Alessandro Leogrande |
Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore impegnato sui temi dell'attualità più scottante, dal lavoro nero alle immigrazioni, alle nuove mafie, è
stato uno dei più attivi nell'esperienza di “Pagina
99”.
È morto il 26 novembre del 2017 a 40 anni.
Il settimanale ha
nell'occasione nuovamente diffuso attraverso il suo sito l'ampio
servizio dedicato da Leogrande alla propria città di origine,
Taranto, pubblicato all'inizio dell'anno precedente. È quello –
assai ben costruito e ben scritto - che qui riprendo non soltanto in
omaggio al giornalista scomparso, ma perché utile a chiunque voglia
studiare le forzate deindustralizzazioni dell'ultimo trentennio.
Quella di Terni per esempio. (S.L.L.)
«Taranto è una città
perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di
un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto
vecchia, intorno i due mari, e i lungomari». Così, nel luglio del
1959, la descrive Pier Paolo Pasolini. È in viaggio da settimane a
bordo di una Fiat Millecento per ultimare uno dei long form più
geniali che siano mai stati concepiti sulla stampa nostrana:
raccontare l’estate degli italiani percorrendo l’intera litoranea
da Ventimiglia a Trieste, senza mai tagliare verso l’entroterra.
Tutto il Tirreno verso sud, e tutto l’Adriatico verso Nord: in
mezzo lo Jonio, per Pasolini un mare «non nostro», spaventoso.
Al centro di quella
«lunga striscia di sabbia» sorgeva Taranto, l’indecifrabile
Taranto, che vista in un pomeriggio di luglio poteva benissimo
apparire come «un gigantesco diamante in frantumi». In quella città
brulicante di vita, voci, corpi, i bagni e le cabine nascevano
direttamente sul lungomare, alle spalle del Borgo umbertino costruito
a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nelle pagine di Pasolini, la
simbiosi tra mare e città, tra il mare e i suoi abitanti,
nell’alternarsi dell’eterno gioco dei sessi tra le onde e gli
scogli, appare perfetta.
Esattamente un anno dopo,
il 9 luglio 1960, viene posata la prima pietra dell’Italsider, il
più grande stabilimento siderurgico italiano. Per la sua costruzione
vengono estirpate decine di migliaia di alberi d’ulivo; un popolo
di formiche viene impiegato nell’edificare una cattedrale
industriale a pochi passi dalle estreme propaggini della città. Il
primo altoforno entra in funzione il 21 ottobre 1964, il secondo il
29 gennaio 1965. Dopo una fase di rodaggio, il 10 aprile 1965 il
Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugura ufficialmente
il quarto centro siderurgico del Paese (quarto in ordine di tempo,
dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di
tutti.
Quando, l’anno scorso,
ho condotto su Radiotre una trasmissione sulla costruzione del
siderurgico, mi è capitato di recuperare, tra i vari materiali,
anche le parole pronunciate da Saragat quella mattina. «Io sono
qui», disse il Presidente della Repubblica, «per solennizzare
l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale. E
anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno
l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente
coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla».
Mutare la realtà
meridionale, piegare il legno storto fino a tenderlo, in senso
contrario, come un arco… Installare l’industria pesante laddove
(non solo a Taranto, ovviamente, ma in un’area molto più ampia) la
riforma agraria non aveva dato i suoi frutti, non potendo assicurare
un lavoro a tutti, né tanto meno arrestare l’emigrazione verso il
Nord… Ecco cosa si poteva leggere chiaramente, dietro le parole del
primo presidente socialista democratico.
***
Quando si decise di
costruire un altro stabilimento siderurgico nel Sud, dopo quello di
Bagnoli, la scelta ricadde su Taranto in modo quasi naturale. C’era
il porto, ovviamente. Ma soprattutto c’era già una città
militar-industriale di 170 mila abitanti sorta intorno alla base
della Marina e all’Arsenale, e attraversata da una violenta crisi
occupazionale.
Il disfacimento della
produzione bellica e il ridimensionamento dei cantieri navali avevano
già segnato la città moderna sorta pochi decenni prima accanto alla
città vecchia in cui per secoli la vita era stata racchiusa, proprio
come in un’ostrica, in un dedalo di vicoli e in un gomitolo di case
accatastate le une sulle altre. Lo slogan «Taranto non vuole
morire», che ciclicamente rispunta come un mantra a segnare la
politica e le mobilitazioni cittadine, fu coniato proprio allora,
come scriverà Tommaso Fiore in quel grande affresco del Sud della
metà degli anni cinquanta che è Il cafone all’inferno.
Per non morire, allora
Taranto chiese in massa il Quarto centro siderurgico. Chiesero in
massa la sua edificazione la città vecchia e quella nuova, gli
operai e i pescatori, i proprietari dei terreni e i mediatori
politici, una borghesia da sempre apatica e un Curia da sempre
supplente di altri poteri. Chiesero tutti la manna dal cielo di
decine di migliaia di «posti fissi» sotto le ciminiere. L’allora
sindaco democristiano Angelo Monfredi l’ha spiegato in seguito
meglio tutti, con il candore repentino che solo i politici Dc di
lungo corso sanno avere: «Lo avremmo costruito anche al centro della
città».
Il centro siderurgico
costò quasi quattrocento miliardi di lire. Finì con l’occupare
prima 600 e poi 1.500 ettari di superficie, per un’estensione pari
al doppio dell’intera città. Da quel momento in poi fu la città a
crescere e modellarsi intorno alla fabbrica. Furono i tempi e i ritmi
della fabbrica a scandire i tempi e i ritmi del tessuto urbano. Il
mito dell’industria – mentre il capoluogo mutava – si radicò e
rafforzò ulteriormente. È stato così fino alla fine degli anni
Ottanta, quando il sistema delle Partecipazioni statali, che reggeva
l’industrializzazione di Stato, ha iniziato a mostrare le sue
crepe. La percezione del disastro ambientale, invece, è divenuta
cosa comune solo in seguito.
***
Benché viva lontano da
Taranto ormai da vent’anni, torno spesso in città. Ci torno per
lavoro, ci torno per trovare i miei genitori che vivono ancora qui. A
Taranto ho dedicato due libri e una infinità di articoli, specie
dopo l’esplosione del bubbone Ilva nell’estate del 2012. A
Taranto (cosa che tutti i miei amici considerano assurda, e quelli
più stretti l’indizio di qualche profondo trauma psicologico) ho
ancora la residenza. Negli ultimi tempi, ogni volta che sono tornato
in città, mi è capitato di pensare a quelle poche pagine di
Pasolini poi raccolte, insieme al resto del reportage, nel volume La
lunga striscia di sabbia (ora ripubblicato da Contrasto). Come
se, su quella città remota che non ha lasciato dietro di sé il
minimo reperto archeologico, al di là delle poche righe scritte da
un poeta che l’ha attraversata a bordo di una Millecento, ne sia
stata innestata un’altra, profondamente diversa, separata dal mare
che la bagna, all’interno del quale, da allora, non è stato più
possibile immergersi. Qualcosa di simile (un’intera città che ne
soppianta un’altra, senza che i suoi abitanti se ne accorgano)
l’avevo letta in un romanzo fantascientifico di Philip Dick, La
città sostituita.
Mi è capitato di
pensarci, ultimamente, ogni volta che dal terrazzo di casa dei miei,
dal terrazzo della casa in cui sono cresciuto e da cui è possibile
scorgere l’intero arco del golfo, ho potuto percepire tutta la
maestosa invadenza del Moloch d’acciaio. Oggi Taranto mi appare una
città molto fragile, incapace di gestire l’industrializzazione
caotica che l’ha permeata. Ma perché – mi chiedo – solo col
tempo ho visto tutto ciò con maggiore chiarezza? Perché solo col
passare degli anni mi sono accorto di cosa effettivamente comportasse
il fatto che l’enorme area industriale sia stata costruita in una
posizione realmente attaccata alla città, senza soluzione di
continuità, senza una zona cuscinetto ad arginarne l’impatto?
Perché la percezione della insostenibilità di tutto ciò, anche per
i suoi abitanti, si è fatta strada solo in seguito – con il
dilagare, in particolare, di malattie che paiono legate al ciclo
della produzione? Eppure ci sono state nel corso del tempo delle
letture diverse di quanto stava accadendo. Ecco almeno tre esempi, ma
potrei citarne tanti altri.
Nel giugno del 1965
Alessandro Leccese, ufficiale sanitario negli anni in cui l’Italsider
venne costruito, scrisse nel suo diario privato: «Quando, per
l’aggravarsi della situazione, sono intervenuto, in qualità di
Ufficiale Sanitario, con un’ordinanza indirizzata al Direttore del
Centro Siderurgico e al Presidente dell’area di Sviluppo
Industriale, è successo il finimondo, perché quest’ultimo, che,
tra l’altro, è segretario provinciale della Dc, si è sentito leso
nella sua insindacabile sovranità. Si ritiene tanto potente da poter
condizionare anche le decisioni del Prefetto, come accadeva all’epoca
del “famigerato regime”, tra il Federale e il Prefetto. Per lui
non conta la tutela della città da un grave danno ecologico, contano
la difesa del prestigio personale e gli interessi di alcuni esponenti
politici, che ritengono di poter disporre a loro piacimento delle
sorti del nostro territorio, come si trattasse di una colonia
africana da sfruttare». È stato Mimmo Nume, presidente dell’Ordine
dei medici di Taranto, a farmi leggere le pagine del diario di
Leccese, rimaste in un cassetto del suo studio, per anni, dopo la
morte. Con tutta evidenza, le basi del disastro ambientale, e della
concomitante devastazione politica cittadina, sono state gettate
allora.
Nel 1971 Antonio Cederna
scriveva sul “Corriere della Sera” che quello tarantino gli
appariva a tutti gli effetti «un processo barbarico
d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione
statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora
pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non
ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei
quartieri popolari sotto vento». Ciononostante, alla metà degli
anni settanta, si procedette al raddoppio del centro siderurgico che
portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila
dipendenti, e quelli dell’indotto a oltre quindicimila. Il
raddoppio estese ulteriormente la superficie della fabbrica. Le basi
del vero gigantismo industriale, che oggi rendono di fatto
complicatissima qualsiasi via d’uscita del caso-Taranto, sono state
gettate allora.
Il primo a rendersene
conto, mentre tutto ciò si andava inverando, fu Walter Tobagi. In un
altro articolo uscito sul “Corriere” il 15 ottobre del 1979
scrisse che il vero protagonista della storia
dell’industrializzazione in riva allo Jonio è il «metalmezzadro»:
«È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due
volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il
tempo per coltivare il pezzo di terra. Su trentamila stipendiati
della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla
categoria dei metalmezzadri». Quella classe operaia, che aveva
comunque raggiunto all’interno della fabbrica di Stato un alto
tasso di sindacalizzazione (oltre il 90%), era in realtà molto
dissimile dalla classe operaia che nelle fabbriche del Nord aveva
attraversato gli anni successivi all’autunno caldo. Tobagi coglieva
qualcosa di vero, ma col tempo ho finito per pensare che avesse
ragione solo in parte.
Quella di Taranto è
stata in realtà una classe operaia a metà. Meno politicizzata, e
integrata, di quella della Fiat, per intenderci. Ma, in fondo, per
quelle decine di migliaia di ex braccianti o piccoli contadini
strappati ai campi e gettati nelle periferie della città che si
ingrandiva (così come per coloro i quali sono rimasti a vivere nei
paesi di provincia e hanno passato una vita a bordo delle corriere
che li congiungono allo stabilimento) la fabbrica non è stata solo
un mito. È stata anche un luogo all’interno della quale, nei
momenti migliori, hanno preso consapevolezza dei propri diritti,
tenendosi alla larga dai gorghi del non-lavoro.
Ciò su cui Tobagi,
invece, aveva pienamente ragione è il carattere di «cattedrale nel
deserto» dello stabilimento tarantino. L’indotto che si è creato
intorno, e che sarebbe dovuto essere il volano dello sviluppo locale,
ha assunto le sembianze di una metastasi parassitaria sempre più
ramificata. L’azienda-tipo ai piedi dell’Ilva non ha mai pensato
alla trasformazione dell’acciaio, piuttosto si è limitata a
fornire manutenzione, pulizie, servizi secondari alla grande madre, e
questo fotografa impietosamente il grado di passività
dell’imprenditoria locale.
Quando alla metà degli
anni Novanta il sistema implose, l’unica soluzione fu quella di
consegnare lo stabilimento al gruppo Riva, che impose da subito un
nuovo modo di governare il colosso industriale, tra il ricorso
sistematico alle nuove assunzioni (previa assicurazione che i nuovi
assunti non si iscrivessero ai sindacati), l’incentivo degli
straordinari, e la clamorosa istituzione di un reparto-confino per i
dipendenti recalcitranti all’interno della Palazzina Laf.
Chi come me ha iniziato a
scrivere o a fare radio in quegli anni si è trovato a narrare questa
mutazione in atto. Lo abbiamo fatto con articoli, trasmissioni,
corrispondenze… Ciò che più ci sorprendeva e indignava, in questa
bolla di anomia industriale che si andava rapidamente edificando, non
era tanto il disastro ambientale (che è divenuto pienamente
inaccettabile solo in seguito), ma l’alto numero di incidenti –
spesso mortali, spesso incredibili nelle loro dinamiche – al suo
interno. Ciò che più ci stupiva era il silenzio dei nuovi operai, i
figli e nipoti dei «metalmezzadri» di Tobagi. Una volta, davanti ai
cancelli della portineria D, prima dell’ingresso del turno delle 6
del mattino, mi sono sentito dire da un nuovo assunto in cokeria che
preferiva un posto di lavoro al tumore («tanto il tumore, se ti
viene, ti viene dopo; e comunque, se vivi qui, te lo prendi anche se
non lavori»). La nuova Ilva si è subito creata come una fabbrica
silente intorno al nuovo modo di produzione. E tale è rimasta fino a
quando non è esplosa la protesta ai margini della fabbrica contro
l’inquinamento.
***
Non c’erano
alternative, né pubbliche né private, alla svendita al gruppo Riva
alla metà degli anni Novanta, a meno che non si volesse procedere da
subito alla dismissione come a Bagnoli. Così, almeno, allora si
disse. Oggi, dopo diciassette anni di sistema-Riva e tre di
commissariamento dell’azienda, il nodo scorsoio della storia sembra
ristringersi esattamente nello stesso punto. Il grande stabilimento
siderurgico è più una patata bollente di cui liberarsi, che non il
possibile fulcro di una progettazione più ampia.
Per chi pensa che la
fabbrica possa essere ancora trasformata (e che da tale
trasformazione possa discendere il raggiungimento di un punto di
equilibrio tra difesa dell’occupazione e tutela della salute), un
percorso di bonifiche e interventi è stato tracciato, ed è stata
paventata anche la creazione di un sistema «ibrido» che affianchi
all’attuale ciclo integrale cokeria-agglomerato-altoforno, uno
nuovo che prevede l’utilizzo del pre-ridotto e dei forni elettrici.
Negli ultimi decreti Ilva sono stati stanziati 800 milioni di euro:
un investimento comunque massiccio, se si pensa che il premier aveva
ritenuto possibile recuperare 1.200 milioni di euro sequestrati ai
Riva in Svizzera in un processo per frode fiscale, prima che il
Tribunale di Bellinzona si opponesse al trasferimento.
Il vuoto imprenditoriale
che Taranto vive oggi, esattamente come vent’anni fa, è semmai un
altro. Da una parte, il governo ha annunciato la vendita dello
stabilimento entro giugno prossimo, e per agevolare la cosa (oltre a
un prestito ponte per i futuri acquirenti) ha stabilito il rinvio
dell’applicazione del piano ambientale. Dall’altra però non ci
sono – almeno al momento – grossi gruppi italiani o stranieri
disposti a rilevare l’Ilva così com’è per realizzare tutte le
trasformazioni auspicate e rimetterla sul mercato. Nessun
imprenditore dalle spalle tanto larghe si è finora fatto seriamente
avanti. Così, alle spalle di questo vuoto istituzionale e
imprenditoriale, la città sembra pervasa da una strana calma.
Apparentemente apatica, Taranto è una città che sa accendersi per
poco. Basta cogliere i segni. E ricordare i modi in cui lo
spaesamento collettivo può sempre trasformarsi in protesta
improvvisa.
***
«C’è preoccupazione
in fabbrica», mi dice Francesco Brigati, Rsu Fiom dello
stabilimento. «La sensazione è che, qualsiasi cosa accada, non si
riusciranno a mantenere gli stessi livelli occupazionali. Ci saranno
degli esuberi». Al momento in Ilva lavorano 11.200 dipendenti, a cui
vanno aggiunti i tremila dell’indotto. Poiché, in seguito alla
fermata di alcune aree della fabbrica, si producono 17 mila
tonnellate al giorno (anziché 30 mila), il contratto di solidarietà
ha riguardato negli ultimi anni oltre quattromila dipendenti.
Nonostante il ridimensionamento rispetto alla fabbrica di Stato,
l’Ilva continua a essere il primo insediamento industriale del
Paese, e poiché intorno c’è una provincia, in cui la somma di
disoccupati e inoccupati supera stabilmente la soglia del 50%
dell’intera forza-lavoro, quello che un po’ eufemisticamente si
continua a chiamare «ricatto occupazionale» assume da queste parti
tinte fosche. Anche per questo, per l’assenza di alternative
concrete, è molto difficile da progettare un futuro che vada al di
là della «monocultura siderurgica».
Brigati mi ripete che il
sindacato deve avere «il coraggio di confrontarsi con la
trasformazione della fabbrica». Ma poi mi dice subito quanto sia
maledettamente difficile mettere oggi in piedi una assemblea
sindacale all’interno dello stabilimento. «L’incertezza produce
indifferenza, passività, più che rabbia». In questi ultimi anni,
poi, quelli del commissariamento, all’incertezza sul futuro si è
aggiunta quella percepita dagli operai nella gestione quotidiana
della fabbrica. Con il cambiare dei commissari, sono stati
costantemente rinnovati anche gli alti vertici della fabbrica. «Un
management a lungo rimasto stabile di colpo non lo è stato più, e
questo vuoto gli operai lo percepiscono. Aggiungi, poi, che l’azienda
ha deciso di mettere in solidarietà, per fare cassa, anche gli
addetti alla sicurezza. Non è un caso che gli incidenti siano
ripresi con una certa frequenza».
Ha passato da un po’ i
trent’anni, Francesco. La sua intera vita lavorativa si è svolta
dopo la privatizzazione della fabbrica, eppure ogni volta che lo
sento parlare penso che Taranto è uno di quei posti in cui alcuni
punti fermi novecenteschi (e tutto un modo di parlare intorno al
lavoro di fabbrica) sono più duri ad evaporare che altrove. E, che
nella grande trasformazione in atto, finiscono per essere anche dei
punti fermi a cui molti si aggrappano.
Poi Francesco mi dà
l’elenco degli incidenti mortali in Ilva dal 1995 a oggi.
Sfogliando i fogli bianchi, mi accordo che sono morti 22 operai tra i
dipendenti diretti dell’acciaieria e 12 tra quelli dell’indotto.
Dal 2012, da quando sono iniziati i vari commissariamenti, i morti
sono stati rispettivamente 4 nello stabilimento e 2 nell’indotto.
Leggo le scarne descrizioni degli ultimi due in ordine di tempo. «8
giugno 2015. Durante il colaggio ghisa su AFO/2 in regolare marcia,
si verificava una improvvisa ed inattesa reazione dal foro B con
conseguente fuoriuscita di ghisa. L’addetto al prelievo della
temperatura, Morricella Alessandro, il quale operava sul campo di
colata, venendo investito dai fusi provocati dalla reazione predetta,
riportava ustioni di 3° grado sul 90% del corpo. È deceduto il 12
giugno 2015». E poi: «17 novembre 2015. Durante la fase di
rimozione delle brache tessili uno dei tratti di condotta si
sbilanciava e nel cadere dal pianale stesso colpiva il dipendente
Martucci causandone il decesso».
Ripenso a una delle mie
corrispondenze dai cancelli dell’Ilva dopo la morte di due ragazzi,
caduti da una gru nell’area dei parchi minerari. Mi accorgo che
sono passati più di dieci anni, non molto è cambiato.
***
Poi c’è la questione
sanitaria, che in tutti questi mesi sembra essere rimasta in un
angolo, per quanto sia stata impietosamente fotografata
dall’inchiesta Sentieri. I dati relativi al periodo 2003-2009 sono
impressionanti: +14% di mortalità per gli uomini, e +8% per le
donne, per tutte le cause di malattia rispetto alla media in Puglia.
Per gli uomini, in particolare: più +14% per tutti i tumori, più
+14% per le malattie circolatorie, +17% per quelle respiratorie, +33%
per i tumori polmonari, +419% per i mesoteliomi pleurici. Per le
donne: +13% per tutti i tumori, +4% per le malattie circolatorie,
+30% per i tumori polmonari, +211% per il mesotelioma pleurico. Per i
bambini si registra un incremento del 20% della mortalità nel primo
anno di vita rispetto alla media pugliese, che diventa 30-50% per la
contrazione di malattie di origine perinatale che si manifestano
oltre il primo anno di vita.
Ne parlo ancora una volta
con Mimmo Nume, come periodicamente mi capita di fare da qualche anno
a questa parte. Questa volta Mimmo è più duro del solito. «Credo
che ormai il luogo comune del “coniugare salute e lavoro” si sia
ampiamente dimostrato un approccio inefficace quanto dannoso», mi
dice subito. «In realtà, se ci pensi, si continuano a misurare due
valori tra loro incompatibili con un unico metro, mentre invece
ciascuno di essi esprime grandezze differenti». Lo stato delle cose,
comunque lo si voglia guardare, rimane grave. «C’è un oggettivo
incremento di patologie legate all’inquinamento ambientale,
soprattutto in età pediatrica; e purtroppo l’approccio epigenetico
fa presagire un lento e progressivo incremento». Se ne ammaleranno
sempre di più, in buona sostanza, ma a dispetto di tutto ciò
l’offerta di salute sul territorio è ancora strutturalmente
inadeguata. «Per questo ti dico: le coniugazioni spettano ad altri,
ammesso che siano capaci di declinarle. Noi medici possiamo
auspicarle, certo, a patto però che non siano mai espresse in
termini di “rischio accettabile”».
***
Una cosa pare comunque
chiara a molti, almeno da un paio danni a questa parte. Che la
fabbrica resti al suo posto o venga chiusa, che venga svenduta a una
cordata italiana o a qualche multinazionale asiatica in ascesa,
Taranto deve comunque uscire dalla «monocultura siderurgica» che
nell’ultimo mezzo secolo non ha fatto altro che alimentarsi dalle
sue stesse viscere. Ma come se ne esce davvero, al di là dei facili
slogan?
Quando incontro il
presidente dell’Autorità portuale Sergio Prete, e lo sento
snocciolare dati e progetti, penso che la città è davvero in mezzo
al guado di un fiume. Il porto è in crisi, dal momento che il 75%
della sua movimentazione era generato proprio dall’Ilva. Con il
netto calo della produzione, le ripercussioni sono state inevitabili.
A ciò va aggiunto che i cinesi della Tct, gestori del terminal,
hanno preferito sbaraccare e andarsene al Pireo. Così negli ultimi
anni il volume dei movimenti si è praticamente dimezzato.
Ciononostante, tra gli investimenti su Taranto varati ultimamente,
vanno annoverati anche i 420 milioni per gli interventi nell’area
portuale: la nuova piattaforma logistica è già stata inaugurata in
dicembre.
Prete ha le idee chiare:
«Bisogna intensificare le operazioni di import-export e le attività
logistiche nell’area retroportuale. Occorre attrarre nuove imprese
che decidano di lavorare nell’area, e non puntare solo
sull’imprenditoria locale».
L’altro tassello su cui
puntare è la riutilizzazione delle vaste aree della Marina militare
ormai cadute in disuso. Ciò che spesso si dimentica è che la
Taranto moderna è stata pensata dalla Marina nel primo Novecento,
molto più che dall’Italsider nel secondo. Prova ne è che per
buona parte della città l’accesso al Mar piccolo, il mare interno,
è da sempre vietato da un Muraglione alto diversi metri che separa
l’Arsenale e la base dal resto dell’abitato. Oggi che la Marina
sta progressivamente dismettendo la propria presenza lungo il Mar
piccolo, concentrandosi invece in una zona del Mar grande, una vasta
area finora rimasta bloccata (e allo stesso tempo esente dalla
speculazione edilizia) verrà liberata. La stessa Autorità portuale
sta lavorando a un progetto che riguarda la vecchia Stazione
torpediniere. L’obiettivo è quello di farne una nuova stazione
dove far attraccare barche private e yacht. Non solo: allo stesso
tempo è possibile utilizzare l’area alle spalle delle banchine per
un Museo del mare e l’organizzazione di mostre.
***
«Taranto ha smarrito i
suoi legami identitari. Ma soprattutto ha perso ciò che la legava al
mare». Di questa enorme lotta contro l’oblio del proprio passato,
come se sia impossibile riafferrare la città sostituita dal
sistema-Ilva, parlo con Eva Degl’Innocenti, da dicembre nuovo
direttore del Museo Archeologico, il Marta.
Il passato della «città
sostituita» è lunghissimo. Non coincide solo con la fondazione
spartana della città e con gli ori e gli arredi funerari dell’età
classica o ellenistica, ma si dipana nei secoli successivi,
perennemente in equilibrio tra oriente e occidente. Degl’Innocenti
mi parla di come rendere il Museo un luogo vivo, della caffetteria
che vorrebbe costruire nell’antico chiostro, dei laboratori con i
bambini sui giochi dell’antichità, su come abbattere (in
innumerevoli modi) quella sorta di «quarta parete» che si è andata
creando tra reperti fuori da tempo e il presente della città, delle
app da fare per il museo digitale, di microcredito sul modello di
Lula per risistemare con iniziative dal basso gli enormi spazi vuoti
e pericolanti della città vecchia… Mi parla anche di un progetto
di street art sui miti greci da realizzare proprio sulle grige
e smorte pareti del Muraglione. «Dal momento che per ora rimarrà
lì, tanto vale renderlo un posto più vivo, proprio come fu fatto
con il Muro di Berlino».
***
Dopo aver visitato il
primo piano del Museo, sono uscito nel gelo della prima vera domenica
d’inverno. Nei paesi limitrofi, in Valle d’Itria, è già scesa
la neve. Gironzolo un po’ per via Pitagora e per le vie del Borgo
umbertino spazzata dal vento, quelle stesse strade che si stringono
intorno al mio vecchio liceo, l’Archita, un palazzone rosso e
tribunalesco al centro della città, oggi privo di vita perché
trasformato in un cantiere sempiterno. Dopo aver scoperchiato il
tetto dell’immobile ottocentesco in cui studiò anche Aldo Moro, lo
hanno lasciato in balia delle intemperie.
Taranto è una città
sventrata, porosa, corrosa dai vuoti urbani. Ci sono le scuole in
disuso e le aree dismesse della Marina, i vicoli della città vecchia
in preda al degrado, intere file di palazzi sfitti nel Borgo, e poi
cantieri bloccati nel tempo, vecchi hotel abbandonati e non più
protetti dalle lamiere di cinta… Lo spopolamento sta afferrando
anche il cuore nevralgico della città.
Approfittando
dell’assenza del traffico, prendo la macchina e faccio un lungo
giro per le periferie, dai Tamburi fino a Paolo VI, l’estrema
banlieue della città. Al volante, mi ricordo all’improvviso, di
quando una volta un vecchio politico cittadino mi spiazzò
confidandomi che Taranto, in realtà, è solo un’enorme periferia
anonima e sgraziata: «Chiunque voglia governarla deve averlo bene in
testa».
A Paolo VI, dopo aver
costeggiato le case del Cep, un tempo attraversate da una barbara
guerra di mafia, mi fermo davanti a ciò che resta della scuola media
Ungaretti. Qui mio padre ha insegnato per trent’anni, nella
periferia della periferia, a due passi dalle ciminiere dell’Ilva.
Ci stava da mattina a sera, la scuola è sempre stata per lui un
luogo aperto a tutti, non solo ai ragazzi, ma anche ai genitori dei
ragazzi e all’intero quartiere, ben al di là delle ore di lezione.
Aveva fatto anche un orto, e un laboratorio di scienza. Ora
l’Ungaretti non c’è più. Dopo che mio padre è andato in
pensione, la dirigenza scolastica ha deciso di accorpare le ultime
classi rimaste in un altro plesso, privando così le «case bianche»
del loro unico istituto scolastico. In poche settimane, il lavoro di
trent’anni è stato saccheggiato e vandalizzato. Sono rimasto a
lungo a osservare lo scheletro vuoto della scuola. Non è rimasta una
sola porta, un solo vetro alle finestre, una sola tazza del cesso,
una sola sedia, una sola lavagna, un solo infisso. Perfino i mattoni
e il ferro sono stati famelicamente strappati.
A poche centinaia di
metri da qui sorge l’Ospedale Nord, da cui si abbraccia in un unico
sguardo tutta città, i due mari, il porto, le ciminiere del
siderurgico. A settembre vi ho accompagnato mio padre per il primo
giorno di chemio.
Pagina99, 23 gennaio 2016
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