Carlo Emilio Gadda in un ritratto di Fracesco Messina (1939) |
Per più motivi non sarà
mai allestito, si crede, uno di quei bei tomoni eleganti, da
monumentale collezione di classici letterari – esempio un volume
ricciardiano –, recante sul dorso «Epistolografi del secondo
Novecento». Nelle lettere della seconda metà del secolo andato
troppo è intervenuto a sommuovere un paesaggio già fermo per
secoli. Da un lato motivi di abbondanza, in più senza regolamento o
adeguata normativa; dall’altro la predominanza, fino
all’esclusività, del dato intimo e autobiografico messo accanto ad
aneddoti minuti e a comunicazioni di servizio che non fanno storia.
In più, si sa, il genere epistolare, lo si chiami così anche in
assenza di un codice specifico, è non da ora molto languente –
l’abbondanza che si è detta, dal dopoguerra a circa gli anni
settanta, fu proprio precedente la carestia: un’esplosione con
tutta l’energia a disposizione.
La decadenza da almeno un
quarto abbondantissimo di secolo, non c’è bisogno neanche che si
dica dovuta alla capillarizzazione telefonica prima e poi alla posta
per via elettronica: del genere in estinzione per eccellenza (non
sono infatti in estinzione, nonostante i reiterati «al lupo al
lupo», né il romanzo né la poesia), della sua estinzione dunque,
arriva attestato perfino in sede storiografica (per gli amanti o
semplicemente praticanti della questione, assomiglia, per
problematica, al vaporizzarsi delle varianti d’autore). Addio, nel
Novecento epistolare tutto comunicazioni e sfoghi, ai celebrati e
rinomati modelli antichi, nella nostra letteratura da Petrarca fino a
Leopardi, a Manzoni; con alcune appendici sfioranti gli anni
settanta, però, non di rado di cospicuo rilievo, come quelle
presentate ora in contemporanea per una singolare congiuntura
editoriale, e riguardanti due insigni di peso massimo: Carlo Emilio
Gadda (Un gomitolo di concause - Lettere a Pietro Citati
(1957-1969), a cura di Giorgio Pinotti, con un saggio di Pietro
Citati, Adelphi «Piccola Biblioteca») e Giuseppe Ungaretti
(L’allegria è il mio elemento – Trecento lettere a Leone
Piccioni, a cura di Silvia Zoppi Garampi, con una testimonianza
di Leone Piccioni, Oscar Mondadori, pp. XL-368).
Entrambi i volumi con nel
titolo escogitato editorialmente – a richiamare i capitoli grandi
degli scrittori – una parole-chiave (il gomitolo e le concause che
incontriamo come categorie poliziesco-filosofiche di Ingravallo
all’ingresso del Pasticciaccio; l’allegria eletta da
Ungaretti non solo a titolo della sua raccolta ma a sigla, come basso
continuo della vita di un uomo e in contrappunto a insanabile
dolore); entrambi con i destinatari diventati, dei rispettivi
corrispondenti, tra i maggiori interpreti.
Due pesi massimi e dunque
due modelli di letteratura: Ungaretti, l’osseo dal respiro animale,
l’esuberante attaccato alla vita, tendente infine al barocco;
Gadda, il carnale che lotta contro la propria stessa carne, in un
teatro sempre barocco e cerimonioso, con la vita sul filo dei nervi,
ritraentesi dal mondo.
Di Gadda ritorna anche
nelle lettere a Citati la difficoltà e quasi l’impossibilità a
muoversi, quasi fosse insostenibile il peso e non rinvenibile
l’energia per trascinare il corpo lontano dalla città e anzi dal
quartiere di residenza, che è un tratto biografico fondamentale,
tanto da essere dominante nella nota di copertina alla prima edizione
del Pasticciaccio; e ritorna soprattutto «l’aspra rivalità
tra gli editori» che alimenta anche stavolta come in altre lettere
ad amici e parenti «un fosco epos, folto di avvoltoi che si gettano
su una carogna, tigri che si contendono un capriolo, menadi che
sbranano il piccolo Bacco, lupi che si accapigliano su un cadavere»
(Pinotti). Così quando nel 1956 diventa consulente di Livio
Garzanti, mentre Gadda consegna a puntate dalle cadenze estenuanti il
Pasticciaccio, Citati «si trova ben presto alle prese con una
situazione irta di spini», ricorda ancora Pinotti.
Ma ben presto «il dottor
Citati Pietro», nelle parole di Gadda, «solerte coadiutore», viene
riconosciuto «valido aiuto, anche esercitando giudizio censorio ed
eliminatore». Nonostante l’ombra che magari si può intravedere
nella coppia di aggettivi appena trascritta, nasce consuetudine tra
Gadda e il «giovane critico torinese-siculo allievo di Contini»
(sia detto per inciso: a tutte le distanze che Citati ha da allora
preso nei confronti di Contini si può aggiungere l’aver evitato
che il presente libro di lettere uscisse «a cura del destinatario»,
come fu per quelle indirizzate da Gadda appunto a Contini. Citati ha
testimoniato a Pinotti quel che gli sembrava sufficiente,
ripubblicando in coda al volume un suo noto saggio gaddiano). Le
lettere di Gadda, benché ci facciano incontrare un personaggio ormai
noto, sono non di rado bellissime, soprattutto nei passaggi dove quel
personaggio sembra in scorcio riepilogare se stesso, affondando in
profondità ricche, se si può dire, di scoramento.
Per esempio, da via
Blumensthil datata domenica 16 agosto 1959 (l’accoppiata
Ferragosto-domenica lascia immaginare una Roma deserta, come sarà da
lì a poco rappresentata nel Sorpasso): la calma auspicata
arriva, ma raddensa solitudine: «Il terrore che tutti si stanchino
di me e de’ miei casi così poco pittoreschi, mi ha ormai avvinto.
Forse un ritorno in Lombardia, una diretta rievocazione delle prime
percezioni della vita, le più intense, le più vive ed esatte, anche
se dolorose o commiste a scoramento, mi gioverebbe. Forse il clima
natio, e la gente natia: ma non so. C’è la noia atroce del
borghesume dei conoscenti e parenti, delle loro misure grette, prive
di ogni sensitivo apprendimento, opache e stronze». È La
cognizione del dolore.
Giuseppe Ungaretti con Anna Magnani |
Un tratto non assente
nelle lettere di Gadda a Citati diventa sorprendente nelle lettere di
Ungaretti a Piccioni: come, nonostante la frequentazione di persona,
se ne scrivessero tante. Gadda scrive a Citati soprattutto nei mesi
estivi, quando il suo corrispondente è fuori città; del lungo,
ininterrotto sodalizio tra Ungaretti e Piccioni ci viene consegnato
un repertorio di trecento lettere, che vanno dal secondo dopoguerra
alla morte del poeta. Il temperamento di Ungaretti nella
considerazione di sé è opposto a quello di Gadda. Quando viene a
sapere dell’imminente nomina a senatore di Montale Ungaretti
scrive: «Non dico che Montale non abbia meriti, e ha avuto grossi
riconoscimenti: il premio Feltrinelli, per esempio», e fin qui siamo
nella norma, nello standard dei rapporti tra letterati: indagando,
non si troverebbe un carteggio esente da confronti di tal fatta. Ciò
che è solo di Ungaretti è il misto di innocenza e narcisismo
nell’opinione su se stesso: «Ma nessuno si accorge
dell’ingiustizia che, per intrighi, si sta commettendo, non per la
prima volta, a mio riguardo? Sono, e dovrebbe essere indiscutibile,
il maggior poeta italiano vivente, e, forse, il maggiore del mondo»,
con quel «forse» che è davvero impagabile, come il «quasi» che
sta per arrivare: «Tradotto in quasi tutte le lingue parlate,
accolto trionfalmente a Mosca come a New York» e così via. Dalla
lettera, del 10 gennaio 1963, alla nomina di Montale passeranno
quattro anni. Non si vuole immaginare il tormento e il rodimento.
Come era successo per la vicenda della sua carriera universitaria,
per la quale, di nomina governativa durante il ventennio, dovette
essere «defascistizzato» e poi passare per le solite scartoffie
burocratiche, così anche per il generale ambiente culturale
Ungaretti ritiene di dover scontare la nomina ad Accademico d’Italia
negli ultimi anni di Mussolini (per il quale aveva nutrito, del
resto, sincera ammirazione, fino a dedicargli un libro non
secondario).
Le lettere di Ungaretti
sono piene di movimenti, di rapporti, di personaggi, così come fitte
di richiami a piccole e grandi situazioni. Per questo occorre fare
qualche osservazione sulla tecnica o, se si vuole, sull’arte
dell’annotazione, messa qui in campo dai curatori in maniera
diversa ma ugualmente funzionale. Più di quanto non si creda le
lettere e gli epistolari sono documenti ora ostici ora insidiosi, si
prestano a fraintendimenti e a valutazioni affrettate. E invece vanno
presi, in quanto documenti, con ogni cautela e incrociando le
testimonianze. Al modo della poesia satirica, tutta spesa
sull’attualità, hanno bisogno, per i lettori, di molte
informazioni. E non è detto che i lettori, sempre, imparino meno
dall’annotare che dalle lettere stesse.
"alias domenica - il manifesto", 13 ottobre 2013
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