L'intervista qui
riproposta apparve su “Giovane critica”, che allora si ideava,
realizzava e stampava a Catania, nell'inverno del 1964 e poi inserita
in una sorta di autoantologia che il direttore e redattore quasi
unico, Giampiero Mughini, pubblicò come bilancio dei dieci anni
della rivista. L'intervistatore era – quasi certamente – lo
stesso Mughini. (S.L.L.)
Tu pensi che si possa
parlare oggi di una «morte della provincia» nella accezione
delineata da Massimo Ferretti (in un articolo sul “Giorno”)? O
che si debba piuttosto parlare di «neoprovincia» e di
«neoprovincialismo», cioè di movimenti effettivamente avvenuti ma
che riguardano solo certe zone della provincia e, comunque, nei loro
aspetti esteriori e di costume?
La provincia è morta
perché tutto il mondo, oggi, è provincia. Provincia dico, nel senso
deteriore. Non c’è niente di più decisamente provinciale, per
esempio, degli avanguardismi che si svolgono oggi a livello delle
capitali culturali e che nella provincia geografica trovano immediate
rifrazioni: velleità ed escogitazioni in cui sì raccoglie, in
definitiva, la cattiva coscienza di un paese (espressione che
giustamente Ferretti usa nei riguardi della provincia di ieri).
La provincia, quella
che fino a quindici anni fa (all'incirca) era area di ritardo e
confusione culturale (ma che pure, nonostante il ritardo e dentro la
confusione, obbediva a un compito, per così dire, «preparatorio»)
oggi non esiste più: e non occorre enumerare quegli strumenti che
l'hanno portata al livello dei «centri» e che, piuttosto, hanno
portato i «centri» al livello della provincia.
Perché si va tutti a
scuola, ormai: ma non è poi un gran guadagno se la scuola subisce un
evidente processo di degradazione. E se vent’anni fa la provincia
consumava ancora D'Annunzio mentre i «centri» già consumavano
Proust, e invece tre anni fa Musil è stato uniformemente consumato
da Torino a Pechino, non c’è gran che da esultare: ché dopo tutto
D’Annunzio lo si consumava leggendolo e Musil semplicemente
acquistandolo. Ed è senza dubbio un fatto positivo che la provincia
abbia perduto, nel livellamento, quei caratteri dannunziani che le
erano propri (anche prima di D'Annunzio); ma bisogna considerare che
ha perduto anche quei caratteri «umanistici» che pure resistevano
sotto il ciarpame dannunziano e che erano poi viatico ai migliori che
se ne svincolavano. La scomparsa degli eruditi locali, che non
raramente arrivavano a dignità di storici, io ritengo significhi
perdita per la cultura nazionale. Un giovane si sentirebbe sminuito,
oggi, a dedicarsi a un’onesta ricerca sulla storia del paese
natale: vuol «meditare» sulla storia, occuparsi delle teorie
storiche di Toynbee e di Ortega. Il che è propriamente provinciale.
Ma ciò non accade
soltanto nella provincia geografica.
Una volta —
rispondendo all’inchiesta promossa da Il Paradosso sulla
«generazione degli anni perduti» — ti dichiarasti «profondamente
siciliano», profondamente radicato cioè nella provincia. In che
senso tale tua condizione si riflette e determina le tue scelte
letterarie (di tema, di linguaggio, ecc.)? Hai mai provato ad
emigrare e, in caso affermativo, quale impressione ne hai ricevuto?
La mia scelta a vivere in
provincia realizza in effetti quel proverbio che dice «meglio soli
che male accompagnati». Poiché tutto il mondo è provincia,
preferisco vivere nella mia: ché almeno mi consente di star solo
invece che male accompagnato. E questa mia scelta si è confermata in
una breve esperienza di emigrazione: a Roma, come quasi tutti oggi; e
sono tornato senza alcun rimpianto; come ad una riguadagnata libertà,
anzi.
Questo per quanto
riguarda il mio rapporto con la società letteraria, culturale. C’è
poi, nel mio stare in provincia, una più profonda ragione. Noi
siciliani siamo condannati (la parola è di Gaetano Trombatore) a
scrivere della Sicilia (ma per la verità, dentro questa condanna, io
mi sento molto libero): e io ne ho avuto coscienza da sempre. Perché
dunque sradicarsene, col rischio di farne memoria e nostalgia, favola
e mito? Senza dire che, in senso più generale, è assolutamente
ragionevole che lo scrittore risieda nei luoghi umani che meglio
conosce, che dia testimonianza di una realtà di cui, per vincoli di
sentimento di linguaggio di consuetudini, non gli sfugge nessun
movimento nessuna piega nessuna sfumatura.
Come pensi si possa
reagire alle forze conservatrici il cui volto in provincia non muta?
Per chi, nell’organizzazione della cultura, si prepone obiettivi
nuovi e moderni, esistono energie sane da utilizzare e quali? Nei
nostri tempi che si fanno sempre più «stretti» esiste in provincia
un posto peculiare per l'intellettuale? Riesce cioè egli a svolgervi
una funzione che nelle metropoli e nelle sedi dell' «industria
culturale» è ormai quasi impossibile?
Ritengo che un processo
di decentrazione della cultura, cioè degli organismi di produzione
della cultura, sia l'unico rimedio. Ma ciò avverrà per un naturale
rovesciamento del processo di accentramento che per ora, purtroppo, è
in accelerazione.
In accelerazione
nonostante che cominci a rivelarsi, in un certo senso, anacronistico.
da “Giovane Critica”,
primavera 1964, in Dieci anni di milizia intellettuale tuttofare –
“Giovane critica” 31/32 –
1972, Sapere Edizioni
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