsabilità reciproca non
possono non essere sinonimi.
“il
manifesto”, 25 novembre 1999
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