Le Giubbe rosse sono gli
odiosi soldati di sua maestà nelle giovani Americhe anelanti
l'indipendenza. Lo sa qualsiasi ragazzo abbia letto anche soltanto
fumetti. Ma lo stesso nome (pare per via delle giacche dei camerieri)
è di uno straordinario caffè fiorentino dove per tutti gli anni
Trenta e i primi anni Quaranta si ritrovavano le promesse dell'Italia
letteraria. Erano tutti lì o almeno ci passarono: Montale, Gadda,
Vittorini, Luzi. Delfini, Poggioli. Landolfi, Pratolmi, Bilenchi,
Alfonso Gatto, Carlo Bo... Per dire solo alcuni dei più noti tra
coloro che. trovandosi a Firenze per le più diverse ragioni, si
incontravano alle Giubbe rosse e pubblicavano sulle riviste
letterarie (“Solaria” e poi “Letteratura”) animate da
personaggi come Ferrata e Bonsanti. Tempi lontani, molto più
distanti - si direbbe - degli anni che realmente ci separano
dall'Italia chiusa, provinciale e fascista dove si consumava la
trasgressione di leggere e tradurre i grandi autori della letteratura
straniera, gli inglesi e poi gli americani allora totalmente
sconosciuti, i francesi del '900, gli spagnoli (le prime poesie di
Lorca uscirono su “Letteratura”, ancora negli anni Trenta,
tradotte da Bo).
Che aria si respirava
alle Giubbe rosse? Carlo Bo fuma lentamente e sembra guardare il
vuoto: «Il clima era assai diverso da quello delle avanguardie di
solito tempestoso, un po' rissoso. Eravamo gente di poche parole -
racconta - A Firenze, che allora era molto fascista, ci chiamavano
Bigi, grigi, per dire che non si capiva bene di che colore si
fosse... Il maestro era Montale, che per Vittorini aveva una grande
simpatia. Allora Vittorini era poverissimo: fumava mezze sigarette, a
turno gli si offriva il caffè».
Veniva da Gorizia, viveva
facendo il correttore di bozze e nella tipografia de “La Nazione”
si era preso un'intossicazione da piombo. Era un siciliano scappato
da casa e dall’isola ventenne. Figlio dì un ferroviere, aveva
passato l’adolescenza a divorare romanzi nei caselli ferroviari,
adorava il Robinson Crusoe di Defoe, si era diplomato alle
scuole tecniche. Aveva anche fatto la "fiutina" con una
bella ragazza, Rosa Quasimodo, la sorella del poeta. È lei la sposa
bambina di Conversazione in Sicilia. Il loro matrimonio, dal
quale sono poi nati due figli (Giusto e Demetrio) fu sciolto nel 1950
a San Marino. A Gorizia, Elio e Delfina (Vittorini Rosa l'aveva
ribattezzata cosi) si erano trasferiti presso un fratello di lei, ma
un anno dopo lui aveva perso il lavoro da geometra ed erano giù a
Firenze.
Allora Vittorini era
ancora fascista e collaborava alle pagine culturali del “Bargello”,
settimanale della federazione del Pnf di Firenze. "Cambiò idea
con la guerra di Spagna - prosegue Carlo Bo - Nel 1936 non era ancora
chiaro che il fascismo appoggiava Franco e per il “Bargello”
Vittorini scrisse da fascista un articolo in cui diceva che bisognava
stare dalla parte dei repubblicani. Divenne antifascista così,
d'istinto. Poi si avvicinò al Pci, come Pratolini. Del resto,
l'unico che allora esprimesse una posizione antifascista di carattere
intellettuale era Montale, che a suo tempo aveva firmato il manifesto
di Croce. Per tutti gli altri l'antifascismo non era né una
posizione filosofica né ideologica, maturò coi tempi e la guerra di
Spagna fu decisiva. Come è noto Bilenchi fu un fascista in buona
fede, Rosai addirittura squadrista, Gadda passò dal nazionalismo
all'antifascismo... Tutti i miei coetanei o erano di famiglia
antifascista, come me che perciò non ho alcun merito, o erano stati
non dirò inquinati ma almeno sfiorati dal fascismo».
Il primo frutto della
«conversione» di Vittorini è appunto Conversazione in Sicilia,
che a suo tempo suscitò un'impressione enorme. Ecco come
l'americanista Gianfranco Corsini, allora studente, rievoca il suo
primo incontro con Vittorini nel 1942, nel salotto di Montale che a
Milano era stato direttore del Gabinetto Vieusseux: «Per me fu
un'emozione indimenticabile. Era alto, con baffi scuri c capelli a
spazzola, aveva un forte magnetismo. Era una persona attraente,
espansiva. A quel tempo era già un mito, il suo nome circolava già
molto e si parlava di lui come di un inafferrabile. Conversazione
in Sicilia ci aveva colpito parecchio: in Italia fino ad allora
c’era solo la prosa d'arte, mancava completamente una tradizione di
romanzi moderni... Dcl resto, se penso alla Bosnia dei giorni nostri
trovo ancora profetico quel suo: "Piango per il mondo offeso"».
Ma com’era la casa di
Montale e della sua. compagna, detta la Mosca, aperta a tutta quella
gioventù in cerca di nuovo? «Era una casa borghese, quasi sul
Lungarno - ricorda Corsini - Lui era ordinatissimo, sempre in
pantofole, in camera aveva un piccolo tavolino da lavoro: allora
traduceva Melville. La Mosca era una signora deliziosa Mi trovai a
casa loro il giorno in cui arrivò la Ginzburg tutta vestita di nero,
con i suoi bambini. Leone era appena stato ucciso. Quella scena così
traumatica mi è rimasta dentro».
Allora Vittorini macinava
già progetti editoriali per il dopoguerra. Nel '42 era uscita
Americana, la prima antologia di scrittori d'Oltreoceano
censurata e presentata da un'introduzione di Emilio Cecchi che Pavese
definì canagliesca». Al giovane Corsini, Vittorini, che ormai vive
giù a Milano, affida la traduzione di un romanzo di Elisabeth
Gaskell, una delle autrici preferite di Marx. «Quel librone me lo
sono tirato dietro per tutta la resistenza, senza mai finirlo. Tre
anni dopo, Vittorini che nel frattempo mi aveva affidato altri
impegni, ancora mi tempestava: «Sbrigati. È nel tuo interesse
sfatare la leggenda della tua pigrizia!».
Ma Vittorini sapeva
davvero l'inglese? Irregolare, asistematico, antiaccademico, nella
Lettera a Togliatti apparsa sul “Politecnico” nel 1947
racconta lui stesso come l’aveva imparato nella tipografia de “La
Nazione”, da un operaio come lui. Corsini ricorda che la formazione
linguistica non poteva che lasciare a desiderare m tempi in cui era
impossibile andare all’estero. Oreste Del Buono rammenta che "lo
sapeva fino a un certo punto, ammetteva che Pavese era più bravo.
Eppure perfino lui si defilava se solo si trovava con qualcuno che
parlava davvero bene l’inglese”.
Dunque per tradurre, ci
voleva un negro che preparasse i testi. Gli scrittori poi li
reinventavano. Gadda, Vittorini, Montale hanno lavorato così. Ma
quello della negresse inconnue, secondo la definizione
regalata da Montate a Lucia Rodocanachi, la bella e raffinata,
triestina che lavorò con Vittorini su Americana, è diventato
un affaire. È ormai appurato infatti che la signora non ebbe
riconoscimento alcuno. Non lo ebbe sul piano professionale né sul
piano economico. Lei era ricca, lui no. Ma secondo Gian Carlo
Ferretti, che ha scritto un libro recente con molto materiale medito
(Vittorini editore, Einaudi), c'era una certa sproporzione tra
le effettive condizioni economiche dello scrittore e l'immagine
interessata di povertà tracciata nelle lettere a Lucia per motivare
le sue reiterate inadempienze. Lo facevano tutti, é vero - dice
Ferretti - Per Vittorini però è più eclantante perché su quel
rapporto con la Rodocanachi lui ci viveva». La filosofia
vittoriniana in proposito la si trova in una lettera del 1937 alla
sua frustrata negresse. “Sento che c'è quasi una punta di
sfruttamento, in questo, da parte mia. E mi consolo solo al pensiero
che anch’io sono sfruttato, da parte dell'editore e di tanti. Ma
lei, a sua volta, chi sfrutta?». Ferretti parla di genio c
spregiudicatezza: che cosa vuol dire? “E come definire altrimenti
il modo in cui faceva traduzioni belle e infedeli? Più tardi si
comporterà così anche da editore. Prese la storia dei musulmani in
Sicilia di Amari e lo trasformò per “Corona" in un libretto
di duecento pagine. Allo stesso modo, usando robustamente le forbici,
costruì Il sergente nella neve di Rigoni Stern e ne fece un
libro di successo».
“Corona” e «Pantheon»
sono le collane che Vittorini dirige da Bompiani, già nel ’42.
Ormai vive a Milano. In una lettera a Hemingway del 1949 dirà:
«Amavo e amo Milano per la donna di cui mi ero innamorato...già nel
’32». Lei è Ginetta Varisco, la ragazza del partigiano Enne 2 in
Uomini e no, il più hemingwaiano, appunto, dei romanzi di
Vittorini. Quello che racconta la stagione bruciante che i due
avevano vìssuto dentro la resistenza, lui era stato arrestato nel
'43 e rilasciato poco prima dell’8 settembre. “Vittorini piaceva
alte donne, era bellissimo. Lui e Enrico Emanuelli erano i due belli
coi baffi, infatti tra loro c’é sempre stata una lieve
competizione», racconta Oreste Del Buono in una delle sue
travolgenti ricostruzioni «Era una gran donna, la Ginetta - prosegue
il mitico OdB. - sempre molto esplicita: Vittorini era siciliano, lui
dava a intendere ma non si prendeva responsabilità». Del Buono
rievoca la protostoria di quell’amore. Le serate di lettura in casa
di lei c del suo primo marito, Cesare Ludovici, il drammaturgo.
«Finché un bel giorno lui torna a casa e trova tutto per le scale.
Ginetta, che quella volta stava con Ferrata, l’aveva messo fuori.
Più tardi disse che quella era stata una tappa per arrivare a
Vittorini, che diventò il suo secondo marito. Il giorno in cui seppe
che lei lo lasciava per Elio, Ferrata disse davanti a tutti: mi
dimetto da uomo. Però restarono amici».
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La gestazione del
“Politecnico” viene da lontano, da prima della guerra, come hanno
dimostralo gli studi recenti di Marina Zancan. Nello stesso anno in
cui vide finalmente la luce, il 1945, Vittorini passa come una
meteora anche da “L'Unità” di Milano. Fa il redattore capo.
Direttore é Giancarlo Paietta che, con la consueta irò, nia, ha
tratteggiato più volte un profilo perfido del Vittorini giornalista
in attesa dell'ispirazione per lare la didascalia della foto di prima
pagina; c se non gli veniva...se ne andava lasciandola in bianco.
Sui vizi e le virtù del
“Politecnico” si é scandagliato mollissimo, tutto è stato
detto, la rivista morì per il concorso di molte ragioni: lo scontro
col Pci che delegittimava quel gruppo d’intellettuali, Einaudi che
si defilava (al gruppo degli einaudiani di Torino, del resto, quella
gente non era mai piaciuta), Mondadori che non raccolse la sfida al
rilancio e, sullo sfondo, la fine di una stagione. Si erano consumate
le ragioni dell'antifascismo, anche sul mondo della cultura scendeva
l’inverno della guerra fredda, la verità di OdB, che allora
lavorava nella bottega di Vittorini, ha il gusto del paradosso: «lo
sono vetero, sa: ero vittoriniano allora e poi mi sono trovato a
difendere Togliatti quando era già morto, contro Cervetti. Che
roba! Vittorini concepiva il “Politecnico” come una cosa
d’avanguardia, il partito trovava invece che quelli erano falsi
obiettivi per l’educazione delle masse. Si comportò come avrebbe
fatto un editore prudente. Del resto Togliatti era circondato da yes
men e da crociani, allora la cultura la facevano i professori di
scuoia media. Lo sa che la riuscirono a far togliere da “L'Unità”
un fumetto americano che allora si pubblicava? Poi dovettero
accorgersi che a Mirafiori leggevano “Grand Hotel”. Il
“Politecnico” allora era la nostra attività sovversiva, un
giornale di ragazzi scompaginato. Vittorini ci faceva fare i pezzi a
tesi, ci trasformava anche in sicari. Una volta mi chiese perfino di
riscrivere il finale di un racconto di Babel. Comunque, io gli sono
grato. Aveva capito l'importanza del cinema e dei fumetti, era un
segno della sua agilità. Se non era per lui, non avrei mai fatto
neanche Linus”.
E gli einaudiani di
Torino, l’inimicizia con Pavese? "Vittorini era generoso,
Pavese era più infelice. Allora le conquiste della virilità
contavano molto, Pavese non ce la faceva, si arrabbiava...non
potevano essere amici. Erano stati sempre in competizione: fino dai
tempi di Conversazione in Sicilia e di Paesi tuoi.
Vittorini aveva avuto successo all'estero. Eppure Pavese lo difese
quando fu della censura di Americana. Poi. finita la guerra,
già sotto l’occupazione, venne la grande disillusione nei
confronti degli Stati Uniti che erano stati il simbolo della libertà:
anche in questo, nel modo di viverla, loro due furono diversi...».
Giancarlo Ferretti
sostiene che lo scontro tra Vittorini e Togliatti, ai tempi del
“Politecnico”, si consumò su posizioni opposte ma dentro una
stessa idea del «militantismo» degli intellettuali: «Si misurarono
su una visione della cultura speculare», dice Ferretti che parla di
«convergenze sottili, inconsapevoli ma profonde tra posizioni pur
diversissime. Vittorini non ruppe, come poi fecero altri, perché non
ci stava più. Lui cambiò solo molto più tardi». Nello Ajello,
autore di un celebre saggio sul rapporto tra gli intellettuali e il
Pei, non è d'accordo: «Emulsionare acqua e olio a distanza di tempo
può dare una visione un po’ più pacificata dei conflitti, ma non
è vera. Caso mai è vero il contrario: a distanza di quasi
cinquantanni l'olio è tornato olio e così l'acqua. Entrambi sono
liquidi ma assolutamente distinti. Così Vittorini e Togliatti. In
comune avevano un fondo liberal-democratico mediato dal crocianesimo,
ma l’altra metà per l’uno era eclettica, sperimcntalista, da
trovarobe autodidatta; per l'altro era Stalin e uno zdanovismo se non
condiviso usato come instrumentum regni. Per Togliatti tutto
era politica, per Vittorini tutto era cultura. Era diventato
comunista su una generica spinta di sinistra, senza aver letto Marx.
Ma se tutto questo andava bene nel ’$5, nel ’46-47, col
cambiamento del clima politico, non funzionava più. Fu accusato
d’intellettualismo e persino di cosmopolitismo che per un
intellettuale sono accuse sanguinose. E si badi bene, lo scandalo non
fu tanto l’eclettismo ideologico, un aristocratico come Visconti,
che maltrattava i servitori, era tollerato benissimo. Era
l'eclettismo delle frequentazioni culturali di Vittorini a essere
insopportabile. Quel suo guardare a certi scrittori trotzkisti o
seguire tutti gli ondeggiamenti di Sartre che litigava col Pcf.
Vittorini non voleva applicare la linea, voleva darla lui restando
nel Pci: non a caso fu accusato di aver sbagliato porta, di
comportarsi come se quello fosse il partito liberale».
Mario Spinella, che è
stato certamente un intellettuale organico quando il suo amico
Vittorini aveva già rotto col Pci, ha visto rafforzarsi negli anni
una sua vecchia convinzione: «Una delle maggiori carenze del
movimento operaio (e poi dei comunisti in particolare) è stata la
diffidenza e l’ostilità per gli artisti dell’avanguardia. A
cominciare dai pittori anarchici milanesi di fine ‘800, passando
agli espressionisti tedeschi fino al Gruppo 63. Naturalmente ci sono
le eccezioni: l’interesse di Gramsci per i futuristi, di Trotzkij
per l’avanguardia russa. Ma in generale l’argomento del Marx
dell’Ideologta tedesca, secondo il quale in futuro non ci
saranno più artisti perché tutti lo saranno, è stato usato in modo
surrettizio». Cioè come sofisma per liquidarne la funzione”.
Correva sul filo di
questa comune passione eversiva il rapporto tra Vittorini e Spinella,
cominciato alla fine degli anni Cinquanta quando tutti i giorni alle
diciotto si poteva trovare lo scrittore alla libreria Einaudi diretta
da Valdo Aldrovandi, e allora abitualmente frequentata da Enrico
Emanuelli. dall’architetto Rogers, da Ernesto Treccani. «Ci univa
l’amore per il fare letterario - dice Spinella - la voglia di
incoraggiare i giovani. Vittorini si era fatto da sé, veniva da una
famiglia modesta, da un'area culturalmente marginale, riconosceva di
essere stato molto aiutato soprattutto da Montale, a Firenze. Perciò
desiderava farlo anche lui. È stato un talent scout
eccezionale». Nella collana sperimentale che dirigeva allora, i
«Gettoni» di Mondadori, tra gli altri pubblica esordienti come
Lalla Romano, Arpino, Fenoglio, Rigoni Stern, Ottieri, Bonaviri.
Tcstori. Rifiutò il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa con
quella che Ferretti definisce una scelta «di tendenza» - sapeva
quel che valeva ma non era quello che cercava lui. Col “Menabò”
il carattere d'avanguardia della sua ricerca letteraria si accentua
ulteriormente: «Era un territorio di sperimentazione anche
critico-teorica - ricordo Spinella - Il Calvino di allora era uno
scrittore d'avanguardia, su quella rivista usci la prima stesura
dell'Horcynus orca di D'Arrigo, c'era Leonetti e ci scrivevano
anche molti altri del Gruppo 63 che poi non furono teneri con
Vittorini accusalo di eccessi di realismo.
La passione politica non
l'abbandonò, nonostante tutto. «Le opinioni di Vittorini sulla
società e sulla politica non cambiarono - scrive di lui Romano
Bilenchi - Era rimasto un comunista. Nel 1960 mi scrisse una lettera
affettuosa chiedendomi la firma di un appello lanciato dai migliori
scrittori francesi contro la guerra e la tortura in Algeria».
Spinella conserva il ricordo di una manifestazione di piazza a Milano
all'inizio degli anni Sessanta. Era stata organizzata in solidarietà
a un militante comunista spagnolo condannato alla garrota, Grimau.
«Vittorini era tra i più agitati, lo presero e lo caricarono su una
camionetta, insieme con Fortini. Allora qualcuno grida alla polizia
'Ma siete matti, portate via Vittorini?' Un commissario intelligente
capì che non era il caso e li fece scendere; ma Vittorini non volle,
se anche gli altri fermati non venivano rilasciati con lui. Li
liberarono tutti. Purtroppo quel giorno un ragazzo fini schiacciato
da una camionetta e ci morì sotto”.
Vittorini seducente e
solare. «Un berbero biondo» secondo Spinella. «Un cervo che
fugge», secondo Fortini che di lui ha scritto. «Credeva alla
gioventù come a una giustizia. Invecchiare gli fu difficile». Con i
suoi ragazzi com’era? “Affabile c autoritario, si sa”. Del
Buono se lo ricorda paterno con Raffaele Crovi, il suo pulcino (oggi
è il direttore di “Camunia”), sulla difensiva con Fortini,
perché era più colto, «con noi scherzava sempre».
Il crepuscolo è per
definizione meno luminoso. Nel '55 mori Giusto, il figlio più amato,
e il colpo é durissimo. Nella corrispondenza tra Bilenchi e
Togliatti, si trova una lettera in cui il leader del Pci si impegna a
cercare una strada - se possibile - per far curare in Urss il figlio
di Vittorini malato di cancro. Non ci fu nulla da fare. Padre Camillo
De Piaz, che conosceva Vittorini per averlo «sfiorato» durante la
resistenza, gli fu vicino in quei giorni tremendi. «Lo ricordo
abbracciato a me mentre Giusto moriva - racconta - Gli dissi, e ne fu
contento, che mi permettevo di raccomandarlo al mio Signore perché
gli desse luce e forza. Lui è più grande della nostra fede e della
nostra mancanza di fede, e ci ha fatto tali da autorizzarci, per così
dire, a dimenticarla per vivere pienamente la nostra vita come ha
fatto Elio». Oggi padre De Piaz non riesce a non pensare Vittorini
«in una luce cristiana». «Non credo di far torto cosi alla sua
memoria - spiega - né sono indotto a farlo da forzature interessate,
non è nel mio stile. Nel dirlo penso a due componenti fondamentali
della sua persona: la dedizione agli altri fino alla perdita di sé,
e il suo sapersi trasferire negli altri (in quanti poi, e così
diversi) per aiutarli a essere maggiormente se stessi».
Nello Ajello ricorda di
aver incontrato Vittorini l’ultima volta, nella sua casa sui
Navigli, il primo maggio 1964, due anni prima che lo scrittore
morisse. «Guardava i barconi carichi di sabbia che scivolavano sul
canale e aveva il tavolo carico di libri di storia della tecnologia,
di geometria, di psicologia. Vittima del suo stesso sperimentalismo,
Vittorini ne era ormai soffocato. Era assillato dall’idea di stare
al passo col mondo, ma pensava che per la letteratura questo ormai
non fosse più possibile e perciò ne teorizzava la fine, giacché le
scoperte erano ormai delle scienze, della psicologia, della
sociologia. Si era perso in un labirinto».
Vittorini aveva un cancro
allo stomaco. Amava una gatta e sapeva lucidamente di dover morire,
mentre riceveva gli amici in clinica parlando di nuovi progetti.
Accadde nel febbraio del Sessantasei. Nessuno si è rassegnato a
perderlo. Vittorini è stato importante anche come crocevia di sogni.
Ne parla Vittorio Sereni, in suo poemetto del 1971, Un posto di
vacanza. Vittorini appare come un fantasma a Bocca di Magra, dove
spesso andavano. Oracolare, ironico, gentile ripete come un
tormentone: «Che ci fai ancora qui in questa bagnarola?». Poi c'è
il famoso sogno di Romano Bilenchi, quello che chiude quel suo
folgorante ricordo di Vittorini, pubblicalo in Amici, Elio
cammina con le mani in tasca per una strada deserta, a Firenze, porta
il suo solito basco turchino. È andato a salutarlo. Il sogno di
Fortini è raccontato in una poesia, Le sette di sera. Lì c'è
un curioso rovesciamento delle parti. Il fantasma non è Elio, che in
mano ha le chiavi della «Giulia» e lo abbraccia stringendo l'aria;
perché forse è il sognatore che nel frattempo si è trasformato in
morto. Secondo la leggenda, Franco Fortini non è di facile
carattere. Di Vittorini non ha voluto parlare. Però è stato
generoso: ci ha regalato i versi inediti di questa pagina. Li ha
scritti l'anno scorso, come si vede alludendo al mistero di quelle
apparizioni. A Elio che percuote i sogni.
l'Unità, 4 aprile 1993
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