25.3.18

L’eretico Newton. Dalla mela ai colori, un genio infinito (Stefano Moriggi)


«Un francese che giunga a Londra trova molti cambiamenti nella filosofia, come in tutto il resto». Così avrebbe scritto Voltaire, esiliato in Inghilterra nel 1726. Si sentiva come chi, «lasciato il mondo pieno, lo trova vuoto». Se infatti a Parigi — notava nelle Lettere filosofiche — «si vede l’Universo costituito da vortici di materia sottile; a Londra non si vede niente di tutto ciò». Oltremanica una mela del Lincolnshire aveva cambiato tutto. Isaac Newton l’aveva vista staccarsi dal ramo e cadere a terra. Da quel momento una serie di interrogativi e intuizioni lo avrebbe portato a capire che «la mela attrae la Terra come la Terra attrae la mela».
Questo avrebbe detto un anziano sir Isaac a William Stukeley — l’amico archeologo che così ricorda il loro incontro a Kensington, nel 1725: «Dopo pranzo andammo in giardino a bere il tè all’ombra di alcuni meli. Mi disse che si trovava in una situazione analoga quando, tempo addietro, aveva concepito l’idea della gravitazione». Alla formula definitiva, in realtà, sarebbe arrivato un ventennio dopo il leggendario episodio e la rese nota nei Principi matematici della filosofia naturale (1687). Complice anche l’aspra concorrenza con Robert Hooke il quale, negli anni Ottanta, aveva ipotizzato che le orbite ellittiche di Keplero si spiegassero con un’attrazione gravitazionale che diminuisce «in relazione quadrata alla distanza dal centro relativo» . Era sulla buona strada, ma continuava a sfuggirgli ciò che neppure il ventiquattrenne Newton, al tempo della mela, aveva compreso: ossia, che la gravitazione era una forza di attrazione reciproca, e non solo relativa alla massa dell’oggetto attratto dalla Terra. Ma quando quella mela cascò, Isaac aveva da poco conseguito il baccalaureato al Trinity College di Cambridge. E, in fuga dalla peste — che nell’estate del 1665 già infuriava a Londra — si era rintanato per qualche mese nella casa di famiglia, a Woolsthorpe.
Quel periodo lontano dall’accademia sarebbe stato intenso e proficuo. «Ero nel fiore della creatività — ebbe a ricordare Newton — e mi dedicavo alla matematica e alla filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito». E infatti, ben prima di succedere (1668) a Isaac Barrow sulla cattedra di matematica, aveva già dimostrato il teorema del binomio e sviluppato quel metodo delle flussioni (oggi detto calcolo infinitesimale) — sul quale si sarebbe innescata la polemica con Leibniz per il primato della scoperta. Eppure, la comunità scientifica si sarebbe davvero accorta del suo genio solo nel 1671, quando Newton impressionò i membri della Royal Society con un telescopio a riflessione di sua costruzione. Nominato membro della prestigiosa istituzione, si convinse così di rendere pubblica la sua Nuova teoria sulla luce e sui colori: la luce solare non è pura e semplice, ma «consiste di raggi che differiscono per gradi indefiniti di rifrangibilità», ciascuno dei quali è un colore. Quella che lui stesso definì «la più straordinaria, se non la più considerevole, rivelazione che sia stata compiuta finora nelle operazioni della natura», gli assicurò inimicizie e livori, a partire da quel Robert Hooke che lo avrebbe poi costretto a rimettere mano ai suoi calcoli su mele e corpi celesti. Pur di non concedergli repliche, Newton decise di pubblicare l’Ottica solo dopo la morte del rivale, nel 1704. Nel frattempo si isolò a Cambridge, dove più che di orbite e corpuscoli luminosi, si sarebbe occupato di alchimia e in segreto di teologia. Era seguace di Ario, e il fatto di negare la Santissima Trinità non sarebbe stato gradito al Trinity College... Negli ultimi vent’anni di vita ricoprì cariche di rilievo: fu presidente della Royal Society, parlamentare e soprattutto, dal 1699, severo direttore della Zecca di Londra. Nel marzo del 1727, anche Voltaire era a Westminster Abbey per rendere omaggio al «grande distruttore del sistema cartesiano» che veniva «seppellito come un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi» .

Corriere della Sera, 30 marzo 2011

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