Non
si sa bene per quali «affinità elettive» alcuni individui, anche
se conosciuti nell’infanzia, lasciano in noi un ricordo indelebile,
che ci accompagna lungo la vita. Così è stato per Lucio Dalla, che
conobbi bambina e che ritrovai nel film dei Taviani Sovversivi, che
rividi ad un concerto di beneficenza organizzato da mio padre per la
Croce Rossa, e per il quale Lucio non volle essere pagato. E ancora,
nel tempo, le sue canzoni mi riportavano la sua voce sempre più
matura e spericolata, fino a trovare alcuni anni fa una cassetta con
le sue canzoni più belle in casa di un’amica a Fetije, un’isola
sperduta a sud della Turchia.
E
qui, sulla copertina, c’era una foto di Lucio bambino con sua madre
Jole Melotti e un’amichetta, seduti al tavolo di legno in un bar
sul lungomare di Manfredonia. Sull’altro lato, sempre Manfredonia,
ma questa volta era l’immagine dell’Arena Pesante, il cinema
all’aperto dove imperversavano i film d'amore americani, che
aiutavano la gente a tirarsi fuori dall’atmosfera cupa del
dopoguerra... Difficile descrivere lo choc tra quelle immagini e le
pozze d’acqua turchese di quell’altro mare!
E
da questo tuffo nel passato è nato un racconto sull’adolescenza di
Lucio, che all’età dello sviluppo si ricoprì di peli irsuti
perché - racconta egli stesso -sua madre gli aveva fatto fare una
cura per farlo diventare più alto! Si dice che le donne siano più
degli uomini custodi delle memorie, e in effetti confesso che questo
passato è rimasto sempre vivo nella mia mente, sotteso ad una
narrazione che sfocia nella fantasia ma rimane ancorata a un
sentimento forte. Tanto che conservo ancora un soprabito confezionato
dalla signora Jole per mia madre con l’etichetta che porta scrìtto,
sotto le due torri: «Melotti -Bologna».
Quando
quest’estate è venuto a trovarmi in Puglia l’amico fotografo
torinese Alberto Spadafora, nel mostrargli le bellezze del Gargano,
l’ho portato anche a vedere la casa dove Lucio veniva in vacanza
con sua madre, a Manfredonia, e lui ha fotografato il portoncino con
accanto ciò che resta dell’ormai distrutto cinema all’aperto.
«L'unica notte che
si ricordi,
ha detto qualcuno,
è quella della
veglia,
la notte passata in bianco.
Non si ha memoria
delle notti di sonno.
Così è l'amore:
il più
indimenticabile
è quello che non è
mai esistito»
(Héctor Abbad
Faciolince)
Lo vedeva scintillare a
ritmo di musica e lasciare delle scie luminose, lì, alla sua destra,
tra le mani di quel ragazzino taciturno che sulla pista da ballo si
trasformava: era un cilindro da uomo interamente coperto di
paillettes dorate su cui si riflettevano le luci multicolori del
dancing estivo dove ogni tanto davano anche feste per bambini. Il
ragazzino aveva uno smoking anch'esso intessuto di paillettes,
identico al cilindro, che gli dava l'aria di un piccolo uomo, minuto,
aggraziato, agile e sorridente, un Bing Crosby in miniatura. I suoi
capelli castani, schiariti dal sole dell'estate, lanciavano bagliori
simili a quelli dell'abito sotto la luce artificiale. Sotto il ciuffo
però, gli occhi scuri e la bocca sottile sul volto olivastro gli
davano un'espressione adulta e penetrante.
Al confronto, lei si
sentiva goffa nell'abitino di popeline azzurro con i ricami a nido
d'ape, il collettino smerlato da educanda e i calzini bianchi dentro
le scarpe di vernice nera. Si sentiva impacciata mentre cercava di
cantare ed imitare i movimenti sciolti e spigliati degli altri due.
Sì, perché a destra di Lucio c'era Marisa, la ragazzina del nord
che viveva come lui a Bologna e sapeva a memoria tutte le canzoni. In
più era intonata, snella e non andava mai fuori tempo, come invece
accadeva a lei. Aveva provato tante volte a ripetere tra sé e sé:
«Marieta monta in gondoa, che mi te porto al lido,,.», ma non era
mai come lo dicevano gli altri due. Benché avesse chiare in mente le
loro voci, la loro esatta pronuncia, le venivano fuori altri suoni,
scorretti, stonati, diversi. Tuttavia per nulla al mondo avrebbe
rinunciato a cantare e ballare con quei due, perché, nei rari
momenti in cui riusciva ad entrare in sintonia con loro, provava una
splendida sensazione. Era come far parte di un unico suono, di un
unico movimento sinergico, di uno slancio che annullava il confine
tra i corpi e si riverberava su di lei. Si sentiva improvvisamente
leggera, felice, al di sopra e al di là di tutto. In quei momenti si
dimenticava di sé, lo sguardo seguiva i movimenti del cilindro
abbandonandosi alle scie luminose delle paillettes, come quando, al
mare, ad occhi socchiusi, si lasciava ipnotizzare dai riflessi del
sole sull'acqua. Più tardi, molti anni più tardi, in un'isola
sperduta dello Yucatan, le avrebbero detto che quel piacere aveva un
nome: el duende, una sintonia col mondo, un'ubriacatura di musica e
di colori che le sarebbe stato molto difficile ritrovare poi. Ballare
e cantare insieme, come in certi film americani, era un gioco
speciale, che soltanto Lucio e Marisa erano capaci di fare, anche se
finiva sempre troppo presto, prima che lei avesse imparato bene i
passi, prima che potesse ottenere da Lucio un segno di approvazione,
uno sguardo d'intesa. Del resto, sapeva bene che l'altra era più
brava, più carina, più desiderabile, con quel nasino all'insù e i
riccioli neri. Sapeva che Lucio guardava sempre verso di lei, alla
sua destra, E anche lei guardava a destra, verso di lui: si
accontentava di stare assieme a loro, di scaldarsi al calore della
loro sintonia, ma segretamente sperava che l'aria sdegnosa e
altezzosa di Marisa avrebbe spinto Lucio a guardare altrove.
Le tre madri seguivano il
gioco sedute al bordo della rotonda, su sedie di legno che
traballavano affondate nella ghiaia. Due di loro erano amiche
d'infanzia che si ritrovavano ogni estate, da quando una si era
trasferita a Bologna dopo il matrimonio. Parlavano con rimpianto
della vita spensierata di quand'erano adolescenti, e guardavano
orgogliose i figli sulla pista, soprattutto Jole, la madre di Lucio,
che adorava quell'unico figlio e gli aveva confezionato personalmente
lo smoking e il cilindro, Jole era una sarta di classe e due volte
l'anno portava in provincia gli abiti alla moda da vendere alle
signore della buona società. Una volta aveva persino organizzato una
sfilata nel miglior albergo della città, con un'indossatrice
settentrionale che avanzava altera e trasognata tra due ali di
signore, sulle note di Blue Moon. Le aveva fatto molto effetto
l'ingresso, dal buio in fondo alla sala, di quella donna alta e
ieratica che indossava un lungo abito «da pomeriggio» di velluto
color rubino i cui lembi l'avevano sfiorata al passaggio, mentre,
seduta accanto a sua madre, guardava i capi della cintura - che non
capiva perché finissero con due fiocchi dorati come quelli delle
tende - rimbalzare mollemente, languidamente, sulle lunghe gambe
dell'indossatrice. Un passo, una musica, una visione che le avevano
portato l'alito di un mondo sconosciuto e lontano, forse
irraggiungibile, dove nel pomeriggio le signore si facevano belle e
seducenti, invece di sgridare i bambini e preparare la cena.
Ad ogni stagione la
signora Jole arrivava nel grande albergo con tanti bauli e con la
Cicci, la sartina in grado di «mettere a misura» gli abiti per le
signore che non avevano certo taglie da indossatrice. La Cicci,
bionda e formosa, era praticamente una nana, alta come una bambina,
ma con le forme procaci di una donna. La sua statura era un vantaggio
però quando si trattava di appuntare gli orli delle gonne, quasi
sempre troppo lunghe. Portava scarpe con la suola ortopedica e per
cucire si arrampicava su un alto sgabello che le permetteva di
arrivare dignitosamente all'altezza del tavolo su cui posava il
lavoro. Cantava spesso, con un accento inconfondibilmente bolognese,
le ultime canzoni alla moda,
Lucio non accompagnava la
madre in queste trasferte di stagione. Veniva solo d'estate, per
andare al mare. La Cicci era invece sempre presente, saltellante e
cinguettante, capace non si sa come di far entrare negli abiti anche
i più mastodontici fianchi di provincia. Le grandi pupille azzurre,
un po' sporgenti, guardavano tutto, calcolavano velocemente le
misure, le mani tozze con le unghie laccate rosso scuro scucivano,
tiravano fuori il tessuto dai posti più reconditi, imbastivano,
ricucivano, stiravano con rapidità, mentre la voce un po' chioccia
diceva cose gentili, con le esse che scivolavano golosamente nella
zeta. La Cicci era indispensabile per la signora Jole, che poteva
così dedicarsi completamente alla conversazione con le clienti.
Queste si confidavano volentieri con lei perché era una donna
affidabile ed esperta della vita, complice per natura e professione,
comprensiva e discreta come era raro trovare in provincia. La sua
unica debolezza era il figlio, al centro dei suoi pensieri e delle
sue preoccupazioni. Si crucciava perché era basso e non cresceva,
perché parlava poco, e poi perché negli ultimi tempi disertava la
scuola per chiudersi in camera a suonare: sax, pianoforte, batteria,
qualsiasi strumento, ma non i libri e la scuola.
La ragazzina ascoltava in
silenzio questi racconti, mentre sua madre cambiava abiti e cappelli.
Avrebbe voluto abbandonare anche lei la scuola, come Lucio, e pensava
con rammarico che a lei non sarebbe mai stato permesso. Provava anche
un certo sollievo al pensiero che lui passasse il tempo a far musica
invece che a giocare e divertirsi con Marisa, anche lei a Bologna
durante l'anno scolastico.
Era primavera inoltrata,
dalla finestra aperta della stanza d'albergo si vedevano sfrecciare
le rondini e le loro strida annunciavano ravvicinarsi dell'estate,
quella divina alchimia di sole e di mare che l'avrebbe liberata dal
peso dell'inverno e della scuola. Sua madre, dopo molte esitazioni,
scelse un abito vaporoso di organdis bianco a pois blu, con una larga
gonna a volant, da indossare al dancing nelle sere d'estate, Lei
avrebbe voluto essere grande per poterne averne uno altrettanto
bello, da mettere quando Lucio sarebbe tornato.
Ma quell'estate la
signora Jole non venne al mare, e neanche l'anno dopo.
A volte, passando davanti
al portoncino della casa che erano soliti prendere in affitto, lei
guardava le persiane chiuse delle finestre e si chiedeva se sarebbero
tornati un giorno. Il mare era lì, a pochi passi, lo stabilimento
con le cabine in fila, la sabbia fine, il frinire ossessivo delle
cicale tra i pini del lungomare, i ragazzini che giocavano a pallone
per strada. Tutto era come ogni estate, salvo la piccola casa al
primo piano accanto all'Arena - l'unico cinema all'aperto - che
sembrava un volto con le palpebre chiuse intorno al vuoto, muta e
silenziosa, forse per sempre.
Quando sua nonna le dava
i soldi per il gelato, certi pomeriggi dopo la calura, correva a
comprarlo dall'uomo col carrettino che era sempre piazzato sul
marciapiede del castello, di fronte all'Arena. E, mentre aspettava
che lui riempisse la forma rettangolare con un'ostia, poi col gelato
e un'altra ostia ancora a formare un piccolo sandwich, non poteva far
a meno di guardare in su, quasi di nascosto, nella speranza di vedere
una di quelle finestre finalmente aperta.
Intanto il tempo passava,
lei cresceva, tutti le dicevano che era ormai una signorinella.
Persino le gambe, prima grassocce, si stavano snellendo e allungando.
Certo, non si sentiva
bella, per quei foruncoli che ogni tanto le spuntavano sul viso, per
i capelli ricci e indomabili che sua madre voleva biondi e che,
quando erano in disordine le davano l'aria, diceva suo padre, di una
«spigatola». Ma i ragazzi la guardavano per strada, o, peggio, con
la tipica brutalità meridionale, provavano a metterle le mani
addosso, Lei tornava da scuola coi libri o andava a lezione di danza
classica con le scarpette dalla punta di gesso in un sacchetto di
tela, e alla fine aveva imparato ad usare questi oggetti come armi
improprie contro gli aggressori. Ma, anche se riusciva a difendersi,
questi episodi la facevano ugualmente soffrire, perché avrebbe
voluto vagare tranquillamente per le strade, conoscerne i tragitti,
esplorare la città, soffermarsi a guardare la gente e le cose senza
essere disturbata. Invece era costretta a camminare sempre in fretta,
saltando da un marciapiede all'altro come in una corsa ad ostacoli,
per evitare i gruppi di ragazzi che la spaventavano con sguardi,
parole e gesti aggressivi.
Spesso si guardava alto
specchio: la vita era sempre più sottile, il seno stava spuntando
lentamente. Di profilo e con i capelli raccolti dimostrava più dei
dodici anni che aveva. La danza aveva reso i suoi gesti e i suoi
movimenti più flessuosi. Ma ciò che più le piaceva in
quell'attività era preparare il saggio di fine d'anno: disegnare i
costumi, scegliere le stoffe e i colori, collaborare alle scene,
organizzare la successione dei vari «numeri», alternando i balletti
ai pezzi recitati, e alla fine presentare il tutto al pubblico, per
provare la sensazione esaltante di quella tensione, quel
cortocircuito tra chi si esibisce e chi sta a guardare, che, quando
uno spettacolo riesce, si instaura, come un respiro trattenuto, molto
prima che esplodano gli applausi.
Era sempre il vecchio
gioco che tornava, anche se in altra forma, questa volta forse con
più consapevolezza e più soddisfazione,
A tredici anni era
un'altra persona, più alta di sua madre, slanciata, col viso
affilato dallo sforzo di crescere.
Le avevano persino
affidato il ruolo di prima ballerina in un balletto: una stracciona
che doveva essere maltrattata da tutti, ricca solo della sua bellezza
e della sua dolcezza. Per la prima volta era stata felice, quando, al
centro del gruppo, aveva ricevutogli applausi del pubblico, anche se
si trattava solo di genitori e parenti.
Ma a casa aveva trovato
una brutta sorpresa: suo padre aveva deciso di toglierla dalla scuola
di danza, perché aveva ormai fattezze di donna e secondo lui era
scandaloso mostrarle in palcoscenico. Dopo tanti sforzi per
migliorare, dopo tante energie impiegate che avevano dato il loro
risultato, le speranze erano condannate a finire, e le restava
soltanto il grigiore dei professori e della scuola. Pianse a dirotto,
come si piange a tredici anni per un dolore cocente, ma suo padre fu
irremovibile.
Era il mese di giugno e
dopo poco la famiglia si trasferì al mare. Lei cercava di
dimenticare quella delusione lasciandosi ubriacare dal sole, fissando
lungamente i riflessi sul mare e giocando con i ragazzi e le ragazze
che aveva conosciuto sulla spiaggia. Saltavano uno dopo l'altro alla
cavallina lungo il bagnasciuga, e le sembrava impossibile essere
diventata così agile. Mettere le mani sulla schiena del compagno di
turno e sorvolarlo con una perfetta spaccata le sembrava un miracolo
che voleva si ripetesse all'infinito. Era in quella strana stagione
dell'adolescenza in cui voleva diventare donna ma entrava anche in
competizione con i maschi che, approfittando della sua fragilità,
volevano sopraffarla. Avendo la stessa età, non accettava la
differenza, voleva anche per sé la loro forza e la loro libertà, e
non si rassegnava al ruolo di femminuccia, in cui intuiva un odore di
sconfitta.
Ma qualcuno riferì in
famiglia le sue prodezze in riva al mare, e incominciarono i divieti
e le proibizioni: era immorale che una ragazza facesse certi giochi
con i maschi sotto gli occhi di tutti. Doveva stare seduta sotto
l'ombrellone e non allontanarsi dallo sguardo vigile di sua madre,
doveva occuparsi delle sorelle più piccole e rifiutare gli inviti
dei compagni.
Costretta ad accettare
tutto questo, meditava vendette sottili: un pomeriggio decise di
farsi un costume a due pezzi, che suo padre non le avrebbe mai
comprato, per indossarlo quando lui non scendeva in spiaggia. Certo,
prima o poi l'avrebbe scoperta, ma finché non se ne fosse accorto,
avrebbe potuto fare di testa sua. Mentre era intenta a cucire, la
raggiunse la voce di sua madre: «È tornata la signora Jole. Domani
andiamo a trovarla».
Salendo i pochi gradini
che portavano al primo piano, lei moriva dalla voglia di sapere se
avrebbe rivisto anche Lucio. Sulla porta le accolse la deci,
sorridente, espansiva, tutta moine e cinguettìi. La stanza da pranzo
era quasi buia, per le persiane ancora chiuse contro l'afa del
pomeriggio inoltrato. Al centro del tavolo, un piatto con una grande
anguria rossa tagliata a fette diceva che il pranzo era da poco
finito. La signora Jole era venuta in vacanza, ma aveva portato per
poche clienti dei capi autunnali che stava sistemando sulle
stampelle. Dopo i primi convenevoli, la sua attenzione fu attratta
dalla trasformazione della ragazzina. E subito volle farle provare un
abito da grande. Era una «princesse» a pied-de-poule bianco
e nero, con la gonna stretta e una sottile cintura di pelle rossa.
Lei non aveva mai indossato un abito come quello. Le stava d'incanto,
senza neanche il bisogno di un ritocco. «Sarebbe perfetto per il
primo giorno di scuola - disse la signora Jole - visto che il
prossimo autunno andrai al ginnasio». Ed aggiunse: «Vai, vai sul
terrazzo a farti ammirare da Lucio. Gli farà piacere. Non vi vedete
da tanto tempo!»
Improvvisamente lei si
sentì di nuovo goffa e impacciata. Ma poi pensò che non era più
come prima, che avrebbe potuto parlargli del suo successo e del suo
disinganno - lui l'avrebbe capita - e soprattutto che questa volta
non c'era Marisa a farla sfigurare. Si diresse verso le persiane
socchiuse e le scostò con circospezione: Lucio era di spalle, in
pantaloncini corti, di fronte alla balaustra del terrazzo, assorto a
guardare il mare che occhieggiava tra i pini. Sentendo il rumore
delle persiane, si girò verso di lei. Ma lei non lo riconobbe: vide
una specie di orango venirle incontro. Un pelo folto e scuro gli
ricopriva tutto il corpo, le gambe e le braccia, tanto da farlo
assomigliare a un gorilla. Lei rimase scioccata, non riusciva a
credere che fosse lo stesso ragazzo che tre anni prima le piaceva
tanto.
«Ciao, come stai?»
disse timidamente.
«Ciao» rispose Lucio,
che aveva colto il disagio di lei e ne era a sua volta imbarazzato.
La guardò come da una
grande lontananza, con la rassegnazione di chi sta dall'altra parte
di una barriera invisibile, e si girò di nuovo a guardare il mare.
Lei rimase ferma per un
attimo, senza saper cosa fare. Avrebbe voluto subito cancellare quel
momento, rimangiarsi lo sguardo stupito che non aveva saputo
controllare, inventarsi un'indifferenza che non aveva avuto, né
prima, né sul momento, né dopo. Ma non era possibile tornare
indietro e vivere in un altro modo qualcosa che era ormai avvenuto,
cancellare la delusione e l'angoscia che ancora la tenevano stretta.
E il dolore che - ne era sicura - gli aveva provocato solo con uno
sguardo. Allora, mortificata, rientrò nella stanza e richiuse le
persiane dietro di sé.
Tornando a casa con sua
madre, lungo il mare che nel frattempo era diventato grigio spento,
come nei suoi incubi notturni, lei ripensava ai divieti che l'avevano
fatta piangere. Ne sentiva ancor più la stupidità, l'inutilità e
l'ingiustizia, di fronte al vero, pungente, incancellabile dolore che
quel giorno le aveva riservato la vita.
Alias - il manifesto 17 marzo 2012
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