Le donne di Messina
è il titolo di un romanzo di Elio Vittorini, non giudicato tra i più
riusciti, neppure dallo stesso autore. Ne uscì una prima edizione
per Bompiani nel 1949, una seconda, modificata anche in aspetti
essenziali, vide la luce per lo stesso editore sul finire del 1964.
Su “l'Unità”, in ottobre, sotto il titolo Allegoria e
realtà nelle “Donne di Messina”, un
breve articolo e una breve intervista all'autore danno conto
dell'imminente arrivo in libreria della nuova edizione del romanzo.
Mi è parso utile riprenderlo, perché mi pare che – parlando di sé
– Vittorini racconti molto del suo modo di fare i libri (editing
si direbbe oggi), anche quelli
degli altri.
La
sigla m.r. quasi certamente rimanda a Michele Rago, che al tempo era
uno delle firme più presenti nelle pagine culturali del quotidiano
del Pci. (S.L.L.)
A giorni i lettori
troveranno in libreria la nuova edizione del libro di Elio Vittorini,
Le donne di Messina. Il romanzo apparve per la prima volta in
volume nel 1949, dopo essere stato pubblicato a puntate successive su
«La Rassegna d'Italia», diretta da Francesco Flora. Spesso Bompiani
aveva manifestato l'intenzione di ristamparlo, incontrando ogni volta
l'opposizione dell’autore. Finalmente Vittorini è tornato sulla
propria opera, ma ha dovuto rielaborarla ampiamente e riscriverne
alcune parti. Più che una riedizione è, quindi, una versione nuova,
la quale susciterà interesse anche in chi vorrà capire cosa s’è
mosso - sotto l'apparente silenzio - nella storia letteraria
personale dello scrittore. Le donne di Messina è, infatti, un
libro scritto subito dopo la Liberazione. Di un gruppo di gente
raccogliticcia, fermatosi a ricostruire dalle macerie un villaggio
abbandonato sull'altipiano appenninico e a riscattare la terra, si
distingueva la storia di «Faccia cattiva», un personaggio che più
degli altri aveva, come fascista, un passato da dimenticare. Nato in
quel clima, il libro era allegorico sin dal titolo: le donne di
Messina abituate dai terremoti a «portar pietre e calcina» per
rifare le proprie case. L'affresco era svolto sopra un movimento
musicale di coro e di singole voci che echeggiavano motivi e
conflitti del tempo e, anzitutto, la contraddizione fra interessi
della vecchia società proprietaria e l'atmosfera di rinnovamento di
quei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra. Fra i
libri di Vittorini i questo il tentativo più accentuato di costruire
un romanzo secondo precise strutture senza abbandonare le risorse di
un linguaggio lirico, nel quale confluivano tuttavia recuperi della
tradizione narrativa italiana, a partire dal filone manzoniano.
Durante un incontro con lo scrittore abbiamo avuto occasione di
rivolgergli alcune domande sui motivi e sui modi di questo suo
lavoro.
“Le ragioni per le quali sono tornato su questo libro —
ha detto Vittorini — sono molto semplici. Il libro non mi
soddisfaceva sin dal principio. Non è che volessi cambiare la
struttura, ma ci sentivo sbagli nel suo stesso genere. Non ho voluto
annullare o cambiare un genere con un altro, un tipo con un altro,
una struttura con un’altra. Semplicemente ho voluto correggere
quelli che mi sembravano gli errori commessi all’interno della sua
stessa prospettiva, della stessa struttura.
D. Questa mancanza di
rigore interno riguarda anche i riflessi del clima postresistenziale
nel quale il libro fu concepito?
R. No, il clima è la
parte della prospettiva ch’è rimasta intatta. Solo che mi dava
noia nel mio stesso lavoro di ricerca, nello sforzo di rinnovamento,
avere alle spalle questa cosa non riuscita. In un primo tempo, cioè
nel 1952, quando ci sono tornato una prima volta, ho lavorato sempre
sulle vecchie copie del libro. Erano correzioni a margine, tagli,
rimpasti. Nel 1957 ci sono tornato di nuovo. E anche allora ho
riveduto e tagliato. Restava insolubile il problema della terza
parte, giacché la terza parte, così com’era, la trovavo
assolutamente falsa, assolutamente mancata. Mancata non solo rispetto
a se stessa, nel rigore strutturale interno; mancata rispetto alla
storia, rispetto al clima di quel momento. Potevo accettare
l’esperimento di un gruppo umano che per caso fa così perché c'è
un'atmosfera in quel particolare senso e c’è quella determinata
spinta. Ma non potevo accettare la soluzione e la durata. Da quei
momento il libro diventava astratto, fuori da quello che mi pare sia
stata allora la realtà italiana.
Di qui il bisogno di
riscrivere l’ultima parte. Il centro del libro si sposta. Non è
più il personaggio principale, l’uomo colpevole che vuole
riscattarsi volontaristicamente e non può che riscattarsi
partecipando al lavoro comune. Verificando il rigore interno della
vicenda rispetto alle storia del momento, mi son dovuto convincere
che il personaggio è secondario. Il centro mi si è spostato allora
verso il rapporto, l’effettivo rapporto fra il gruppo e il resto
del paese. A un certo punto quelli del gruppo si accorgono d'essere
isolati. Sono proprio i partigiani che glielo vanno a dire. Quelli
del gruppo sono respinti, decaduti alla condizione di contadini,
mentre i contadini isolati perdono mordente nella vita sociale del
paese.
D. In quale senso
allora risulta modificata internamente la struttura narrativa?
R. Scrissi Le donne di
Messina all’epoca del “Politecnico”. In quel periodo io
polemizzavo molto contro certe interpretazioni costrittive del
realismo socialista. Polemizzavo, e non m’ero accorto che,
narrando, mi trovavo dentro il realismo socialista. Anzi, proprio
dentro gli errori e gli aspetti di velleitarismo che polemicamente
rimproveravo al realismo socialista. Gli atteggiamenti assunti nella
parte saggistica del mio lavoro erano contro. Nelle Donne di
Messina c'era non solo una prova, ma una prova mal riuscita di
realismo socialista. E il mal riuscito mi pare che venisse dal fatto
di assumere quanto della vecchia tradizione naturalistica il realismo
accettava senza bisogno. Di lì la necessità di centrare il libro
sopra un personaggio che è cattivo a priori e che però è anche
buono a priori, secondo una particolare concezione del mondo. Perciò
questa lotta interna veniva presentata nel singolo uomo, cosa che ho
trovato poi insoddisfacente. In pratica, mi pare di aver compiuto
un’operazione antiallegorica. Il gruppo che finiva per essere quasi
un’allegoria nella società è ridimensionato nella sua misura con
la società. Naturalmente ho dovuto rispettare la condizione del
romanzo, anche nella scelta linguistica. Ho eliminato molte cose
vecchie, evidenti; ho dovuto tagliare anche pagine che si potevano
giudicare «riuscite». Ma senza rifiutare l’insieme, il contesto
del libro, che appartiene a un momento della mia storia. Questo ho
dovuto rispettarlo.
“l'Unità”, 25
ottobre 1964
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