30.4.18

La poesia del lunedì. Luciano Erba (1922-2010)


Dal treno
...
è in primavera quando le robinie
quando i sambuchi usciti dall'inverno
danno assalti di fiori e di fogliame
alle villette dei capistazione
è in primavera
                 ma sì, a Voghera

da Nella terra di mezzo, 2000

Civiltà USA. Dollari, whisky e violenza (Massimo Fini, 1999)


Qui “posto” un vecchio articolo ferocemente e unilateralmente antiamericano, non so su quale giornale e in quale data esatta pubblicato, che trovo nel sito di Massimo Fini, un eccellente giornalista divenuto nel tempo un autentico reazionario, ma - in quanto tale – spesso critico acuto del presente. Risale a quasi vent'anni fa, ma a me sembra, per alcuni versi, attualissimo e mi inocula il sospetto che, nonostante il supposto declino della potenza Usa, alcuni aspetti deteriori dell'american way of life, quelli che per Fini ne sono la sostanza, continuino a diffondersi per l'universo mondo. (S.L.L.)

Dopo la strage del liceo di Denver, dove due fanatici, per onorare il genetliaco di Hitler, hanno ucciso a colpi di fucile e a suon di bombe tredici compagni di scuola e si sono poi tolti la vita, il presidente Bill Clinton ha rivolto un appello al Paese: «È ora di insegnare ai nostri figli a risolvere i conflitti con le parole e non con le armi».
Non so se Clinton si rendesse conto dello stridente e grottesco contrasto fra ciò che stava dicendo e ciò che, nello stesso momento, stava facendo in Jugoslavia. Se la pedagogia è quella dei missili e delle tonnellate di bombe che la Nato sta rovesciando sulla Serbia per risolvere un conflitto, non c'è da meravigliarsi se i ragazzi americani pensino di risolvere i loro alla stessa maniera. Qui Adolf Hitler, quello vero, non c'entra niente, Hitler sta nel cuore nero e profondo del popolo americano. Che ha la violenza, la prepotenza e il disprezzo della vita, purché altrui, nel sangue. Nell'anno scolastico '97-'98 sono stati quarantotto gli studenti e i professori assassinati nei licei Usa. In quello in corso erano nove prima della strage di Denver e, pochi giorni dopo, è stata gravemente ferita un'altra ragazza di un liceo della Louisiana. Del resto gli Stati Uniti hanno il primato mondiale nei morti da arma da fuoco.
Massimo Fini
E questo primato sinistro non deriva solo dal fatto che negli Usa la vendita delle armi è libera, e nessun presidente o Congresso ha mai osato limitarla per non dispiacere alle potenti lobbies dei fabbricanti (il denaro «non olet», come sempre), ma affonda le sue radici molto più lontano: nell'intera storia americana. I gloriosi United States of America, così democratici, liberali e morali, sono nati su un genocidio, autentico e pienamente riuscito: quello dei pellerossa. E poiché non gli bastava l'enorme superiorità del winchester sulla freccia e sull'arco, hanno distrutto uno dei popoli più poetici, più leggeri, più spirituali, col whisky e con l'alcol, così come oggi ne distruggono altri con i loro dollari oltre che con i loro missili. Sono stati gli americani i primi a bombardare le città con lo scopo dichiarato di colpire i civili e fiaccare così il morale dell'avversario, come avvenne a Dresda, a Lipsia a Berlino, e come avviene oggi a Belgrado, a Novi Sad, a Pristina. Sono stati gli americani gli unici al mondo a gettare le bombe atomiche, a Hiroshima e Nagasaki che non erano, com'è ovvio, degli obiettivi militari. Ottantamila morti in pochi secondi e conseguenze devastanti per decenni solo per far sapere ai nemici, in particolare all'Urss, che si disponeva di un'arma terribile. Sono stati gli americani i soli, insieme con Saddam Hussein, a utilizzare le armi chimiche com'è avvenuto in Iraq con le pallottole all'uranio. Nemmeno Hitler, che pur le possedeva, era arrivato a tanto. Sono stati gli americani a bombardare per 55 giorni, per non voler affrontare subito l'esercito iracheno, una città di civili, uccidendone 157.971, fra cui 32.195 bambini e 39.612 di donne ( e poiché molti lettori mi chiedono, polemicamente, da dove mai io abbia attinto questi dati, dirò che sono stati forniti da una funzionaria dell'Ufficio del Censimento della Casa Bianca, Beth Osborne Daponte, che fu poi licenziata a seguito dell'imbarazzante gaffe. Questi dati io li ho pubblicati sull'Europeo, sul Giorno, sul Tempo, giornali a diffusione nazionale che certo non sfuggono all'attenzione delle numerosissime agenzie americane presenti in Italia, ma non sono mai stati smentiti).
La violenza degli americani non è sinonimo di coraggio. Al contrario. Il pistolero è codardo. Tanto disprezza la vita altrui quanto è attento alla propria. Quando gli americani, nel '43-'45, risalivano l'Italia, mandavano avanti gli indiani, i neozelandesi, gli australiani, i sudafricani, i canadesi e gli inglesi, insomma le truppe del Commonwealth, e poi, fatta piazza pulita, arrivavano loro, i «liberatori», con alla testa il generale Clark, impettito sulla jeep. A Pisa, come è stato rivelato di recente, pur di avere ragione di un nido di mitragliatrici tenuto da quattro tedeschi che si erano asserragliati in cima al campanile e resistevano da giorni, avevano elaborato piani per far saltare in aria la Torre. I tedeschi in ritirata, per non danneggiare i ponti storici di Firenze, persero diecimila uomini. A differenza dei loro cugini inglesi gli americani sono del combattenti mediocri. E infatti l'unica volta in cui non hanno potuto far valere appieno la loro enorme superiorità tecnologica hanno perso la guerra. E dopo aver fatto milioni di morti in tutto il pianeta stanno ancora lì a piagne i loro sessantamila caduti in Vietnam e quando un soldato yankee rischia di farsi la bua in qualche parte del mondo in cui gli Usa sono andati a esercitare la loro prepotenza, tutta l' America sta in apprensione e riempie le chiese. Che soggetti del genere, tanto attenti a se stessi quanto indifferenti agli altri, siano caduti in deliquio «umanitario» per le sofferenze dei Kosovari, è semplicemente incredibile. E questa guerra in Jugoslavia fa schifo per mille motivi ma soprattutto per il modo in cui è condotta: non rischiando una sola vita propria là dove si fa scempio di quelle altrui. Mentre la legittimità, in guerra, di uccidere deriva dalla possibilità di essere altrettanto legittimamente uccisi. Altrimenti non di guerra si tratta ma di strangolamento bellico. I Murgin, tribù di aborigeni australiani, essendo stati avvicinati da degli esploratori europei disarmati consegnarono loro archi, frecce e lance perché potessero battersi alla pari.

Un anno dopo l'assassinio. Pio La Torre non alzò bandiera bianca (Emanuele Macaluso)


Un anno è trascorso da quel giorno in cui ci arrivò, come una bomba, la terribile ma non incredibile notizia che il compagno Pio La Torre era stato assassinato a Palermo, in una strada non lontana dalla borgata dove, in una casa di contadini poveri, era nato e cresciuto. Con La Torre era caduto Rosario Di Salvo, compagno carissimo, serio, modesto, affettuoso, appassionato, coraggioso sino alla morte.
Ho scritto «non incredibile» perché conoscevamo i rischi che Pio correva. Lui più di tutti. Era in corso una offensiva del terrorismo politico-mafioso che aveva ammazzato, uno dopo l'altro, Terranova, Mattarella, Costa. Il lunedì di Pasqua, 12 aprile, La Torre aveva trascorso la giornata a casa mia. Eravamo usciti per una passeggiata e sul Lungotevere, discutendo di quei delitti, s’era fermato un momento, m'aveva guardato dritto negli occhi, con una espressione ben nota a chi lo ha conosciuto, e aveva detto: «È bene che tu sappia che ora tocca a noi». Era suo convincimento che in Sicilia operasse uno Stato maggiore con forti collegamenti nazionali ed internazionali il quale attuava freddamente un piano di sterminio degli uomini che, in punti diversi, costituivano una minaccia per il sistema di potere dominante.
L’assassinio di La Torre e quello di Dalla Chiesa, di appena cinque mesi dopo, confermano questa diagnosi che altre volte abbiamo esposta su questo giornale. La Sicilia andava «normalizzata». Gli interessi di forze internazionali che vogliono l'isola come base militare e gli interessi di chi controlla il traffico di droga ed i canali dei finanziamenti pubblici convergono e sono assai potenti anche in virtù degli agganci sui quali possono contare negli apparati statali nazionali ed internazionali e nei gruppi di potere mafiosi ed occulti sia nazionali che internazionali anche questi.
I funerali di Pio La Torre e Rosario Di Salvo
Oggi, un anno dopo l’assassinio di La Torre, è necessaria una riflessione su avvenimenti destinati ad incidere non solo sull’avvenire della Sicilia ma sulla stessa vita nazionale.
Anzitutto, dobbiamo ricordare che ancora non è stata fatta luce sui delitti politici siciliani. In queste settimane si stanno svolgendo a Roma, Milano e Torino alcuni grandi processi che richiamano alla memoria gli anni del terrorismo e della violenza. Contemporaneamente si svolgono dibattiti e confronti sugli «anni di piombo» e sul modo per uscire da questa fase. I responsabili degli omicidi politici sono stati individuati. Non è stata fatta luce sulle stragi di Piazza Fontana o di Brescia o di Bologna perché in questi casi il terrorismo nero s’è intrecciato più strettamente con apparati dello Stato. Nulla, dico nulla, si sa sugli omicidi siciliani. Chi ha ucciso Mattarella, Costa, Terranova, La Torre, Dalla Chiesa?
Leggete, nella pagina dedicata a La Torre, il servizio di Sergio Sergi il quale ba interrogato in questi giorni a Palermo alcuni magistrati II quadro è semplicemente agghiacciante. I magistrati dicono a tutte lettere che ci si trova davanti a delitti politici, ma non possono, non riescono a varcare la soglia della verità. È questo il primo punto che vogliamo fare emergere ad un anno di distanza dall’assassinio di La Torre. Nell’anno di grazia 1983, dopo circa quarant’anni di potere dc, dopo vent'anni di centrosinistra e dopo quattro anni di chiacchiere sulla «governabilità», non è possibile fare luce sui delitti politici di matrice mafiosa. Questa è la realtà. Si possono fare mille discorsi sullo Stato, sulla «nuova» DC, sulla «modernità» dei governanti, sulla «cultura di governo» di costoro i quali son sempre pronti a dare lezioni a manca ed a dritta. Una cosa, però, è certa: questo Stato, questa «cultura di governo», questa «modernità» della «nuova» DC, questa coalizione quadri o pentapartita che si vorrebbe eternare, non hanno cambiato di una sola virgola le vecchie regole del giuoco mafioso. Lo Stato resta permeabile agli interessi che stanno dietro ai delitti mentre è sempre impermeabile nei confronti delle forze che si identificano con le vittime.
I gesti che in questi giorni sono stati indirizzati contro il Cardinale Pappalardo all’interno del carcere di Palermo costituiscono un grave segnale. Rivelano qual è il potere reale dei grandi della mafia, e quale influenza costoro esercitano non solo dentro la cinta dell’Ucciardone ma nella vita stessa della città. La parola d'ordine è «lasciateci in pace». La Torre o Dalla Chiesa, Costa o Terranova non li lasciavano vivere in pace, turbavano la loro tranquillità. Lo stesso Mattarella aveva rotto le regole all’interno del potere e questo non poteva essere tollerato. Oggi c’è anche il Cardinale che con le sue prediche turba la «tranquillità», la «normalizzazione» che si va realizzando a suon di lupara. È stato dato un avvertimento, e non solo a lui. Ma c’è un’altra riflessione da fare oggi e che è strettamente correlata alla prima. Mi riferisco alla campagna di alcuni organi di stampa per la scheda bianca nelle prossime elezioni. Leggendo certe filippiche che si concludono con l’approdo astensionista, pensavo proprio a La Torre ed agli altri che come lui hanno dato la vita per rinnovare lo Stato. Ebbene, pensate se La Torre e Costa, Terranova e Dalla Chiesa avessero impugnato bandiera bianca, se si fossero defilati, se si fossero astenuti e se, lavandosene le mani, si fossero limitati alla protesta della scheda bianca di fronte ad uno Stato che si presenta col volto dell’impotenza o della complicità. Se questi uomini avessero usato la scheda bianca, la «normalizzazione» sarebbe già un fatto compiuto: da Comiso a Palermo, a Napoli, a Roma, a Milano. Ed invece La Torre ed altri seppero scegliere, seppero dire i loro «no» ed i loro «sì»; seppero scegliere la trincea di un impegno civile e democratico e dare l’esempio più alto nella lotta politica. Sì, la scelta di questi uomini è stata la politica. Contro i mercanti del potere e del sottogoverno non servono la diserzione e la scheda bianca che consolidano il loro dominio. Occorre scegliere e fare politica, non rassegnarsi, lottare e votare per fare avanzare le idee di La Torre, per isolare e colpire, finalmente, i suoi assassini e cambiare la società che li genera.


"l'Unità", 30 aprile 1983

29.4.18

Chioschetti a Catania. Un bicchiere di limone al limone (Corrado Trevisan 1989)

Pare che a Catania qualcosa sia rimasto della cultura dei chioschetti, quasi trent'anni dopo quest'articolo, ed anche a Palermo e  in altre località siciliane. Mi auguro che non si tratti solo di facciata, perché mi è già accaduto di verificare in locali che vantavano antiche ed intatte tradizioni, un abbandono della artigianalità, un deteriore piegarsi alle mode. (S.L.L.)

Una volta parlare di venditori d'acqua pareva quasi un’assurdità, oppure rievocava mitiche immagini di paesi africani assolati e riarsi. Oggi invece è diventato un grande «business», le vendite delle acque minerali hanno raggiunto quelle del vino e qualche magnate del settore è diventato ricco a tal punto da poter sponsorizzare con munificenza anche i raduni di Comunione e Liberazione. Ma le radici antiche resistono e alcune attività ad esse legate rifiutano di sparire. In Sicilia ed in particolare a Catania è ancora molto viva la tradizione dei chioschetti che, nelle principali piazze, offrono bibite al passanti. Non si tratta dei normali rivenditori a caro prezzo di lattine e di bottigliette industriali che infestano tutta l'Italia, ma degli eredi della tradizione dei venditori d'acqua arabi, artigiani che servono sapienti misture di succhi e sciroppi ad un pubblico eterogeneo ed assetato.
Un tempo i chioschi erano frequentati da un pubblico esclusivamente maschile, ora i tempi sono cambiati anche in Sicilia, e dal mattino alla sera una folla eterogenea si assiepa attorno alle vecchie strutture in stile «liberty».
A Catania il patriarca di questa attività è senza dubbio Umberto Costa, un bianco signore che, pur avendo lasciato ormai ai figli la frenetica gestione del chiosco in piazza Spinto Santo, non riesce ad allontanarsi più di qualche metro, continuando a seguire quella che per generazioni è stata l'attività della sua famiglia.
Il suo compito principale è ormai la scelta delle essenze e degli sciroppi, girando per l'Italia seleziona da ogni produttore il meglio.
Dai suoi ricordi scaturiscono immagini remote: i carri che arrivavano in città con le botti di acqua gassata naturale di Paternò, il podestà fascista che nel '29, ritenuti i chioschi luoghi sospetti, forse perché la gente bevendo aveva modo anche di discutere, li spostava dalla piazza principale di Catania. La storia continua con il racconto dei diversi metodi di imbottigliamento - la comparsa delle prime mitiche bottigliette di gazzosa con la chiusura «a pallina», un ricordo quasi proustiano per qualche anziano lettore, in seguito arrivarono i turaccioli di sughero ed infine la rivoluzione dei tappi a corona.
Nel laboratorio annesso al chiosco, una via di mezzo fra una cucina e un laboratorio chimico, i profumi delle essenze e degli agrumi freschi si mescolano in maniera inestricabile; insieme alle misteriose bottiglie degli sciroppi, troneggiano due lunghi cilindri d'acciaio ed allo stupito visitatore, convinto che l’acqua gassata la producano solo i «Grandi» delle minerali, vengono spiegati i segreti della fabbricazione del selz. Attorno al chiosco, aperto dalle 9 alle 24, è un continuo via vai di persone di tutte le età e di tutte le categorie, si fermano un attimo per ristorarsi dalla calura e subito riprendono il loro cammino.
Le specialità della casa, oltre al tradizionale selz al limone o al mandarino, sono il completo orzata, limone e qualche goccia d'anice, il «limone al limone», selz con spremuta di limone e sciroppo di limone, lo «Champagnino», bibita a base di uva passa.
Infine per lutti coloro che, pur di togliersi veramente la sete, sono disponibili a provare qualche gusto un po’ insolito, possiamo consigliare l'antenato ruspante delle bevande del tipo «kìathorade»: un bel bicchiere di acqua al selz con limone e sale.

“L'arcigoloso – l'Unità”, 28 agosto 1989

Le cose. Una poesia di Gabriela Mistral (1889 - 1957)


Amo le cose che non ebbi mai
con le altre che ora non ho più:

io tocco un'acqua silenziosa
distesa sopra pascoli infreddati
che rabbrividiva senza vento
in un orto che era il mio orto.

La guardo ora come la guardavo;
mi dà uno stravagante pensamento
e gioco, lenta, con codesta acqua
come con un pesce o col mistero.

Penso a una soglia dove io lasciai
quei passi allegri che oramai non faccio;
e in quella soglia io vedo una piaga
piena di muschio, piena di silenzio.

Vado cercando un verso che ho perduto,
e che mi dissero ai sette anni.
Fu una donna mentre faceva il pane
e io rivedo la sua santa bocca.

Arriva un aroma rotto in raffiche;
sono molto allegra se lo sento;
ma così delicato non è aroma,
è piuttosto l'odore dei mandorli.

Mi fa tornar bambini i sentimenti,
cerco di dargli un nome e non lo trovo,
e intanto fiuto l'aria ed i villaggi
cercando mandorli che non vi rintraccio.

Un fiume sempre risuona vicino.
È da quarant'anni che lo sento.
Sarà il gorgheggiare del mio sangue,
oppure un ritmo che mi hanno donato.

O il fiume Elqui della mia infanzia
che io risalgo e passo a guado.
Mai me lo perdo: cuore con cuore,
come due bambini ci teniamo.

Quando io sogno la mia Cordigliera
io m'incammino per stretti passaggi,
e, senza tregua, li vado ascoltando,
un sibilo che sembra un giuramento.

Vedo all'estremo del Pacifico,
il mio arcipelago violetto,
mi è rimasto da una delle isole,
un acre odore di alcione morto.

Un dorso, un dorso grave e dolce,
dà fine al sogno che io sogno.
È questo il termine del mio camminare,
ed io mi riposo quando arrivo.

È tronco morto oppure è mio padre
quel vago dorso cenerino.
Io non faccio domande, non lo turbo,
mi stendo accanto, mi sto zitta e dormo.

Io amo una pietra di Oaxaca
o Guatemala, a cui mi accosto;
è rossa e fissa come la mia faccia
e la sua crepa un alito emana.

Quando mi addormento resta nuda;
e io non so perché poi la rivolto.
E forse non l'ho posseduta mai,
ed è il mio sepolcro ciò che vedo.
-----

LAS COSAS
Amo las cosas que nunca tuve
con las otras que ya no tengo.

Yo toco un agua silenciosa,
parada en pastos friolentos,
que sin un viento tiritaba
en el huerto que era mi huerto.

La miro como la miraba;
me da un extraño pensamieto,
y juego, lenta, con esa agua
como con pez o con misterio.

Pienso en umbral donde dejé
pasos alegres que ya no llevo,
y en el umbral veo una llaga
llena de musgo y de silencio.

Me busco un verso que he perdido,
que a los siete años me dijeron.
Fue una mujer haciendo el pan
y yo su santa boca veo.

Viene un aroma roto en ráfagas;
soy muy dichosa si lo siento;
de tan delgado no es aroma,
siendo el olor de los almendros.

Me vuelve niños los sentidos;
le busco un nombre y no lo acierto,
y huelo el aire y los lugares
buscando almendros que no encuentro...

Un río suena siempre cerca.
Ha cuarenta años que lo siento.
Es canturía de mi sangre
o bien un ritmo que me dieron.

O el río Elqui de mi infancia
que me repecho y me vadeo.
Nunca lo pierdo; pecho a pecho,
como dos niños, nos tenemos.

Cuando sueño la Cordillera,
camino por desfiladeros,
y voy oyéndoles, sin tregua,
un silbo casi juramento.

Veo al remate del Pacífico
amoratado mi archipiélago
y de una isla me ha quedado
un olor acre de alción muerto...

Un dorso, un dorso grave y dulce,
remata el sueño que yo sueño.
Es el final de mi camino
y me descanso cuando llego.

Es tronco muerto o es mi padre
el vago dorso ceniciento.
Yo no pregunto, no lo turbo.
Me tiendo junto, callo y duermo.

Amo una piedra de Oaxaca
o Guatemala, a que me acerco,
roja y fija como mi cara
y cuya grieta da un aliento.

Al dormirme queda desnuda;
no sé por qué yo la volteo.
Y tal vez nunca la he tenido
y es mi sepulcro lo que veo...

Traduzione S.L.L.

Come vuoi … Una poesia di Letizia Fortini

Letizia Fortini

Come vuoi che non impallidiscano
i pesci rossi
— e che poi muoiano —
condannati
al pianto della fontana.

da Il punto acerbo, All'insegna del Pesce d'oro, 1974

Aprile '68. Forte manifestazione a Palermo. A migliaia in corteo per Padrut (Giorgio Frasca Polara)


PALERMO, 28 aprile
Le questioni della democrazia, della libertà e della pace sono state questa sera al centro di una possente manifestazione di comunisti e di democratici palermitani. Per ore e ore — centinaia di giovani e di ragazze alla loro testa —, migliaia di cittadini hanno riaffermato con forza e con entusiasmo con la necessità e la volontà di imporre una profonda svolta alla vita del Paese, prima davanti al carcere dell'Ucciardone (dove da un anno è rinchiuso il compagno Padrut), poi paralizzando con un imponente corteo tutto il centro della città, ed infine partecipando ad un comizio del compagno Gian Carlo Pajetta in piazza Politeama.
Ieri a Roma — ha detto Pajetta —, a confermare la sua volontà di provocazione e di ostentata prepotenza, il governo ha fatto attaccare brutalmente, bastonare, arrestare i ragazzi dell’università e del liceo che dimostravano per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati. Ci compiaciamo che l'“Avanti!” abbia riferito con sdegno delle vio lenze poliziesche e le abbia deplorate. Ci auguriamo che questa volta anche Pietro Nenni ne abbia saputo qualcosa — dal momento che non mostra ancora di capire che Padrut è in galera da un anno —, e che le pagine della cronaca contemporanea gli abbiano ricordato che certe memorie non appartengono solo al libro ormai chiuso della storia antica.
Ma Pietro Nenni — ha proseguito Pajetta — è il vicepresidente del Consiglio: la sua deplorazione, se ci sarà, può avere come sede proprio il Consiglio del ministri; ma il ministro Taviani, che ama ricorrere al bastono della Celere, ha come sottosegretario un socialista: la protesta di questi potrebbero essere le dimissioni. Quelli che chiedono più voti agli elettori — ha concluso Pajetta — hanno una buona occasione per adoperare la forza che hanno attualmente, e frenare la prepotenza democristiana rifiutandosi, oggi, di farsene succubi, il che significa di accettare di esserne complici.
Della sua prepotenza, la DC aveva dato ancora stamane, proprio a Palermo, una prova clamorosa con un gesto di protervia, quello di piazzare accanto a Rumor — sul palco di un cinema dove il segretario democristiano ha pronunciato un preoccupato discorso — tutti i più chiacchierati notabili della Sicilia occidentale: dai saccheggiatori di Agrigento, agli amici dei mafiosi, agli uomini coinvolti in altri clamorosi scandali.
1967. Una delle manifestazioni per Padrut organizzate dalla Fgci nelle città italiane 
«Gli amici della DC sono in libertà — gridava appunto una delle parole d’ordine scandite pili tardi davanti all'Ucciardone —, i giovani che lottano per la democrazia e per la pace e l’indipendenza del Vietnam, bastonati, denunciati, incarcerati». L’affettuosa manifestazione di solidarietà al compagno Padrut era durata a lungo, caratterizzata chi un forte spirito di lotta. Erano più di mille i giovani operai che al tramonto dal carcere si son mossi per le vie del centro alla testa di un corteo che man mano si ingrossava di cittadini, di donne, di esponenti della cultura (lo scrittore Michele Pantaleone, il poeta Antonino Uccello, ecc.) e che altre migliaia di palermitani di lì a poco avrebbero accolto con entusiasmo nella grande piazza Politeama.


"l'Unità", 29 aprile 1968

28.4.18

Lo scannolo de Dariofò. Un sonetto di Anonimo Romano (Maurizio Ferrara)

Maurizio Ferrara durante un viaggio a Mosca

Maurizio Ferrara (1921-2000) fu segretario particolare di Togliatti, giornalista di punta de “l'Unità” e infine esponente del Pci nella Regione Lazio e in Parlamento. Padre di Giuliano Ferrara non ne condivise lo sbracamento a destra prima con Craxi e poi con Berlusconi. Con lo pseudonimo di Anonimo Romano pubblicò negli anni Settanta del 900 due raccolte di sonetti romaneschi, sul modello di Giuseppe Gioachino Belli, Er compromesso rivoluzzionario (1975) e Er communismo 'co la libbertà (1978). Nel 1978 Dario Fo, tornato in Tv dopo un lungo ostracismo della Rai, con un frammento del suo Mistero buffo, suscitò scandalo in Vaticano. Intervenne persino il Cardinale Poletti, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, uno dei dignitari più potenti della Curia, chiedendo una nuova cacciata del reprobo, non ancora Premio Nobel, dalla Tv di Stato. Al tema è dedicato il sonetto qui “postato”. (S.L.L.)

Come che Dariofò, ch’è proprio bravo,
tornò ar viddeo e se mise affà er faceto,
er Cardinal vicario anno in aceto
perché sfotteva Bonifacio Ottavo.

Dice che Fo cor lavorò de scavo
je va a offenne er Divino Paracleto,
sicché, dice, o er governo je fa un veto
o sinnò c’è la guera cor Conclavo.

Bella robba! ’Sti scribbi vatigani
’nce lo sanno che Dante a quer papaccio
l’affocò tra li ladri e li ruffiani?

Fuss’io er governo a ’st’assi de palazzo
je direbbe: carmateve cristiani,
cammiate rete e nun rompete er cazzo.

Er communismo 'co la libbertà, Editori riuniti, 1978

"Giocolieri, giullari, trovatori...". Una poesia di Roberto Roversi


Giocolieri, giullari, trovatori
con gli occhi bene aperti e con la bocca feroce
rimestavano i peccati dei potenti
che li inchiodavano in croce.
Lutterius istrio de Florentia
Scaruzio marchigiano
Mandino ferrarese
Guidaloste ioculatore di Pistoia.
Passavano per le piazze d’Italia
cantando come dannati
prima di essere decapitati.

In Veleno - Antologia della poesia satirica italiana a cura di Tommaso Di Francesco, Savelli 1980

La notte. Idea Vilariño (Montevideo 1920-2009)


La notte non era il sogno
Era la sua bocca
Era il suo bel corpo spogliato
Dei gesti inutili
Era il suo volto pallido che mi guardava nell’ombra
La notte era la sua bocca
La sua forza e la sua passione
Era i suoi occhi seri
Le pietre dell’ombra che cadevano nei miei occhi
Ed era il suo amore
Che mi invadeva così lento
Così misterioso.

da Poesie d’amore, 1957, nel sito “Il canto delle Sirene”, senza indicazione del traduttore

27.4.18

“Stetit puella” - “C'era 'na picciuttedra”. Dai “Carmina Burana” nel mio siciliano (S.L.L.)


C'era na picciutteddra
cu la vistina russa;
si uno la tuccava
la vesta s'arrizzava.
Amunì!

C'era na picciutteddra,
ca pariva na rosa;
'nni la facci luciva
la vucca ci ciuriva.
Amunì!
------
Stetit puella
rufa tunica;
si quis eam tetigit,
tunica crepuit.
eia!

stetit puella,
tamquam rosula;
facie splenduit,
os eius floruit.
eia!

Carmina Burana, a cura di Piervittorio Rossi, Bompiani, 1989

Tattica e strategia. Una poesia di Mario Benedetti (Uruguay 1920 - 2009)


La mia tattica è
                  guardarti
imparare come sei
amarti come sei


la mia tattica è
                   parlarti
e ascoltarti
costruire con le parole
un ponte indistruttibile


la mia tattica è
fermarmi nel tuo ricordo
non so come né so
con quale scusa
ma rimanere in te


la mia tattica è
             essere sincero
e sapere che sei sincera
e che non ci vendiamo
simulacri
affinché tra noi due
non ci sia sipario
né abissi



la mia strategia è
invece
più profonda e più
                      semplice
la mia strategia è
che un giorno qualunque
non so come né so
con quale scusa
finalmente tu senta il bisogno di me

---

TÁCTICA Y ESTRATEGIA

Mi táctica es
               mirarte
aprender como sos
quererte como sos

mi táctica es
             hablarte
y escucharte
construir con palabras
un puente indestructible

mi táctica es
quedarme en tu recuerdo
no sé cómo ni sé
con qué pretexto
pero quedarme en vos

mi táctica es
              ser franco
y saber que sos franca
y que no nos vendamos
simulacros
para que entre los dos
no haya telón
ni abismos

mi estrategia es
en cambio
más profunda y más
simple
mi estrategia es
que un día cualquiera
no sé cómo ni sé
con qué pretexto
por fin me necesites.

da Poemas de otros / Poesie degli altri, 1973-1974 - traduzione S.L.L.


26.4.18

“Dolce olive verdi di Frascati...”. Le frutta. Una poesia di Pablo Neruda


Dolci olive verdi di Frascati,
nitide come puri capezzoli
fresche come gocce di oceano,
concentrata essenza terrestre!

Dalla vecchia terra
graffiata e cantata,
rinnovati ad ogni primavera,
con la stessa calcina
degli esseri umani,
con la stessa materia
della nostra eternità, nuovi
e ripetuti, oliveti
delle secche terre d'Italia,
del generoso ventre
che nel dolore
continua a partorire fragranza.

Quel giorno l'oliva,
il vino nuovo,
la canzone del mio amico,
il mio amore lontano,
la terra inumidita,
tutto così semplice,
così eterno
come il chicco del grano,
là, a Frascati,
i muri perforati dalla morte,
gli occhi della guerra alle finestre,
ma la pace mi accoglieva
col suo sapore di olio e di vino
mentre tutto era semplice come il popolo
che mi donava
il suo verde tesoro:
le piccole olive,
freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amore terrestre.

Da Poesie, Sansoni, 1962 (con alcuni, marginali interventi nella traduzione di Dario Puccini)