29.5.18

“Guerra e pace”, anatomia di un capolavoro (Cesare G. De Michelis)

Ritratto dello scrittore da vecchio

Nel 1862 Stepan Sevyrev e Giuseppe Rubini presentavano al pubblico italiano Lev Tolstoj con queste parole: "Per una certa grazia nello stile narrativo, per vivacità e fecondità non prolissa si distingue il conte Leone Tolstoj". L'anno dopo egli cominciò la stesura del romanzo che conosciamo come Guerra e pace: annunciato molto tempestivamente in Italia sulla “Rivista contemporanea nazionale italiana” di Angelo De Gubernatis (1869) con l'articolo Il conte Leone Tolstoj e il suo romanzo "La pace e la guerra", apparve assai più tardi (dopo Anna Karenina, nel 1891) sulla scia della moda europea inaugurata da Le roman russe di Eugène-Melchior de Vogue (1886). Erano gli anni in cui la fama di Tolstoj-romanziere veniva offuscata da quella di Tolstoj-predicatore sociale e religioso, ottimamente ricostruita da Antonella Salomoni (Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia. 1886-1910, ed. Olschki), così sintetizzata da Giovanni Pascoli: "Ed e' vestì la veste rossa e i crudi/ calzari mise, e la natal sua casa/ lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli,/ e per la steppa il vecchio ossuto e grande/ sparì" (1911). Ma altre traduzioni si susseguirono a breve distanza (di E.W. Foulques, Napoli 1904, di E. Serao, Napoli 1906, di F. Verdinois, Milano 1915), sicché anche in Italia il nome di Tolstoj rimase legato soprattutto a Guerra e pace.
Alla fine della Grande guerra il romanzo fu tra l' altro presentato in un compendio antologico compilato da Giuseppe Prezzolini sulla base della versione di Verdinois. La "prima versione integrale e fedele" apparve solo dieci anni dopo, nel 1928, e fu condotta da Enrichetta Carafa Capecelatro, duchessa d' Andria, per la "Slavia" di Torino diretta da Alfredo Polledro: tale versione fu poi rivista nel 1941 (altro anno di guerra, e questa volta contro la Russia!) da Leone Ginzburg che si trovava al confino per ragioni politiche, e quando Einaudi la pubblicò fu bollata da “Il popolo d' Italia” di "giudaica scrupolosità da forastiero". Adesso viene riproposta in un tascabile (L. Tolstoj, Guerra e pace, 2 volumi, Einaudi, pagg. 1445) che affianca alla breve, densa "Prefazione" di Ginzburg (1942) una "Introduzione" di Pier Cesare Bori. È un' edizione pressoché esemplare (giusto la traslitterazione non è stata uniformata ai criteri moderni); in particolare, l'ampio saggio introduttivo (pagg. XI-LVIII) rappresenta a mio avviso quanto di meglio sia stato scritto in Italia sul romanzo.
Bori non è slavista di professione (insegna filosofia morale), ma da anni lavora con competenza professionale su Tolstoj facendosi interprete delle sue dottrine etico-religiose, come testimonia il volume L'altro Tolstoj (il Mulino, pagg.166) che si richiama in qualche modo all'ultimo libro d'un altro "non addetto ai lavori", il grande storico e filologo russo recentemente scomparso Jakov Lurje (Dopo Leone Tolstoj -, S. Peterburg 1993), dedicato alla concezione tolstojana della storia. L'idea avanzata da Bori in quella sede, che "l'elemento letterario e quello teorico siano profondamente intrecciati, in Tolstoj, prima e dopo il 1880", trova nell'"Introduzione a Guerra e pace" il terreno ideale di verifica e conferma. Egli articola il saggio in quattro punti: storia della composizione del romanzo, analisi delle sue fonti, storia dell'interpretazione, riflessione sulla guerra e sulla pace, e lo conclude con una commossa ricostruzione dell'edizione di Ginzburg basata sui materiali dell'Archivio Einaudi: "Colui che aveva proposto una lettura antieroica di Guerra e pace morì come sappiamo", lasciando parole intrecciate "tra sentire domestico e qualcos'altro, che è difficile non chiamare eroismo".
Tolstoj cominciò a pensare a un vasto romanzo storico dopo la guerra di Crimea, nel 1856, quando i decabristi (promotori della rivolta del dicembre 1825) tornarono dalla deportazione, e ne scrisse tre capitoli, I decabristi, appunto. Il protagonista doveva essere uno di loro, sicché "dal presente passò senza volerlo al 1825. Ma nel 1825 il suo eroe era un uomo già fatto (...), per capirlo doveva trasportarsi all'epoca della sua giovinezza, e quest'epoca coincideva con quella gloriosa per la Russia (nella campagna contro Napoleone) del 1812". Per far questo bisognava risalire ancora indietro, alla generazione che aveva "fatto" il 1812, sicché il romanzo prese inizio dal 1805, e anziché un romanzo sul "decabrista di ritorno" si ebbe dapprima Tutto è bene quel che finisce bene (in questa redazione Andrej e Petja non morivano e lo scioglimento contemplava un duplice matrimonio) e poi Guerra e pace. Queste trasformazioni implicano un discorso di merito così riassumibile: "Tolstoj voleva scrivere un romanzo nobiliare e voleva compensare la coscienza dei suoi contemporanei per la sconfitta di Crimea" (Sklovskij); solo che "il primitivo antistoricismo" (della "cronaca familiare") fu sostituito da "un nuovo genere che risultava dalla combinazione di "azione romanzesca, materiale storico e discorso filosofico" (Ejchenbaum). Guerra e pace risulta così come "una lingua compenetrata in un' altra lingua, come se, per esempio, il vocabolario fosse romanzo ma la grammatica slava o germanica" (Sklovskij).
La discussione aperta dai formalisti e proseguita dalla Zajdensnur (che rivendica l' unità poetica del romanzo) implica quella sull'uso delle "fonti" extraletterarie, introducendo nel vivo della "fattura" del testo e sfociando nella questione "della pertinenza e dell'attendibilità delle sezioni teoriche". Quanto ai realia extraletterari, due episodi valgono meglio di lunghe disquisizioni a intendere la complessità del "laboratorio" tolstojano. Alessandro d' Ancona narra che, quando si convinse d'aver identificato in Scipione Piattoli "l'italiano autore di un disegno politico di pace universale" che s'incontra all'inizio del romanzo col nome di abate Morio, si rivolse a Tolstoj per una conferma: "Ma o la lettera andò perduta, o lo strano autore, nella sua nuova metamorfosi, era allora tutto assorto a guidare bovi o a cucirsi le scarpe. Il fatto è che non ebbe nessuna risposta".
Il romanziere russo s'era forse infastidito che l'erudito italiano fosse entrato nella sua "cucina"? Quando anni prima (1865) la principessa V. gli aveva chiesto chi fosse nella realtà il principe Andrej, le aveva risposto: "Andrej Bolkonskij non è nessuno, come ogni personaggio d'un romanziere, e non ha niente a che vedere con le conoscenze e i ricordi dello scrittore. Mi sarei vergognato di venir pubblicato, se tutto il mio lavoro fosse consistito nel fare ritratti".
E tuttavia, come ricorda Bori, "alle origini del romanzo (...) v' è anzitutto una tradizione famigliare", in base alla quale "le immagini del padre e della madre confluirono in quelle di Nikolaj Rostov e della principessa Marija Bolkonskaja" (la sorella di Andrej, nel romanzo), come il padre di Andrej deriva dalla figura di uno zio di Tolstoj per parte di madre, Sonja rispecchia il carattere d'una lontana parente governante a Jasnaja Poljana, e Natasa Rostova, la splendida Natasa che alla fine sposa Pierre Bezuchov, "proviene in parte dalla moglie”.

“la Repubblica”, 28 marzo 1999

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