Elisabetta Pozzi interpreta Fedra nell' "Ippolito corronato" di Euripide. Siracusa giugno 2010 |
Leggendo La Luminosa.
Genealogia di Fedra (Feltrinelli,
1990) di Nadia Fusini, mi venivano in mente le note di
Wittgenstein sul Ramo d’oro di Frazer e l’impressione di
lucida inutilità che mi lasciarono. Egli notava infatti, come più
recentemente tutta la moderna antropologia culturale, che Frazer
commisurava culture, riti e miti all’oggi, quasi che fossero una
parafrasi primitiva d’un sapere, mentre ad ogni tempo essi avevano
avuto la loro compiutezza e andavano studiati come segni di culture
in sé significanti. Vero, ma neanche il rimando alla
autoreferenzialità del mito - una volta fatta questa avvertenza - dà
molto, e paradossalmente lo stupore e i raffronti di Frazer lo fanno
rivivere con un impatto che una corretta e pura filologia non ha.
Infatti le «Note» girano su se stesse, come semplice principio
metodologico (e chissà se l’autore le avrebbe pubblicate).
Nadia Fusini è
consapevole sia del contesto nel quale essa insegue, volta a volta,
Fedra, sia del vivere del mito scorrendo da un età e, potremmo dire,
da un campo strutturale all’altro, ogni volta perdendosi e
diversamente ricomponendosi. E in questi allacci sta uno svolgersi
della cultura non nella linearità della memoria ma nell’intreccio
e nella contaminazione di lingue diverse, come se certi grandi
territori della civiltà - come quella occidentale - non se ne
potessero mai liberare e ogni volta essi ci chiamassero ad ascoltare.
Chi ha l’orecchio per queste voci, la passione per il ritrovamento
originario e le sue trasformazioni, e il dono di raccontarli nelle
loro molte sonorità e rimandi ci porta per percorsi incantevoli.
Nadia Fusini è di costoro. Per questo rompe i confini
dell’accademia, si inoltra in territori che non sarebbero i suoi -
è un’anglista - e in questi la sua scrittura scorre al massimo
della problematicità e comunicatività e emozione.
Stavolta essa incontra
Fedra nella tragedia di Euripide che prende il nome di Ippolito
- quelle di Sofocle essendo andate perdute e anche una prima versione
di Euripide. È un tema scottante l’amore d’una donna per il
figlio del marito - passione vagamente incestuosa (Racine la dirà
tale) - e tanto piu indegna in quanto il giovane è più che casto, è
un cultore della sua intatta forza virile come forza non erotica
(anche qui Racine cambierà). Fedra non vorrebbe dire il tumulto che
la fa quasi morire, ma la nutrice le strappa la verità e cerca di
persuadere Ippolito. Questi la respinge con orrore. Fedra ascolta -
nessun dialogo è fra i due in Euripide - e si uccide, ma non prima
di avere scritto su una tavoletta che Ippolito l’ha violentata. Al
ritorno, il consorte Teseo maledice il figlio, invoca da Poseidon
vendetta e Ippolito sarà straziato da un mostro che esce dal mare.
Soltanto davanti al corpo del figlio morente Teseo apprenderà la
verità, non da lui che ha giurato di non parlare, ma da Artemide, e
non gli resterà che perdersi in una fine che la leggenda vuole vaga,
lontana e niente affatto gloriosa.
Questa la trama per così
dire privata, dei sentimenti e dei fatti, che sarà variamente
ripresa. Ma i fatti sono soltanto l’esito di forze divine che si
combattono: sono in scena sempre, muta ma potente, Afrodite e, alla
fine parlante, Artemide, la dea dell’amore carnale e la dea della
castità. È Afrodite che vuole vendicarsi del freddo Ippolito e
scatena nel cuore e nei sensi di Fedra quella furia amorosa, ma
poiché gli dei non si combattono tra loro, Artemide non può che
assistere alla tragedia che ne consegue e salvare soltanto la memoria
del suo giovane amico, svelando la verità e in qualche misura quindi
discolpando anche Fedra. Le due dee, agendo nelle vite che hanno
scelto come terreno dei propri fini - e in Fedra si maledicono gli
dei - danno dunque alla tragedia la sua perfetta simmetria fra i
personaggi e i tempi, e il suo secondo piano di lettura.
Ma questo a sua volta
rimanda a più oscure profondità. La simmetria è la forma con la
quale la tragedia «dice» la radicale dissimetria dello scontro: è
Afrodite che vince. E in lei vince l’Eros, che mai appare nella
tragedia - e non solo in Euripide - se non come forza del disordine,
e come tale parente della furia e della morte, in questo diverso dal
dionisiaco di Nietzsche. La cultura ellenica lo riceverà come un
frutto delle civiltà passate, orientali e barbariche, mai con la
consapevolezza che traspare in Ippolito. Fedra è infatti figlia di
Pasifae che amò il toro e si fece costruire da Dedalo una forma di
giovenca in cui immettersi e congiungersi con esso, generando quel
Minotauro che Teseo sfiderà nel Labirinto, guidato dalla sorella di
Fedra, Arianna. I legami - gli «allacci fatali» come scrive Nadia
Fusini - rimandano a qualcosa che va oltre Afrodite, a un principio
di eros che supera ogni umanità, diventa ferino, segna il passaggio
fra la donna e la giovenca, l’uomo e il toro, nel mostro a due
forme, perché sta - penso - nella «natura» e non nella cultura,
sta prima del «logos», la parola dei greci, che esprime ma anche
nega, e soprattutto cerca di negare nell’«indicibile», nel
silenzio, questa potente forza che le sfugge e la cui collocazione è
all’origine, là dove prima di qualsiasi immagine maschile sta la
madre, la madre terra, la madre con i sacri animali ctonii come il
serpente - in Esiodo come in altre civiltà. Fedra lo sa: regina
greca e dunque cosciente di sé e della sua «forma», ammutolisce e
quasi muore per questa presenza, lei sente che proviene dalla madre,
e che è distruttiva, di lei e di Ippolito. Questi sarà mandato a
morte dalle sue parole e da un mostro che esce dal mare nella figura
d’un toro mugghiante che non solo lo uccide ma lo fracassa, gli
rompe le ossa, gli spacca quel corpo che all'eros di natura non ha
voluto sottomettersi. Artemide non potrà che acquietarne la fine; e
forse, se Afrodite non parla, è perché lei stessa è veicolo di
questo «nefando» in senso proprio, cioè indicibile.
Ecco dunque, ci dice
Nadia, che Euripide ha «grecizzato», ridotto a civiltà della
parola il mito, non greco ma cretese, della calda e dorata Creta,
dove la dea madre montana era adorata come il principio. Ma non
riesce a risolverla nell’unità d’un femminile che il «logos»
vorrebbe verginale, sottraentesi, e profanato dall’eros: in Fedra,
figlia di Pasifae, parla l’altro desiderio femminile - quello del
congiungimento che la fa generatrice. E di nuovo le figure delle due
dee, presenti ai lati della scena, riviano a due immagini della
femminilità - Afrodite il desiderio del congiungimento, Artemide
quello della verginità, intatta in se stessa; e di nuovo la
filiazione dei due infelici protagonisti.
Fedra figlia dell’estrema
amante Pasifae, e Ippolito, figlio dell'Amazzone, all’altra nemica
e straniera, rivelano la dualità del femminile: potenza generatrice
originaria e chiusa verginità. L’una irriducibile all’altra,
compresenti nella donna come nell’ultima immagine che evoca Nadia:
la antica figura di Catal Huyuk, rappresentante una possente donna
assisa come dea o regina fra due leopardi, ritto il torso generoso e
occhi fissi davanti a sé nel volto imperturbato. Ma dalle gambe esce
una testa: forse è un atto di nascita, forse di congiungimento con
l’uomo che le rientra in grembo - essa è in tutti e due gli eventi
e in nessuno. Essa è due. Due - il «segno» di Nadia Fusini, la
chiave di ogni sua ricerca, il tragico e splendido due.
Inutile dire i rimandi
che da questa lettura sono sollecitati: dall’interpretazione dei
testi e dei reperti archeologici - la meteorite nera di Pessinunte,
l’eros, il segno oscuro di Pasifae e del Toro o la statuetta
cretese, forse ripresa da Pausania nell'immagine di cui racconta
delle due sorelle, Arianna immobile e pensosa e Fedra nell'altalena
dal duplice movimento - alle avventure delle genealogie linguistiche,
a quelle del preistorico, quando forse esistè come prima forma il
matriarcato e il maschio non era che il paredro.
Ma il rimando può essere
anche non nell’oscurità del tempo, bensì in quella
dell’inconscio. Questo modo di «leggere», più si articola nella
documentazione, più propone vie di interpretazione - e questa a sua
volta rimanda alla figura della lettrice-scrittrice-evocatrice. Anche
essa infatti esercita, come gli argolidi sui cretesi, come Euripide
sul mito già elaborato che trovava, come poi farà su Euripide
Seneca e poi Racine, un’opera di «traduzione». Che è sempre,
quando davvero è, svelamemto e della materia cui si applica e della
mente che la applica.
Mente femminile. Non so
davvero se Nadia Fusini sia inquadrabile in una delle «scuole» del
femminismo italiano: forse poche di esse ne accetterebbero il «due».
Ma non si è donne per decreto di altre donne. E lei porta l’impronta
inequivocabile d’un pensiero femminile che in autonomia ripercorre
storia e cultura, affascinato e libero, liberatorio. Un libro come
questo è impensabile nella cultura di pur valorosi storici o
antro-pologi. Come sta nella cultura di «dopo il mito», gli uomini
sono tutti figli e nipoti dei greci, e temono di sapere quel che gli
antichi cretesi confessavano: il «deinon», fra divino e terribile,
del femminile. Non a caso è una donna di oggi che può riavvicinarsi
ad esso, senza adorazione ma senza timore.
La talpalibri – il
manifesto, 1 giugno 1990.
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