Un'arida e cupa
solitudine, un’isola bandita da ogni commercio umano, tempestosa
d’inverno, e sterile d’estate; un’isola che nemmeno i selvaggi
meridionali hanno considerato degna d’essere abitata; in cui una
guarnigione la si deve tenere in uno stato tale da far pensare con
invidia agli esili della Siberia; che avrà un costo continuo, e un
uso solo saltuario; e che, se la fortuna arriderà ai nostri sforzi,
potrà tutt’al più diventare un nido di contrabbandieri in pace, e
in guerra il rifugio di futuri bucanieri».
L’isola descritta con
colori così poco allettanti è la maggiore delle Falkland, e chi ne
parla è un propagandista governativo inglese, che difende dagli
attacchi dell’opposizione la decisione di non scatenare una guerra
per un territorio di nessun valore. Siamo nel 1771 e il propagandista
governativo è il più illustre letterato inglese dell’epoca, il
dottor Johnson.
Le navi di St. Malo
Scovare questo pamphlet
noto solo agli eruditi e tradurlo mentre le cronache della guerra di
questa primavera sono ancora fresche nella nostra memoria (anche se
il consumo di notizie belliche quest’anno procede a ritmo
incalzante) è un bel record per una casa editrice che non si è mai
mostrata smaniosa di correre dietro all’attualità (Samuel Johnson,
Riflessioni sugli ultimi fatti relativi alle Isole Falkland, a
cura di Ludovico Terzi, Adelphi). È un modello di giornalismo
politico, e si legge d’un fiato (almeno per una cinquantina di
pagine; ripetizioni e prolissità sono per fortuna accantonate alla
fine), e Ludovico Terzi vi ha premesso una prefazione molte ricca,
utile e gustosa.
Già allora, come il
dottor Johnson spiega, gli inglesi chiamavano Falkland’s queste
isole (o almeno la più grande, mentre l'altra era chiamata Pepys,
dal nome del segretario dell’Ammiragliato, a noi noto come l’autore
dei famosi diari), mentre Maluinas (nome dato dai francesi, in onore
delle navi di St. Malo che secondo loro erano state le prime ad
approdarvi) era la «denominazione ora usata dagli spagnoli, che fino
a tempi molto recenti non sembravano averle considerate così
importanti da meritare un nome». Letto oggi, il pamphlet non è
certo fatto per piacere agli argentini, ma nemmeno agli inglesi
(dico, ai nazionalisti delle due parti).
Johnson fa brevemente la
storia delle isole che molti pretesero d’essere stati i primi a
scoprire, ma dove nessuno aveva trovato convenienza di fermarsi;
finché nel 1765 gli inglesi non installarono una guarnigione a Port
Egmont (oggi Port Stanley), con scopi militari immediati ma poco
convinti di doverci restare; e il racconto di questo insediamento è
una pagina finissima per scetticismo implicito ed economia
espressiva. Ma Johnson non spiega (sebbene dal contesto risulti
chiaro), che nello stesso tempo gli spagnoli avevano una guarnigione
loro in un altro porto della stessa isola, Puerto Soledad (che
Johnson scrive Solidad), dove era insediato un governatore di Sua
Maestà Cattolica. (Si trattava dell’ex-porto dei francesi, Port
Louis, da loro venduto agli spagnoli, e cui poi gli inglesi ridiedero
il vecchio nome francese). Dunque l’isola era degli inglesi solo
per metà, o meglio: ciò che importava era solo il possesso dei
porti, non dei territori aridi, che non servivano a niente.
(Siccome bastano pochi
mesi per farci dimenticare fatti, nomi e carte geografiche che hanno
occupato i nostri canali televisivi e mentali fino a ieri, non è
inutile un pocket-book che si trova in queste settimane nelle
librerie e edicole italiane e che contiene tutti i dati e le date e i
fatti del recente conflitto e dei suoi precedenti:
Dobson-Mil-ler-Payne, The Falkland Conflict, Coronet Books).
L’ironia di Johnson è
tutta indirizzata a minimizzare l’importanza del possesso: «Una
cosa di cui noi stessi eravamo quasi stufi, non pensavamo che nessun
altro potesse invidiarcela; e perciò immaginavamo di essere
autorizzati a risiedere nell’Isola di Falkland, signori
incontestati delle solitudini battute dalla tempesta».
La prima impressione a
leggere questa cronaca settecentesca è che le situazioni si sono
ripetute identiche (nel 1769 una goletta spagnola s’avvicina e gli
inglesi le intimano d'allontanarsi; l’anno dopo gli spagnoli
arrivano con quattro fregate e gli inglesi si convincono a lasciare
l’isola); la seconda impressione è che tutto è stato differente
(la guerra non ci fu: perché gli spagnoli, appena visto che gli
inglesi erano pronti a far sul serio e avevano con velocità senza
precedenti allestito una flotta da guerra, fecero marcia indietro e
restituirono l’isola; e perché gli inglesi si contentarono che gli
spagnoli, pur non rinunciando a sostenere un proprio «diritto
prioritario» sulle isole, ne riconoscessero il «possesso di fatto»
agli avversari).
Erano insomma tutti molto
meno stolti d’adesso, e non perdevano il senso delle proporzioni.
Gli inglesi anche allora seguivano il sacrosanto principio di non
arrendersi di fronte alla prepotenza e all’aggressione (nelle cose
piccole, come allora e come quest’anno, e nelle grandi, come nel
1940), ma riuscirono a evitare la guerra perché fu sufficiente
mostrare la loro «forza di dissuasione», e qui va reso merito al
realismo del governo spagnolo che s’affrettò a sconfessare il
governatore di Buenos Aires, Buccarelli. (Già allora la massima
autorità dell’Argentina aveva un nome italiano!).
Onore offeso
C’era, sia da una parte
che dall'altra, la coscienza che per il diritto di chiamare quegli
scogli Falkland’s o Malvinas non valeva la pena di far morire
centinaia di persone. Almeno, questo si ricava dalla prosa di
Johnson, che questa coscienza ce l’aveva ben chiara: «Che un tale
insediamento possa essere utile in guerra, considerando la sua
posizione nessuno potrebbe negarlo. Ma la guerra non è la sola cosa
che conti nella vita; c’è di rado, e ogni uomo di buona volontà o
di buon senso vorrebbe che fosse ancor meno frequente».
Certo allora non era in
gioco quel catalizzatore della stupidità collettiva che è il
nazionalismo. L’introduzione di Ludovico Terzi sottolinea i
vantaggi che il linguaggio politico d’allora aveva su quello
d’adesso. (Gran parte della controversia si svolse attraverso
scambi epistolari a tutti i livelli: tra capitani di corvetta e
governatori di porti, e tra le cancellerie dei due imperi). Allora da
una parte e dall’altra si parlava di «onore» e di «ingiuria
fatta alla corona», concetti quanto mai astratti ma codificabili,
che non soffocavano il senso della realtà e lasciavano sempre una
possibilità di aggiustare le cose. (Contro ciò che era definito
«ingiuria» bastava trovare qualcosa che potesse essere definito
«soddisfazione»). Assurdo per assurdo, il linguaggio d’allora non
arrivava agli estremi di ridicolo (nella tragedia) di quello d’oggi
che tira in ballo l’«imperialismo» e l'«antimperialismo»
per territori popolati da pinguini.
Il dottor Johnson ha la
rara ventura per un propagandista ufficiale di trovarsi a difendere
una causa saggia e per di più già vinta: la «soddisfazione» di
tornare a occupare l’isola senza sparare un colpo gli inglesi
l’avevano avuta, anche se il loro possesso era solo
provvisoriamente accettato dalla Spagna poi dall'Argentina, come si
vede dalle vicissitudini del 1820, del 1833 e della primavera
scorsa); mentre l’opposizione di Pitt il vecchio, con cui egli
polemizza, per sostenere la tesi della guerra alla Spagna a ogni
costo, esasperava la questione dell’«onore offeso». Dal che si
vede che quel linguaggio poteva dar adito a soluzioni sagge quand’era
usato da gente con la testa sul collo; e poteva combinare disastri
quando era in bocca a scriteriati. (Se la stessa cosa si possa dire
del linguaggio d’oggi non lo so, perché gente con la testa sul
collo non ne vedo).
Di parlare più
diffusamente di Samuel Johnson si presenteranno altre occasioni: vedo
che «Il Saggi tore» preannuncia un’edizione di suo «conte
philosophique», Rasselas. Per ora voglio solo indicare
quintessenza della sua saggezza in questo passo: «Si direbbe che qua
tutti gli storici cadano nell’errore di credere che, come in
fisica, così anche in politica ogni effetto abbia una causa
proporzionata ad esso. Nell'azione inanimata della materia sulla
materia il moto prodotto non può essere che pari alla forza della
sua causa efficiente; ma i meccanismi della vita umana, sia pubblica
che privata, non ammettono simili leggi. I capricci dell'azione
volontaria rendono ogni calcolo ridicolo. Non è sempre vero che c’è
una forte ragione per ogni grande evento».
"la Repubblica", ritaglio senza data, ma 1982
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