«Un francese che giunga
a Londra trova molti cambiamenti nella filosofia, come in tutto il
resto». Così avrebbe scritto Voltaire, esiliato in Inghilterra nel
1726. Si sentiva come chi, «lasciato il mondo pieno, lo trova
vuoto». Se infatti a Parigi — notava nelle Lettere filosofiche
— «si vede l’Universo costituito da vortici di materia
sottile; a Londra non si vede niente di tutto ciò». Oltremanica una
mela del Lincolnshire aveva cambiato tutto. Isaac Newton l’aveva
vista staccarsi dal ramo e cadere a terra. Da quel momento una serie
di interrogativi e intuizioni lo avrebbe portato a capire che «la
mela attrae la Terra come la Terra attrae la mela».
Questo avrebbe detto un
anziano sir Isaac a William Stukeley — l’amico archeologo che
così ricorda il loro incontro a Kensington, nel 1725: «Dopo pranzo
andammo in giardino a bere il tè all’ombra di alcuni meli. Mi
disse che si trovava in una situazione analoga quando, tempo
addietro, aveva concepito l’idea della gravitazione». Alla formula
definitiva, in realtà, sarebbe arrivato un ventennio dopo il
leggendario episodio e la rese nota nei Principi matematici della
filosofia naturale (1687). Complice anche l’aspra concorrenza
con Robert Hooke il quale, negli anni Ottanta, aveva ipotizzato che
le orbite ellittiche di Keplero si spiegassero con un’attrazione
gravitazionale che diminuisce «in relazione quadrata alla distanza
dal centro relativo» . Era sulla buona strada, ma continuava a
sfuggirgli ciò che neppure il ventiquattrenne Newton, al tempo della
mela, aveva compreso: ossia, che la gravitazione era una forza di
attrazione reciproca, e non solo relativa alla massa dell’oggetto
attratto dalla Terra. Ma quando quella mela cascò, Isaac aveva da
poco conseguito il baccalaureato al Trinity College di Cambridge. E,
in fuga dalla peste — che nell’estate del 1665 già infuriava a
Londra — si era rintanato per qualche mese nella casa di famiglia,
a Woolsthorpe.
Quel periodo lontano
dall’accademia sarebbe stato intenso e proficuo. «Ero nel fiore
della creatività — ebbe a ricordare Newton — e mi dedicavo alla
matematica e alla filosofia più di quanto abbia mai fatto in
seguito». E infatti, ben prima di succedere (1668) a Isaac Barrow
sulla cattedra di matematica, aveva già dimostrato il teorema del
binomio e sviluppato quel metodo delle flussioni (oggi detto calcolo
infinitesimale) — sul quale si sarebbe innescata la polemica con
Leibniz per il primato della scoperta. Eppure, la comunità
scientifica si sarebbe davvero accorta del suo genio solo nel 1671,
quando Newton impressionò i membri della Royal Society con un
telescopio a riflessione di sua costruzione. Nominato membro della
prestigiosa istituzione, si convinse così di rendere pubblica la sua
Nuova teoria sulla luce e sui colori: la luce solare non è
pura e semplice, ma «consiste di raggi che differiscono per gradi
indefiniti di rifrangibilità», ciascuno dei quali è un colore.
Quella che lui stesso definì «la più straordinaria, se non la più
considerevole, rivelazione che sia stata compiuta finora nelle
operazioni della natura», gli assicurò inimicizie e livori, a
partire da quel Robert Hooke che lo avrebbe poi costretto a rimettere
mano ai suoi calcoli su mele e corpi celesti. Pur di non concedergli
repliche, Newton decise di pubblicare l’Ottica solo dopo la morte
del rivale, nel 1704. Nel frattempo si isolò a Cambridge, dove più
che di orbite e corpuscoli luminosi, si sarebbe occupato di alchimia
e in segreto di teologia. Era seguace di Ario, e il fatto di negare
la Santissima Trinità non sarebbe stato gradito al Trinity
College... Negli ultimi vent’anni di vita ricoprì cariche di
rilievo: fu presidente della Royal Society, parlamentare e
soprattutto, dal 1699, severo direttore della Zecca di Londra. Nel
marzo del 1727, anche Voltaire era a Westminster Abbey per rendere
omaggio al «grande distruttore del sistema cartesiano» che veniva
«seppellito come un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi» .
Corriere della Sera, 30
marzo 2011
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