Ho
trovato lo scritto che segue, del grande Gianni Rodari, in un numero
de “l'Unità” di 68 anni fa. Non è, di per sé, una gran cosa,
ma mi pare estremamente significativo di che cosa sia stato il
Partito Comunista nella storia delle classi subalterne in Italia e di
come i comunisti in Emilia e Romagna, al di là delle
rappresentazioni caricaturali di Guareschi, lavorassero per la loro
emancipazione prima di tutto culturale. I libri fanno liberi.
(S.L.L.)
Libri
vecchi e nuovi nelle case dei braccianti emiliani
Mi è
capitato spesso, entrando nelle case dei braccianti emiliani o dei
mezzadri romagnoli, di vedere allineati in bell'ordine su una mensola
i libri del “Canguro”, ossia della Universale Economica che ha
cominciato lo scorso anno le sue fortunate pubblicazioni. In
bell’ordine, voglio dire in ordine di pubblicazione e di numero,
dall'uno al venti, al trenta, il volume decimo dopo il nono.
Uno
psicanalista spiegherebbe il successo dell’Universale Economica con
quei numeri stampati bene in vista sul dorso e sul frontespizio, con
il loro segreto richiamo all'ordine, alla completezza: chi possiede
un sol numero, o numeri staccati e dispersi, non può aver pace se
non completa la serie; chi compra il numero 29 ò costretto a
comprare anche il 30, così come un accordo dissonante è costretto a
risolversi in un nuovo accordo. Solo la serie appaga, i numeri-serie
riposano: la decima, la dozzina, il centinaio, ecc. Potenza
misteriosa del numero. Ricordo a questo proposito un’arguta
sentenza del senatore Sereni:“Ne uccide più la psicanalisi che la
spada”.
Ma
io volevo parlare delle case dei contadini romagnoli. Una volta
l'italiano che viaggiava in Olanda o in Boemia, stupiva di incontrare
contadini letterati, di scoprire nelle loro modeste case librerie e
biblioteche, con tutti i classici in fila.
In
questo dopoguerra, per merito del Partito Comunista, milioni di libri
sono entrati nelle case degli operai, dei braccianti, dei contadini
italiani: opere di Marx, di Lenin, di Stalin e di Gramsci, ed hanno
creato il terreno propizio al successo di una iniziativa di cultura
popolare come quella del “Canguro”. Si spiegano così quelle
mensole e quei libri in fila senza ricorrere alla psicanalisi e
all’Olanda.
Scusate
anche questa digressione. Il mio compito, infatti, è di dar notizia
di una strana conversazione che si è svolta una di queste notti in
casa di un bracciante romagnolo, beninteso a sua insaputa, nelle ore
notturne, mentre il buio ed il sonno fasciavano la casa, sprofondata
nella notte tome un sottomarino negli abissi subacquei. Da quella
profondità, un poco sopra la madia del pane, una voce chiese, forse
a se stessa: “Wohin
bin ich denn ange-kommen? “ (Dove diavolo sono Capitato?).
“Monsieur
Feuerbach — rispose un’altra voce in tono di affettuosa sorpresa
— vous etes cn Romagne. C’est dróle, quoi? Les paysans
commencent à s’intéresser à votre philosophie” (Voi siete in
Romagna. Strano, no? I contadini cominciano a interessarsi della
vostra filosofìa).
“Herr
Voltaire?”.
“Oui,
c’est moi”.
“Ditemi
allora di grazia — proseguì il filosofo tedesco — chi è che mi
si stringe addosso alla mia sinistra, e puzza di fagioli e di aglio
da mozzarmi il respiro?”.
“È
Bertoldo — rispose cortesemente Voltaire — un saggio buffone.
Abita nel volume numero sette, voi nel nove, e io nell’otto, herr
Feuerbach!».
“L’immortalità
è una cosa scomoda, a volte. Vi può capitare di trovarvi nello
stesso scaffale accanto al vostro peggiore nemico. Ma non conosco
questo Bertoldo”.
“Apprezzate
tuttavia — riprese Voltaire — il lato interessante di questa
nostra residenza. Per conto mio, grazie al cielo, ecco un lettore che
mi piace. Egli mi rispetta, capite? Non è un Faust saccentone,
disgustato del mondo e della filosofia: è un uomo che comincia
adesso ad aprire gli occhi, a scoprirsi un’intelligenza e un posto
in casa per una libreria, accanto alla zappa e alla vanga. Quando la
sera, toltosi il fango dalle scarpe, egli mi prende in mano per
leggermi, sento un brivido irresistibile. Le sue mani callose,
collinose, montagnose, mi trattano con tanta umiltà e con tale amore
che il mio proverbiale cinismo va a farsi benedire”.
“Sono
d’accordo con voi, signor di Voltaire — ammise Feuerbach —
spiegare, com’io faccio, l’essenza del Cristianesimo a un
bracciante romagnolo, ecco un’esperienza interessante”.
“Senores,
senores”, fece a questo punto una vocetta in falsetto.
“Soy Lazarillo de Tormes, senores. No tienen hambre, ustedes?” (Sono Lazzarino di Tormes. Non hanno fame, loro?).
“Soy Lazarillo de Tormes, senores. No tienen hambre, ustedes?” (Sono Lazzarino di Tormes. Non hanno fame, loro?).
“Ah,
ah — ridacchiò Voltaire — in tanti secoli il nostro Lazzarino
non si è ancora cavata la fame. È arrivato in Romagna da poco, con
il numero 29. Non sa ancora che qui si mancia pane bianco e
profumato”.
“Appunto
— esclamò Lazzarino — avvertivo un certo profumo”.
“Sfido
— fece Bertoldo — la nostra mensola si trova proprio sopra la
madia del pane”.
“Si
direbbe un’immagine: il pane della mente accanto al pane del corpo.
Nella mia Ethica more geometrico demonstrata... “.
“Benvenuto,
signor Spinoza”, salutò rispettosamente Feuerbach.
“Buonasera,
signori. Dichiaro, riprendendo l'argomento da lor signori trattato,
che per parte mia sono felicissimo di trovarmi in una casa, e in una
provincia, dove la libertà di pensiero è particolarmente
apprezzata”.
“Casa
di un comunista, uno scomunicato”, commentò Voltaire.
“Sono
stato io pure scomunicato dai miei rabbini”.
Ernesto
Renan e Blaise Pascal, quasi ad una voce, citarono il Vangelo.
Uno dopo l’altro, gli autori ed i personaggi allineati sulla
piccola mensola intervenivano nella discussione, allargandola,
infittendo la sua rete. Le voci si incrociavano in dialoghi
mistilingui: il russo, l’inglese, l’italiano rispondevano a,
tedesco, al francese, allo spagnolo, al latino.
E se
Edgar Poe borbottava “I dont understand (io non capisco), ecco
Julius Fucik pronto a far da interprete tra lui e Gogol.
“Voi
fareste derivare l’uomo da un tronco di ciliegio”, osservava
bonariamente il vecchio Darwin a Collodi, Pinocchio, dal canto suo,
già stava meditando un tiro da giocare al burbero Javert, il
poliziotto di ferro dei Miserabili: è nota l’antipatia del
celebre burattino per la forza pubblica.
Il
Pugaciov di Puskin si confrontava, sa il cielo con quali risultati,
con i siciliani dei Vespri, ì Mille di Giuseppe Cesare Abba e i
milanesi della principessa Belgioioso.
Barbusse
discorreva quietamente con Stalin e gli mostrava il suo ritratto, che
il padron di casa aveva appeso sulla parete, accanto a una Madonna,
Bel-Ami e Dupin parlavano di Parigi, teatro comune delle loro gesta,
Guerrazzi e Pascal avevano molte cose da dirsi sui gesuiti, mentre
Haldane, Laberenne e Ilin discutevano di astronomia e di geologia.
Teorie,
argomenti, fatti; letterati, filosofi, scienziati; avventurieri,
donne celebri, creature della fantasia o della storia: tutto un mondo
insolito si agitava su quella mensola di pochi decimetri, proprio
sopra la madia del pane. L’incontro con il bracciante romagnolo era
per loro un’esperienza così interessante e nuova che non finivano
di discuterne. Anzi, io credo che non abbiano finito affatto quella
notte, che ogni notte la conversazione riprenda, e che riprenda di
giorno, dì sera, ogni volta che il bracciante toglie un libro dallo
scaffale e si rinnova il miracolo dell’incontro tra la cultura e la
sua mente giovanile ed entusiasta.
È
un miracolo che comincia appena e si compie contemporaneamente in
migliaia di case. La notizia di questo miracolo meriterebbe ben altri
commenti e considerazioni.
"l'Unità", 1 marzo 1950
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