12.2.18

La Sicilia del Gattopardo. Don Fabrizio va a caccia (Giuspeppe Tomasi di Lampedusa)

Ottobre 1860
La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il calore ristorava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravvivere i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze.
Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace, passava lunghe ore a caccia, dall’alba al pomeriggio. La fatica era fuori d’ogni proporzione con i risultati, perché anche ai più esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c’è quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva portare in cucina un paio di pernici cosi come don Ciccio si reputava fortunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi.
Un’abbondanza di bottino sarebbe stata d’altronde per il Principe un piacere secondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodi minuti. Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia, al lume di una candela che rendeva enfatici i gesti sul soffitto dalle architetture dipinte; si acuiva nel traversare i saloni addormentati, nello scansare alla luce traballante i tavoli con le carte da gioco in disordine fra gettoni e bicchierini vuoti, e nello scorgere fra esse il cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giardino immoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per far saltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impedita dall'edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentissima ancora ai primi albori, ritrovava don Ciccio sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentava affettuoso contro i cani; a questi, nell’attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto del pelo. Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido, e di già sembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l’erta sotto l’orizzonte; presto s'incontravano le prime greggi che avanzavano torpide come maree, guidate a sassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e i bracchi puntigliosi, e dopo quest’intermezzo assordante si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell'immemorabile silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo. Donnafugata con il suo palazzo e i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordo come quei paesaggi che talvolta s’intravedono allo sbocco lontano di una galleria ferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor più insignificanti che se fossero appartenuti al passato.

da Il Gattopardo, Cap.III

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