Nel giugno del 1982, alla
vigilia del Mundial di Spagna, Vittorio Sermonti era provvisoriamente
giornalista: era stato consulente CEE, insegnante, viveur, sarebbe
poi diventato un rinomato dantista, un apprezzato traduttore di
Ovidio ed altri classici, uno scrittore in proprio, un performer
eccetera eccetera. Per “l'Unità” raccolse alcune interviste a
personalità di vari campi. Questa, a Carmelo Bene, più che
un'intervista è un monologo, condotto con il linguaggio immaginifico
e provocatorio del celebre attore. Le valutazioni di Bene si
rivelarono del tutto sbagliate. La squadra italiana giocò qualche
partita davvero bella e alla presenza di Pertini, si laureò Campione
del Mondo, lasciando il ruolo di “vicecampione”, secondo Carmelo
Bene un po' servile, alla Germania e ai suoi panzer. (S.L.L.)
Italia 1982, La formazione tipo |
Così ringhia soavemente
Carmelo Bene, accappatoio arancio contro il nero galattico dello
studiolo che insigni rilegature d’opera omnia tracciano di
fiochi barbagli. L’interrogatorio è subissato da un monologo
irrefrenabile. Registro e asciugo.
“Però, si consola
quello, al Messico siamo arrivati in finale. Primo: c'erano in
squadra due grandi come Riva e Rivera (e di Rivera, ricordati che non
ne nasce uno al giorno: ne nasce uno al secolo); secondo: avemmo una
fortuna sfacciata; terzo: quando in finale rimedi quella figura,
meglio avresti fatto a fare le valigie il giorno prima adducendo
motivi di famiglia. 'Vicecampioni' E chi sarebbe, un vicecampione?
Colui che, quando il campione va alla toilette, fa gli onori di casa?
E quello, dai a consolarsi: 'non si può vincer sempre. Si gioca per
giocare...'. Scemenza: ma allora, almeno, gioca! Niente: inseguono la
palla, faticano, si sacrificano, è grande il sacrificio, scalciano,
falli, gente ingessata, poi si fa la spedizione punitiva e — bontà
di Dio o insofferenza, piuttosto, di Dio — scappa il gol. Quando
scappa. Va bene: ma aspettando questo gol, bisogna che qualcosa
accada, non può non accadere niente, solo affanno, d'affanno morirò
— morirò di noia.
“Per come si sono
ridotti questi italiani, oggi non giocano più, fanno solo sport:
sportaccio: apologia di reato... L'anima l'anima l’anima (senti i
telecronisti delle private) 'ci hanno messo l’anima!'. Il
sentimento e la buona volontà dovrebbero essere banditi dai campi di
gioco. Niente. Non m’interessa vederli scendere in campo, non
m’interessa vederli giocare, non hanno nemmeno un minimo di Grazia
sufficiente, perché alla Grazia non danno accesso né dottrina né
astuzia né, tanto meno, i buoni sentimenti.
“Mai un’azione di
prima come la intendo io, sempre a stoppare, a litigare con la palla,
la zona è finta, tutto si risolve nel corpo a corpo. Li hai mai
visti 'lasciarsi giocare', 'farsi giocare dal pallone', essere il
pallone che li gioca? Niente. Un altro mondo. Sono ragionieri,
piccoli esperti, ognuno abbarbicato alle competenze del suo ruoletto:
mediano di spinta semifluidificante monopiede... Il giocatore è
grande, come l'attore, se giocando fa altro da quello che fa.
Altrimenti, sono affari suoi.
“Guarda il gioco fatale
del Brasile. Ze Sergio. Paulo Isidoro. Calcio di solisti? Attenzione:
solisti che sanno suonare insieme. Noi ormai non abbiamo né
orchestra né solisti. Il peggior calcio del mondo. Possiamo
condividere il fango dell’abiezione con tanti (non troppi), ma
sotto di noi non c’è nessuno. Abbiamo solo una fortuna: il timore
che ci portano gti avversari all’inizio delle partite, chissà
perchè mai, magari perché hanno letto l’enciclopedia illustrata
del calcio. Li vedi deferenti, titubanti. Quando poi si accorgono di
aver a che fare con nessuno, sfondano. Infatti, se hai notato, i
parvenus del calcio, tipo Corea, tipo Haiti, che non hanno cultura,
ci infilano tranquillamente. Temo il Cameroun. Bisognerà informarli
che il secolo scorso abbiamo vinto due tornei, sennò come fanno ad
accorgersene da soli? E magari, per ignoranza, ci sopraffanno, quei
negretti spensierati.
“Ma non li vedi i
nostri che stanno sempre lì a brucare il prato con gli occhi? Ti
faccio una domanda: in Italia oggi aitanti giocano a testa alta? Due:
Franco Baresi, un vero libero, libero in tutti i sensi, che potrebbe
diventare uno dei più grandi al mondo... Baresi del Milan e
Antognoni, che però purtroppo è il campione dell’ovvio, dove lui
manda la palla c’è sempre un compagno di squadra e cinque
avversari pronti a levargliela.
“Non vorrei essere
frainteso, non ce l’ho con nessuno. Tanto meno col CT perché ha
dimenticato a casa questo o quello. Lo avrà fatto per usargli una
gentilezza. Beato chi potrà dire, gonfiando il petto, ai nipoti:
"nella giornata di San Crispino non ho combattuto", "io
non v’era". Piuttosto, sono imbarazzato per i 22 che vanno.
Personalmente, manderei il Bari. Al completo. È una squadra che sì
diverte, si avventura. Antologizzare è la soluzione peggiore: oltre
tutto questi azzurri tapini insieme fan pochissime partite, e non
giocano mai (ogni volta c’è una buona ragione per rapinare il
gollettino e assassinarti dalla noia). D’altronde, la sinfonica non
l’abbiamo: mandiamo l’orchestrina. I ragazzi sarebbero contenti,
e noi Italia avremmo le stesse chances. (Scusa, non è il Modena, C1,
l’unica italiana che l’altro mese ha battuto la Polonia di
Boniek?).
“Perché? Vuoi dirmi
che c’è una squadra di A che quest'anno ha fatto più gioco? La
Juventus a parte, che ha vinto il campionato per disperazione con il
meglio in ortopedia; la Fiorentina a parte, perché non c’entra, è
una squadra di ciclisti; non s’è vista che la Roma per qualche
decina di minuti: quando giravano Conti e Di Bartolomei, ricordava il
gioco del calcio... Di Falçao non se ne parla. Altra galassia. Se
penso che nel Brasile rischia la panchina, tremo di pietà per la
patria. Falçao in panchina e Graziani in campo... Ma perché
andiamo? Che ci andiamo a fare? E se non se ne può proprio fare a
meno, ripeto, mandiamo il Bari. Tutt’al più con Castellini in
porta. Visto che è il più grande portiere del mondo, se lui non si
vergogna troppo sarebbe il caso di pagargli il viaggio.
“Ti dicevo: la Roma.
Come mai? Altroché consentire l' importazione di giocatori
stranieri. Bisognerebbe imporre l’obbligo di importare
l’allenatore. La grandezza della Roma, la piccola intermittente
grandezza della Roma, è Niels Liedholm. Fra lui e gli altri, in
Italia, c’è il baratro e il silenzio. Poche norme: chi stoppa la
palla, penalizzato; chi guarda per terra, radiato; cambiare
radicalmente le maniere dell’ allenamento (in Brasile, per esempio,
si allenano sulla sabbia); e applicare il gioco a zona totale.
“Liedholm, Jessie
Carver, Erbstein: da sempre gli stranieri ci sono maestri. Perfino il
nostro brutto giochetto all’italiana lo abbiamo imparato da uno
straniero: ma almeno Herrera lo faceva bene, era uno spettacolo, un
giovedì grasso, un’orgia di nongioco. E vinceva. Che non è
poco. '
“Perché, se invece
avesse ragione Gianni Brera quando dice: 'i giocatori li fanno le
mamme; poi vengono gli allenatori', ci sarebbe da pensare che il
calcio non sia gioco per noi. E che fai? Non puoi andare a insultare
le signore, sarebbe villano, oltre tutto non è detto che la mamma
gli abbia detto: 'figlio mio, fa’ il calciatore'.
“E qui mi si domanda se
tifo per l’Italia. Vorrei. Non posso. Non c’è: quelli non
giocano a pallone. Io tifo sempre per chi gioca meglio, per chi fa
succedere qualcosa in quell’ora e mezza. Tifo, poi... Mi
infastidisce la parola. Capisco il tifo del bambino: dopo, chi meno è
cresciuto — o forse chi è cresciuto meglio — si porta dietro
quell’amore strano per cosa mai vista, e sentita raccontare da
Nicolò Carosio. E capisco il tifo indigeno: la squadra della tua
città ti piace, perché ci giocano quelli della tua città: la Pro
Vercelli, l’Ambrosiana Inter, oggi più o meno il Bari. Sennò che
te ne frega? Un anno Collovati è l’uomo di Dio, l’anno dopo
passa all’Udinese e tu lo fischi... Vuol dire che sei un imbecille.
“Odio quel tifo lì,
fra giovinotti, per la rissa, fanno fumi colorati, guardano indietro.
Poi ne riparlano tutta la settimana, in gergo, parlando parole
sputate da altri. La loro lingua è chewing-gum. Causa efficiente del
nostro calcio è, a mio avviso, l’assenza della lingua italiana. Ma
su questo ci sarebbe da fare un paio di volumi. Hai sonno. Ciao”.
"l'Unità", 3 giugno 1982
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