L'articolo contiene
notizie interessanti anche per il lettore non specialista, ma
infastidiscono non poco l'anglofilia linguistica, ai limiti del
comico, e la visione stereotipata del rapporto USA-Europa e - in
particolare - dell'Italia. La crisi di cui l'articolo parla, del Met
- come viene per brevità indicato il Metropolitan Museum di New York
-, è tutt'altro che risolta: la novità di questi giorni (entrerà
in vigore il primo marzo 2018) è il biglietto d'ingresso
obbligatorio per i non residenti (25 dollari), mentre fino ad oggi è
stato sempre in vigore l'ingresso ad offerta. (S.L.L.)
New York, Metropolitan Museum |
Nessuno saprà mai per
quale cifra Apple si sia assicurata il titolo di title sponsor
della mostra sui rapporti fra moda e tecnologia, Manus x Machina:
fashion in an age of technology, aperta al Metropolitan Museum di
New York con l’annuale gala organizzato da Us Vogue “il primo
lunedì di maggio”, come da film eponimo e che è l’unico evento
mondano di rilevanza mediatica high-pop in un panorama
focalizzato in apparenza solo sulle poderose cosce di Beyoncé nei
prati del SuperBowl.
Andrew Bolton, il
raffinato cinquantenne che ha sostituito dall’inizio dell’anno
Harold Koda alla guida del Fashion Institute del Met, è
diventato il personaggio più in vista di New York, e con ragione:
portano infatti la sua firma di curatore due delle mostre più
visitate della veneranda istituzione nei suoi centoquarantasei anni
di storia. Nel 2011 Savage beauty, dedicata a Alexander Lee
McQueen, morto suicida da appena un anno, registrò quasi 662 mila
visitatori, mentre nel 2015 China through the looking glass ne
ha totalizzati addirittura 816 mila, posizione numero cinque fra
migliaia di mostre d’arte certamente importanti, ma non di rado
prive di originalità o di un punto di vista interessante.
È stata la capacità di
riscattare il dipartimento moda del Met dal ghetto, pur raffinato, in
cui era stato confinato fin dalla sua istituzione negli Anni Settanta
per opera di Diana Vreeland, ad aver portato questo londinese
dall’aria schiva, storico compagno del designer Thom Browne, ai
vertici della scena intellettuale e artistica di Manhattan che, per
ragioni storico-etiche, è legata al successo economico come quella
italiana non saprà mai essere per ragioni storico-etiche di segno
opposto: l’intelletto premiato dal denaro in Italia puzza sempre di
prostituzione; negli Stati Uniti è una conseguenza logica e
benedetta dal Signore fin dai tempi in cui la Mayflower approdò
dalle parti di Boston. Per questo, una mostra intelligente e di
colossale riscontro di pubblico dopo l’altra, il Fashion Institute
si è trasformato dalla «bella sorellina con cui tutti vogliono
uscire ma che nessuno rispetta», come lo definiva Koda, nella
gallina dalle uova d’oro di un museo dal nome pesante almeno quanto
il suo deficit di bilancio.
Il Met è infatti in
crisi da tempo; nei giorni scorsi, il “New York Times” ha
rivelato quanto: 10 milioni di dollari di rosso, che rischiano di
quadruplicarsi entro il 2018 se non verrà messa mano sia
all’organizzazione sia, e purtroppo, al personale. Al momento,
risulta in forse persino la costruzione di quella nuova ala dedicata
all’arte contemporanea che avrebbe dovuto mettere il Met nelle
condizioni di fare concorrenza al MoMa. Al contrario del palazzone
tardo-vittoriano sulla Quinta Avenue, l’istituzione fondata nei
tardi Anni Venti da un gruppetto di brillanti signore, fra cui
spiccava la bella Abby Rockefeller, macina utili e donazioni, vedi
l’assegno da cento milioni di dollari appena staccato dal media
mogul David Geffen.
Per questo, al Met sono
diventati essenziali sia il contributo intellettuale di Bolton, sia
l’annuale cena di beneficenza che il direttore di “Us Vogue”,
Anna Wintour, dirige e organizza con il piglio per il quale va
universalmente nota e che lo scorso anno ha portato nelle casse del
Met 12,5 milioni di dollari. Dunque, non crediate che il nome di
Apple, a caccia di un riscatto di immagine nei confronti di Huawei e
Samsung, molto attivi sui social devices, sia stato identificato a
caso per sostenere una mostra che, oh sorpresa, parla di moda e
tecnologia.
La moda porta notorietà
e vendite, anche quando vende se stessa con difficoltà come le
accade in questo momento, e Bolton, antropologo di formazione, ha
capito benissimo come approcciare un pubblico che vuole sentire il
frizzo e il guizzo dell’impegno culturale senza però doversi
impegnare troppo. Partito dall’assunto che «tutti indossiamo
vestiti» e che perciò, anche senza essere degli storici, «sulla
moda tutti hanno qualcosa da dire, mentre l’arte intimidisce», in
questa nuova esposizione ha saputo coniugare con un’eccentricità
di taglio britannico un paio di temi di cui da questa parte
dell’oceano Atlantico non si vuole sentire parlare, e cioè
l’origine pesantemente sudata, faticosa, da sweatshop
dickensiano appunto, della rivoluzione industriale e di quella moda
prima tessile e poi di confezione che da oltre due secoli è
diventata disponibile per moltissimi. Ha fatto però, e naturalmente,
di più che recuperare stampe di misurazione industriale
settecentesca e tabelle di colori chimici, mostrando quanta poesia,
quanto impegno e quanto lavoro, pur non visibilmente sudato, si renda
necessario anche per la manifattura di un prodotto di moda altamente
tecnologico e non artigianale.
Da questa parte
dell’Atlantico, al concetto di alta moda si affianca solo
l’artigianato, le petites mains, le sartine e le midinettes
con la testa china a rovinarsi gli occhi per ricamare e abbellire un
capo del quale si vanteranno le centinaia di ore di lavorazione, per
cui, quando Bolton ipotizza che «la couture possa essere nata a metà
dell’Ottocento come reazione nei confronti di una moda che stava
diventando patrimonio e accesso comune grazie alla macchina da
cucire», sta dicendo qualcosa di discutibile, ma non priva di senso:
il fatto che un abito di alta moda dei tempi di Charles Frederick
Worth o di oggi possa richiedere le stesse ore di manifattura di un
abito della corte di Elisabetta I o di Luigi XV viene vantato come
segno di eccellenza e giustificazione del suo costo esorbitante, non
di rado superiore ai centomila euro.
In effetti, dopotutto, e
fatto salvo il costo del tessuto, una ricamatrice di oggi non esegue
il proprio lavoro in un tempo inferiore a quello che una sua omologa
impiegava quattro secoli fa. Eppure, quante ore di lavoro e quanto
impegno si sono resi necessari per realizzare l’abito della geniale
stilista olandese Iris van Herpen, che senza dubbi sarà il più
fotografato dai visitatori della mostra nei prossimi mesi, e che
porta sulle spalle due teschi di pavone rivestiti di silicone da cui
discendono centinaia di migliaia di penne artificiali? E come non
tenere conto delle infinite possibilità non solo tecniche, ma
soprattutto creative, dei tagli a laser o a ultrasuoni su cui stanno
lavorando, da tempo e in particolare nelle ultime collezioni, glorie
storiche della moda come Giorgio Armani ma anche nomi appena assurti
nel firmamento delle star come Christopher Kane?
Considerare artigianato e
tecnologia come mondi lontani è un errore madornale, e ne è la
riprova questa mostra, che espone uno accanto all’altro capi di
Dior ornati di quei primi dettagli artificiali in uso anche in Italia
a metà degli Anni Cinquanta (per ulteriore confronto, guardare negli
archivi costumi della Rai) e, appunto, i petali cut out della
collezione 2014 di Kane. Il capo da cui è originata la ricerca di
Bolton e la stessa immagine della mostra è un abito da sposa Chanel
Couture Inverno 2014 in scuba knit con uno strascico di quattro metri
interamente ricamato a mano: fosse stato disponibile, Josephine
Beauharnais l’avrebbe indossato volentieri prima di mettersi in
posa per David.
La tecnologia come
antagonista della creatività manuale, cioè dell’artigianato
vecchio stile e non sempre o necessariamente di ottima fattura, è un
concetto molto italiano e sul quale l’Italia continua a puntare sia
negli infiniti convegni a sostegno del “made in Italy” sia nelle
“missioni” all’estero capitanate da quel monumento al pensiero
corporativo di piccolo cabotaggio che è l’Ice, ed è un peccato,
se si pensa che molte delle innovazioni tecnologiche di cui la moda
internazionale si avvale, dai film stampati per auto, calzature e
arredi alla progettazione orafa in 3D sono italiane, insieme con
infinite sperimentazioni sui tessuti e sulle pelli.
Fra i maggiori produttori
di tessuti innovativi, la Pratrivero, spin off della Barberis
Canonico, è un modello di business che fornisce sia le grandi griffe
sia Ikea con tessuti-non tessuti low cost e si sta ampliando anche
con acquisizioni negli Stati Uniti (non siamo solo facili prede; ogni
tanto compriamo pure noi). Zegna ha appena sviluppato con la turca
Isko un tessuto denim rivoluzionario che sarà presentato fra qualche
mese. E non ci sono dubbi che le fibre man made, come il tencel,
sostenibile e molto resistente, sostituiranno a poco a poco fibre
come il cotone, altamente inquinante oltre che un potente
desertificatore.
Molti degli abiti esposti
nella mostra del Met sono, se non di design, di fattura e
realizzazione italiana. Pochissimi lo sanno, anche fra gli italiani,
anche fra gli esperti: per moltissimi, le ultime innovazioni sono
state il rayon, la salpa e il celeberrimo Lanital autarchico, anno di
lancio 1937, un filato tratto dalla caseina del latte che ai bambini
attuali ricorderebbe certi morbidissimi peluche a poco prezzo, e
l’ultima azienda chimico-tessile di una certa rilevanza la Snia.
Sarà per questo, forse,
che probabilmente, quando tre anni fa la stilista tedesca Domaske ha
provato a rilanciare il Lanital, tutti ci siamo sentiti assurdamente
orgogliosi.
Pagina 99, 7 maggio 2016
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