8.1.18

Per amore di Caino (Giacoma Limentani)

Al ventesimo dei Colloqui Ebraico-cristiani, svoltosi a Camaldoli nel novembre del 1999, Giacoma Limentani presentò una relazione di cui ampi stralci furono pubblicati in anteprima dal “manifesto”, quelli che qui riprendo. (S.L.L.)
Jacopo Palma il Giovane, Caino e Abele (1615-20)

Il nemico, l’estraneo, lo straniero, il diverso.
Dall'ebreo Shvlock al sangue di Abele, in cerca della fratellanza
Accade a un soldato Usa in solitaria ricognizione in un villaggio fantasma del Vietnam. La ricognizione è solitaria perché il soldato ha perso i contatti con la propria pattuglia. Il villaggio è ridotto a fantasma di villaggio, perché evacuato oppure abbandonato da una popolazione che scompare e riappare, per subito riscomparire ai ritmi della guerra, ma con la labilità propria dei fantasmi. Ed ecco, dal fantasma di una casa annerita dal napalm, uscire un bimbo tutt’altro che fantasmaticamente temibile, in quanto si sa che i bimbi vietnamiti, tanto usi alla morte da non temere più la propria, spesso si trasformano in kamikaze con bombe nascoste nel petto. Il dito del soldato accarezza il grilletto del mitra, ma non osa schiacciarlo perché il bimbo gli corre incontro ridendo e indicandosi gli occhi. Quando gli arriva davanti indica anche gli occhi del soldato, di uguale taglio obliquo perché quel soldato è un indiano navajo dal nero sguardo orientale. L’incontro si conclude con le razioni del soldato divise ridendo sotto un albero: grazie agli occhi, i due si sono riconosciuti fratelli.
Sempre a un soldato Usa, ma questa volta in Nord Africa durante la II guerra mondiale, accade di trovarsi faccia a faccia con un soldato della Wermacht, che come lui ha perso i contatti con la propria pattuglia. Si scorgono entrambi ed entrambi potrebbero far fuoco, ma un pensiero li coglie insieme: siamo tutti e due biondi, alti e come fratelli crediamo nello stesso Dio. Perché dovremmo ucciderci? Perciò non si uccidono, ma non si sa se hanno poi fatto merenda insieme.
Questi due episodi, scrupolosamente registrati e rubricati nell’archivio lasciato ai posteri dal fu Walter Capps, docente emerito di Studi Religiosi presso l’Università di Santa Barbara in California, hanno tutti gli elementi atti a trasformarli in edificanti ballate, e come tali risuonare nei convegni con cui pacifisti canterini amano fare ammenda di guerre sempre da altri volute e nelle quali sono sempre e senza responsabilità alcuna capitati per caso. Se non che viene spontaneo chiedersi cosa sarebbe accaduto quel lontano giorno in Vietnam, se il soldato Usa fosse stato un fulvo vichingo, mentre a proposito dell’ancor più distante episodio nordafricano, non è detto che i due fraterni soldati in armi su fronti opposti, abbiano allargato il loro generoso senso di fratellanza in Dio - oltre che nell’altezza e nell’oro dei capelli - anche ai brunissimi nativi della terra che i loro rispettivi eserciti combattendosi devastavano.
(...) Oggi un coro unanime griderebbe all’infamia se qualcuno osasse scorgere nelle bianche piaghe di un lebbroso la stigmatizzante conseguenza di rapporti contronatura col re dei demoni. Sempre oggi molti, o almeno si spera la maggioranza, scuoterebbero la testa davanti ad accuse di stregoneria che comunque non accenderebbero roghi. Ma la stessa maggioranza colta e gravida di pregiate letture, continua ad entusiasmarsi per l'arringa di Porzia ne Il mercante di Venezia, senza spingersi oltre il piacere estetico che si può legittimamente trarre dalla lettura di Shakespeare. Piacere che nel caso non è certo estraneo a un’istintiva ripugnanza nei confronti del destinatario dell’arringa e infine, ma sarebbe più esatto dire in primis, a un uso del termine misericordia, troppo spesso nelle storie del mondo e in questa particolare storia in special modo, tutt’altro che misericordioso.
«La misericordia ha il pregio di non essere forzata: essa scende come pioggerella dal cielo sul terreno sottostante. Due volte è benedetta: per chi dà e per chi riceve. Più potente dei potenti, si addice al monarca sul trono più della corona». Parole bellissime queste di Porzia, se non si librassero su un mondo che le considera inutili quando rivolte a un ebreo, perché discutere di misericordia, d’amore o di giustizia con un ebreo «è come andare sulla spiaggia e dire all’alta marea d’abbassare il suo livello, è come disputare con il lupo sul perché abbia strappato alla pecora l’agnello». Di un ebreo ci si può al massimo far gioco, ma lo stesso gioco che è bello, gioioso e misericordiosamente affratellante quando apre il cuore a riso sincero, se reiterato e portato all’estremo può essere lama di pugnale che il cuore lo inaridisce.
(...) Ogni senso di chiusa, convinta superiorità che a se stessi e al proprio gruppo consente, quando non impone moralmente, un indiscriminato disprezzo per qualsiasi gruppo considerato altro, sa di cripto-idolatria in quanto si manifesta con pratiche di discriminazione e asserzioni di scherno che prima di togliere la vita tolgono vivibilità all’anima. E devitalizzata da disprezzi e schemi è l’anima di Shylock, che nella Venezia in cui Porzia è gran signora, che è poi una Venezia prospera di commerci, dovrebbe vergognarsi di essere mercante. Chi in una società in cui l’usura è pratica usuale ma nascosta, presta denari alla luce del giorno e un bel giorno, accordando un prestito ad Antonio, amico di Porzia e signore che più d’ogni altro in Venezia l’ha schernito e vilipeso, in caso di insolvibilità chiede una libbra di carne da tagliare all’altezza del cuore. Shylock è dipinto con le più cupe tinte del peggiore stereotipo antiebraico, e la sua richiesta è crudele al punto di rasentare la foiba, ma proprio perciò bisognerebbe chiedersi dove è scritto che odio e scherno e offese e l’alienazione di una figlia siano panacee per la mente di chi li subisce. Come pure bisognerebbe chiedersi quanti, fra gli ammirati lettori di Porzia, con la stessa attenzione hanno letto e leggono le ragioni per cui Shylock pretende la carne di Antonio.
(...) Per uomo bisogna qui intendere ha-adam, la prima creatura fatta di alito divino e terra, e plasmata a un tempo maschio e femmina in una carne sola, destinata a separarsi nelle due componenti sessuali, per meglio conoscere e farsi conoscere in modo da tornare spontaneamente a fondersi nell’unica carne dell’amore. Può esservi possesso solo quando nell’essere desiderato c’è desiderio di dedizione e comunione. Può esservi comunione solo quando è reciproco l’anelito a fratellanze radicate nella stima di ogni essere per il proprio prossimo, nell’onore che gli tributa.
Non per caso nel quarto capitolo del Cantico lo sposo dell’anima che parla con parole di carnalissimo amante, chiama l’amata ra’yatì: prossima mia, femminilizzando quel prossimo che va amato e rispettato al pari di sé stessi, perché di ognuno di noi stessi è parte. E ahitì, sorella mia la chiama prima di chiamarla callah: sposa. Una sposa desiderata, e pressata all’amore, che però ha il diritto di restare «giardino chiuso» e «fonte sigillata», finché per libero anelito di passione spontaneamente non decida di aprirsi ayedidì, il suo diletto, e di invitarlo a godere dei propri profumi. C’è rispetto fraterno in questo amore espresso con termini che più carnali non potrebbero essere, e che ancor più fanno riflettere quando elevati ad allegoria dell’amore fra l’Eterno creatore e la sua sposa Israele. Se il Creatore dell’Universo sa e può attendere che il giardino dell’anima umana gli venga spontaneamente aperto, prima di penetrarvi per esservi riconosciuto Signore, a maggior ragione dovrà riflettere e dare e darsi tempo chiunque sulla terra pretenda di far proprio chiunque altro.
Sulla terra siamo tutti figli dell’Eterno Padre Creatore e perciò tutti fratellii. Quel che manca a molti, atroppi, è un’effettiva comprensione del termine fratello. Troppi sono vittime di un’assenza di comprensione che potrebbe risalire a Caino e che, se così fosse, renderebbe ancor più espbcita la divina clemenza che impone di risparmiarlo ovunque se ne vada ramingo, per sfuggire alla terra che lo accusa di averle fatto ingoiare il sangue di Abele. Caino deve girare la terra e studiarne gli abitanti alla maniera di un arcaico Balzac, per riconoscersi negb albi, capire cos’è un fratello e poter infine rispondere che suo fratello è dappertutto, in ogni viso in cui si specchia, in ogni occhio che incontra i suoi, in ogni mano che stringe la sua. Purtroppo allora la mano di Caino si levò per uccidere e sotterrare segnando la storia umana. Ma molto la storia umana è stata segnata anche dall’interpretazione che tradizionalmente viene data della sua risposta alla domanda: «Dov’è tuo fratello?». Non si potrebbe leggerla altrimenti questa risposta, visto che nell’originale ebraico, a me almeno, sembra offrire diverse chiavi di lettura? Quel suo «non lo so», duro, categorico, menzognero, in ebraico non suona eneniyode’a, io non so, bensì loyada’ti, al passato, un passato che potrebbe ammorbidirsi nel più incerto e meno sfrontato: non saprei. Ma quel passato offre, sempre a me, un’altra chiave di lettura dell’intera risposta, che non suonerebbe più: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» Bensì: «Non sapevo di essere il guardiano di mio fratello». E stato detto e scritto che Adamo ed Eva, creati adulti e con tutte le facoltà di individui adulti, erano pero bambini nella mancanza di passato e quindi della memoria di responsabilizzanti esperienze. Perciò sbagliavano e in certo senso dovevano sbagliare: sbagliando s’impara.
Troppo presi a imparare, come potevano insegnare a quei loro primi due figli cosa significhi essere fratelli e in cosa consista una fratellanza che, al di là di loro stessi, avrebbe dovuto abbracciare un’umanità in fieri, che certo non riuscivano neanche a immaginare? Per tanta, comprensibile ignoranza, sulla fronte di Caino è stato imposto un marchio al momento salvifico, epperò poi standardizzato e stampato su troppe altre fronti. Spesso fronti di individui che mai avevano né si sarebbero sognati di uccidere, ma che venivano e vengono considerati capaci di farlo per via di pelli o fedi diverse, e quindi non più fratelli, con le drammatiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. Ma la più profonda e nascosta difficilmente accettabile radice del dramma sta nel fatto che molto, troppo spesso, le emarginazioni, i rifiuti, le accuse, le persecuzioni, gli eccidi prendono di volta in volta l’avvio, non tanto da odio disumano e disumanizzante, quanto da umanissima, malintesa, faziosa pretesa d’amore. Perché amore può essere sinonimo d’ingiustizia.
Amando troppo Giuseppe, Giacobbe non scatenò forse l’odio degli altri figli contro quell’unico preferito? E quell’odio non scatenò forse all’interno della famiglia una drammatica separazione? È scritto che verso la fine dei suoi giorni, quando al termine della lunga separazione potè riabbracciare il dilettissimo Giuseppe, Giacobbe pianse. Perché pianse? Un midrash spiega che Giacobbe pianse perché, concedendosi quell’ultimo, speciale abbraccio, si strappava anche dal cuore il di più d’amore per Giuseppe, che lo aveva portato a fare differenze fra i suoi figli, così seminando gelosie e odio.
Amore e fratellanza comportano giustizia. Quando non la comportano, sono un carcere non solo per chi ne subisce le conseguenze, anche per chi agisce, a sua volta agito da pregiudizi che spesso gli sono stati inculcati da vizi di pensiero atavici. Uscendo dal carcere in cui era stato rinchiuso da un regime che a pregiudizi e discriminazioni aggiungeva la violenza, l’ancor giovane Vittorio Foa, una delle più libere menti di questa nostra Italia di fine millennio, così scriveva ai genitori: «Arrivato al termine della mia dura e lunga esperienza di galera, non ritrovo in me quella gioia smodata che l’immaginazione presagiva; ma solo un senso di grave responsabilità». Fratellanza e responsabilità reciproca non possono non essere sinonimi.


“il manifesto”, 25 novembre 1999

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