30.5.18

Sessantotto. La “scuola di Budapest” e l'utopia materializzata (Ágnes Heller)


Da un libro intervista ad Ágnes Heller, la celebre filosofa tedesca, curato da Laura Boella e Amedeo Vigorelli e uscito nel 1979 per Savelli riprendo, saltando le domande, un ampio stralcio del secondo capitolo intitolato Verso il '68. (S.L.L.)


Degli anni Sessanta in generale non parlerei in relazione all'Ungheria. Fino alla fine del 1964 siamo vissuti nel buio tunnel della disperazione. Vi furono qua e là accenni di risveglio: nel 1964 ebbe luogo una discussione sulla estraneazione, dove molti partecipanti parlarono della estraneazione in Ungheria. Detto per inciso: a causa di questa discussione fummo (mio marito Ferenc Fehér e io) interrogati dalla polizia segreta, naturalmente «del tutto indipendentemente» da essa, poiché «da noi le discussioni sono libere occasioni scientifiche», bensì a causa di un’agitazione ostile allo Stato «avvenuta altrove». L’atmosfera cominciò a migliorare nel 1965: in quell’anno ebbe inizio la preparazione della riforma economica, che fu introdotta ufficialmente nel gennaio 1968. Tuttavia per noi il periodo di riforma si concluse nell’agosto dello stesso anno.
Ho detto «noi», e vorrei precisarlo meglio. All’inizio degli anni Sessanta si era formato un circolo di amici che Lukàcs più tardi ha denominato «Scuola di Budapest». La nostra amicizia era di carattere personale e teoretico. Tutte le nostre idee venivano discusse in questo circolo di amici. Ci leggevamo reciprocamente i manoscritti e li criticavamo; in questa atmosfera era già realizzata la «comunicazione libera dal dominio». Nessun’idea era «proprietà privata», tutto era patrimonio comune. È impossibile dire da quale membro del gruppo derivasse una nuova problematica. La diversità dei caratteri — anche sotto il profilo teorico — si rivelò feconda: in questo modo si potevano infatti controbilanciare le reciproche debolezze. Se qui di seguito uso il plurale, penso alle aspirazioni e atteggiamenti comuni che caratterizzavano questa comunità liberamente scelta.
È difficile rispondere alla domanda se gli anni tra il 1965 e il 1968 abbiano prodotto oppure no un «approfondimento». Sotto un certo aspetto se ne può parlare, considerando cioè unicamente le posizioni filosofiche. Allora iniziammo l’elaborazione di una fi­losofia « positiva », fondandoci su una nuova ricezio­ne di Marx. Ci ricollegavamo così a un movimento mondiale: era l’epoca della rinascita del marxismo, in­teso come teoria pluralistica. Questo periodo tuttavia produsse anche nuove illusioni: partecipammo infatti attivamente — sia pur con atteggiamento critico — al movimento riformatore. Il nostro obiettivo era di tra­sformare la riforma economica in riforma sociale. Per sostenere alcune tendenze di questo movimento, e non ritirarci scetticamente nella sfera privata, era per noi indispensabile condividere anche la speranza che una trasformazione sociale mediante le riforme — con la partecipazione dell’intera popolazione — fosse possi­bile. L’insegnamento del 1956 era ormai svanito, la nuova situazione del mondo (la fine della guerra fred­da) veniva enormemente sopravvalutata.
Nel 1956 sapevo bene che nessun Paese dipenden­te dall’Unione Sovietica si sarebbe potuto riformare da solo, ma ora sembravo averlo dimenticato. L’inter­vento dell’armata sovietica in Cecoslovacchia pose ter­mine definitivamente a queste illusioni. Perciò a par­tire dalla metà degli anni Settanta, il nuovo liberali­smo ungherese non ci poteva più incantare: conosce­vamo i limiti del regime. Il « buon sovrano » può ar­rivare quasi fino al limite, ma non potrebbe superarlo nemmeno se lo volesse (e certo non lo vuole).
L’incontro con i filosofi iugoslavi della scuola esti­va di Korgula avvenne proprio in questo periodo di riforma. Per quanto mi riguarda, ho partecipato tre volte alle sessioni: nel 1965, nel 1967 e nel 1968.
Prima di parlare del significato storico della scuo­la estiva e della rivista «Praxis», vorrei dire qual­cosa di personale: sono stata sempre (e lo sono an­cora) profondamente influenzata dalla dignità umana, dal disinteresse, dalla sincerità e onestà dei miei com­pagni iugoslavi. Essi hanno subordinato tutti i loro fini e aspirazioni personali — spesso anche scientifiche — alla causa comune. La loro solidarietà (fatte rare eccezioni) si manteneva anche in presenza di un disaccordo teorico o pratico, e si rivolgeva verso tutti i marxisti di opposizione dell’intero mondo orientale. Non solo ci hanno «capiti», ma hanno anche condiviso le nostre pene, sono stati di esempio, non solo in quanto ideologi, ma soprattutto come uomini socialisti. E poiché il socialismo significa anche una nuova forma di vita, questa loro testimonianza umana era altrettanto importante di quella ideologica, se non persino di più.
Parlando del periodo di «rinascita del marxismo», dobbiamo ricordare la scuola estiva di Korgula e la rivista «Praxis», che di questa rinascita furono le istituzioni. Korcula e «Praxis» crearono infatti la base di opinione (Oeffentlichkeit) intorno a cui si svolgevano le discussioni, si incontravano e si confrontavano le diverse varietà del nuovo marxismo. In queste istituzioni il nuovo marxismo divenne internazionale. Ed esse furono le sole a svolgere questa funzione storica.
Le sessioni della scuola estiva erano caratterizzate da questa tendenza comune, sebbene fossero molto diverse. Il movimento giovanile radicale nel 1965 non le influenzava ancora: d’altra parte nemmeno esisteva. Nel 1968 — nei giorni precedenti l’intervento — proprio questa rivolta era però al centro delle discussioni. Se si confrontano i due interventi di Marcuse alla scuola estiva — la discussione con Serge Mallet del 1965 e il suo patetico discorso del 1968 — questa differenza balza subito all’occhio.
Korcula ci offrì la possibilità di incontrarci con numerose personalità rappresentative del vecchio e nuovo marxismo. Ovviamente non tutte mi erano simpatiche allo stesso modo. Ricordo soltanto i due che non potrò più incontrare e che mi hanno profondamente colpita per il loro carattere umano: Ernst Bloch e Lucien Goldmann. Li conoscevo già dai loro scritti, e in particolare avevo già conosciuto Bloch a Berlino. Il vecchio raccontava per lo più storielle. Da lui ho risentito quasi tutti gli aneddoti che avevo già ascoltato da Lukàcs. Tuttavia: duo si faciunt idem, non est idem. Fu una rivelazione per me il modo in cui Bloch univa nella sua natura il momento scherzoso e quello patetico. Dopo l’intervento, quando noi tutti eravamo disperati, lui solo conservò l’ottimismo. Quando io gli parlai delle mie speranze perdute, egli batté adirato sul tavolo: «Persino questo tavolo può diventare un coccodrillo! Dovete crederci, dovete credere a me, che sono vecchio!» Io non ci credetti, ma fui colpita.
L’incontro con Lucien Goldmann, questo epicureo intimamente lacerato, fu per me molto importante anche dal punto di vista teoretico. Ci incontrammo non solo a Korcula, ma anche alla conferenza di Royamont (gennaio 1968), dove conobbi Adorno. Con Lucien mi trovai impegnata in accese discussioni sulla estetica del giovane Lukàcs. Mi accadde lo stesso che nelle conversazioni con Kolakowski. Dopo aver difeso fino in fondo il mio punto di vista, una volta tornata a casa capii che le mie posizioni erano deboli e che Lucien aveva avuto ragione contro di me nei punti essenziali. Attraverso di lui, riscoprii L’anima e le forme e Teoria del romanzo.
Tornando al gruppo di «Praxis»: furono i primi (come avete ricordato) ad aver reintrodotto Storia e coscienza di classe nel marxismo vivente. Fu un grande merito teoretico. Ma, per quanto mi riguarda, devo ammettere che questa scoperta non ha influenzato profondamente il mio pensiero. Ovviamente per me (come credo per noi tutti) Storia e coscienza di classe rappresenta il grande capolavoro filosofico di Lukàcs, nonché una delle opere più importanti del XX secolo. Sono tuttavia arrivata tardi a questo libro: dopo il 1956. Prima, quando condividevo la parola d’ordine lukacsiana del «tornare a Lenin», l’opera mi avrebbe sicuramente molto influenzata. Mentre dopo il ’56 io avevo ormai chiuso i conti — sia pur gradualmente, ma sostanzialmente — con Lenin. Per quanto avessi imparato da questo libro, per quante idee ne avessi tratte, non potevo più accettarne la concezione di fondo: era troppo leninista per me. Sotto questo profilo le mie esperienze « Est-europee » avevano inciso troppo.
[...]
Pur non avendovi potuto assistere direttamente (conobbi tuttavia personalmente a Budapest Rudi Dutschke e altri membri dell’SDS in occasione della loro visita a Lukàcs) nel 1968 condivisi in pieno i movimenti studenteschi americano e francese, la rivolta giovanile e lo sciopero generale in Francia. Era proprio il movimento che aspettavo, per dirla in termini un po’ egocentrici: fu la conferma dei miei ideali e aspirazioni teoriche. Allora avevo terminato il libro sulla vita quotidiana, ed ero giunta alla conclusione che presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto essere la trasformazione delle ferme di vita, la creazione di nuove comunità. E proprio allora ci fu un movimento di estensione mondiale che incarnava le stesse aspirazioni. Quei giovani si accingevano a realizzare nuove forme di vita. Erano l’utopia «materializzata». Lo slogan della rivolta francese: «siamo realisti, tentiamo l’impossibile» mi commosse fino alle lacrime. Finalmente si trattava dell’espressione non più di una dialettica negativa, bensì positiva. I movimenti di rivolta non si limitarono ad articolare la negazione totale del mondo dell’oppressione, della gerarchia, dell’egoismo e dell’individualismo, bensì costituirono l’ideale del nuovo: un futuro degno dell’uomo. Non ero certo d’accordo con tutto ciò che avveniva in questo o in quel movimento giovanile (soprattutto sul movimento studentesco tedesco avevo serie riserve), ciò nonostante nell’insieme lo ritenevo un inconfutabile segno dell’emergere di un nuovo concetto e di una nuova prassi della rivoluzione, che non si doveva più identificare con l’accezione politico-giacobina nel senso stretto della parola, ma doveva intendersi piuttosto come rivoluzione della società civile, delle forme di vita. Ancora oggi sono di questo parere. Il riflusso di questi movimenti non ha mai significato per me la fine di queste aspirazioni, dal momento che non ho mai creduto che il mondo si possa trasformare da un momento all’altro. È possibile introdurre da un giorno all’altro delle riforme, anche le rivoluzioni politiche esplodono spesso improvvisamente, ma la totale trasformazione rivoluzionaria delle forme di vita può essere immaginata solo come un processo di lunga durata, al quale ineriscono ovviamente momenti di riflusso.
Quando prima dicevo che questo movimento mi sembrava la conferma delle mie aspirazioni, non volevo negare il profondo influsso che esso a sua volta avrebbe esercitato sul mio successivo sviluppo teorico.
Compresi infatti che i conflitti che qui si rappresentavano ed esprimevano non si potevano definire «puri» conflitti di interesse. Questi movimenti mi mostrarono la necessità di differenziare interessi e bisogni; aveva così inizio l’intera teoria dei bisogni, grazie ai movimenti del 1968.
Il 1968 (fino all’agosto) fu veramente l’anno dell’ottimismo. Tutto era in movimento, all’Est come all’Ovest. Mi appariva una possibilità reale la prospettiva di un’Europa unitaria, la diffusione di un socialismo democratico. Come ho già detto, quest’ottimismo si fondava ancora una volta su illusioni: per me era quasi inconcepibile l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Davo per scontato che in tali circostanze internazionali la riforma economica appena lanciata in Ungheria fosse solo un inizio, che avrebbe portato a una trasformazione sociale del sistema.
L’agosto 1968 segnò la fine delle nostre illusioni e aspirazioni riformistiche, benché in Ungheria non si notassero reazioni violente all’avvenimento. Neppure la stampa subì immediatamente delle censure. I giovani di oggi si stupiscono leggendo le riviste di allora: era ancora permesso tutto ciò che in seguito non lo sarebbe mai più stato, neppure dopo il 1975. Anche la repressione contro di noi fu relativamente mite. A causa della protesta contro l’intervento i nostri passaporti furono confiscati per un anno (nel mio caso per due). Hegedűs fu licenziato dal posto di direttore dell’Istituto di sociologia. Contemporaneamente fu licenziato dal posto di direttore dell’Istituto di filosofia anche Jozsef Szigéti, agente diretto dell’Unione Sovietica, la cui posizione e attività «filosofica» da anni consisteva nella delazione. In Ungheria si ritornò alla mano forte soltanto nel 1972.

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