1.6.18

Gruppo 63. Quando in Padania c'era l'Illuminismo e la letteratura aveva i suoi pirati (Umberto Eco)

Una rievocazione degli antecedenti, del contesto e delle vicende del gruppo 63, ma anche molto di più. Un articolo che, mettendo felicemente insieme cronaca e giudizio critico, partecipazione e distanza, ricostruisce organicamente un passaggio importante nella storia della cultura italiana. Un testo da leggere (o rileggere) e tenere a mente. (S.L.L.)
Una riunione del Gruppo 63. Dalla sinistra Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Furio Colombo, Alberto Arbasino
In principio fu il Verri. Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956, a Milano, quando Anceschi mi ha telefonato. Io lo conoscevo di fama, ma cosa poteva sapere lui di me? Che mi ero laureato da meno di due anni, lavoravo alla Rai e stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi.
Voleva dare vita a una rivista e non cercava nomi famosi (li aveva già), ma intendeva mettere insieme dei giovani, affinché parlassero tra loro. Rievocavo un giorno l'episodio con un collega universitario, e gli domandavo: «Ma uno di noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che c'è in città un giovane che si è laureato in un'altra università, andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?». L'altro mi aveva risposto: «Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!». Anceschi non si barricava mai. Mi introdusse ai misteri del Blu Bar di Piazza Meda, dove in una saletta tutti i sabati verso le sei arrivavano, a chiacchierare di letteratura, Montale, Gatto, Sereni, Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio. Carlo Bo dominava la scena coi suoi silenzi omerici.
Noi giovanissimi abbiamo contribuito a una lenta trasformazione del clima. Ci passavamo le poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i dattiloscritti dei suoi primi saggi su Joyce, Giuseppe Guglielmi ci leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres «anifructus brunito per la cena». Il Verri stava per pubblicare una poesia che parlava di merda, sia pure in latino. Nel Verri, dal 1956 in avanti troviamo poesie di Giuseppe Guglielmi, Erba, Cattafi e Giuliani, Sereni accanto a Balestrini (due generazioni a confronto), Risi, Pasolini, Antonio Porta che si firmava ancora Leo Paolazzi. C'erano antologie di nuovi poeti americani, francesi (appare Yves Bonnefoy), tedeschi (Paul Celan, Hollerer, Ingeborg Bachmann), russi e spagnoli, racconti di Pontiggia e Calvino. Saggi su Pound, Dylan Thomas, Wallace Stevens, testi di Robbe-Grillet, e Giuliani dava subito notizia del Laborintus di Sanguineti. Ma Sanguineti si occupava di Dante, Montale rileggeva Gozzano, Fausto Curi rileggeva Govoni, veniva riservata un'attenzione rispettosa alle Storie Ferraresi di Bassani e al Gattopardo, a Luzi e alle Ceneri di Gramsci di Pasolini.
Nel numero 1 del 1960 appare uno scritto di Barilli, in cui si regolano i conti con Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Guglielmi in cui si apre a Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini s'intestardiscono a fare gli uomini di qualità. Una nuova vis polemica batte alle porte. Nello stesso periodo a Milano, ancora nel 1956, era stato fischiato Schonberg alla Scala. Alla prima di Passaggio, con musica di Luciano Berio e testo di Edoardo Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito che, per condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato: «centro-sinistra!». Allo Studio di Fonologia musicale della Rai, diretto da Berio e Maderna, passavano a smanettare con i nuovi strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry Pousseur, ed era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull'Almanacco Bompiani 1962, su calcolatori elettronici e arti - e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. Nel 1960 usciva finalmente in Italia l'Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle onomatopee del capitolo 11 dell'opera, Omaggio a Joyce - un tentativo di capire i significati lavorando sui significanti.
Nel 1962 Bruno Munari organizzava a Milano la prima mostra di arte cinetica e programmata, e nel 1963 Eugenio Battisti faceva nascere a Genova il Marcatré, magazzino di molte nuove esperienze. Molti di quei fermenti erano espressione di un "illuminismo settentrionale", anche se a questo clima appartenevano il siciliano Vittorini o il napoletano Abbagnano, e la prima riunione del Gruppo 63 avviene a Palermo nel corso di un festival musicale e teatrale di ampia apertura europea. Ma non per caso Anceschi aveva intitolato a Verri la sua rivista, così come anni prima Vittorini aveva preso a prestito il titolo del suo Politecnico da Cattaneo. Il Verri nasceva in quella Milano in cui le edizioni Rosa e Ballo avevano fatto conoscere i testi di Brecht, Yeats, gli espressionisti tedeschi e il primo Joyce, Bompiani su consiglio di Antonio Banfi, nella collana Idee Nuove, aveva pubblicato testi filosofici che erano stati ignorati dalla cultura idealistica, mentre da Torino Frassinelli ci aveva fatto conoscere Melville, il Portrait joyciano, e Kafka. Già dagli anni Cinquanta vi si leggevano Pound ed Eliot, da Bologna il Mulino ci faceva conoscere attraverso La teoria della letteratura di Wellek e Warren i formalisti russi e il New Criticism, l'Einaudi, la Feltrinelli e poi il Saggiatore avrebbero tradotto Husserl, Merleau Ponty, Jakobson o Wittgenstein.
Questi fermenti si scontravano con la cultura ufficiale del Pci. Non la cultura marxista, che accoglieva anche Geymonat o Galvano della Volpe, ma una linea di partito che cercava di tradurre i dettami del realismo socialista in termini di un nazional-popolare, non estraneo alle esperienze del modernismo ma attento più ai contenuti che alle forme (Guttuso, Pratolini, il primo Visconti, o le Ceneri di Gramsci di Pasolini). Nascevano dibattiti su ortodossie e deviazionismi a proposito del Metello di Pratolini o Senso di Visconti. Grande gelo di fronte ai film di Antonioni, che qualcuno assolveva solo perché mettevano in scena, sia pure sotto forma di drammi privati, quella che allora si chiamava l' alienazione del mondo capitalistico. Ma l'altro aspetto per cui la cultura ufficiale di sinistra si trovava ostile all'illuminismo padano era che la formazione culturale dei suoi quadri era ancora fondamentalmente crociana e idealistica, mentre l'ambiente dell'illuminismo settentrionale si caratterizzava per un rifiuto della cultura crociana e della mitologia dell'intuizione lirica. Ricordiamo gli sforzi fatti da Vittorini, già eretico sin dai tempi del Politecnico (un altro richiamo all' illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel 1962 aveva operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961 Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura sul mondo industriale, ma aveva deciso di dedicare il Menabò 5 alle nuove tendenze linguistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Vittorini proponeva prove narrative di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo. Vi appariva anche un saggio, apparentemente polemico, ma sotterraneamente complice, di Italo Calvino (La sfida al labirinto), che allora mi aveva detto: «Scusa, ma Vittorini ha ritenuto prudente che stendessi intorno a voi un cordone sanitario». Caro e amabile Calvino che in futuro avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si biforcano e con gli sperimentalismi dell'Oulipo.
Insomma, i nuovi scrittori, che ritenevano che l'impegno stesse nel linguaggio e non nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del neocapitalismo, anche se tra di loro vi erano molti schierati a sinistra. Quando nel 1962 era uscito il mio Opera Aperta, su “Paese Sera” si parafrasava un inciso di Montale (che si era dimostrato sempre attento benché dubbioso lettore, incuriosito e preoccupato dalle nuove esperienze): «Dite a quel giovane saggista che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste, diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto» (il che per fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei alunni non dovessero leggere decine di riviste). Su “Il Punto” si parlava di un libro «che ha galvanizzato le più torpide intelligenze critiche italiane». “L'Unità” avvertiva un pericoloso ritorno al decadentismo, “Filmcritica”, allora di ispirazione paleomarxista (ne era nume tutelare il futuro senatore missino Armando Plebe) parlava di «opera aperta come opera assurda». Sull' “Espresso”, ancora fortezza degli ultimi difensori dell'intuizione lirica che si battevano come gli ultimi giapponesi sulle isole del Pacifico, si affermava indignati che «le più potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che difendano le loro maggiori stravaganze». “Rinascita” intitolava L' opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco. L' Avanti rilevava come «Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi narratori d'avanguardia». Sino a che un giorno è nata l'idea di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi.
Di questo ha già parlato ieri su questo giornale Nello Ajello e ha ricordato i riti dell'incontro palermitano, dando anche un sapido schizzo della società letteraria dell'epoca. Non è vero che non avessero fatto la loro gita a Chiasso, per tornare all'allegoria arbasiniana, perché Pavese aveva pur tradotto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori pubblicati in Americana. Ma è certo che per la nostra generazione il mondo si era allargato. Non avevamo bisogno di andare neppure a Chiasso, perché si andava e veniva da Parigi e da Londra in aereo. Noi, nati intorno agli anni Trenta, appartenevamo a una generazione fortunata. I nostri fratelli maggiori erano stati distrutti dalla guerra, alcuni erano finiti a Coltano, altri avevano sacrificato i loro anni migliori in montagna. I sopravvissuti erano tornati a una vita normale con dieci anni di ritardo.
Noi eravamo arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese consapevoli abbastanza per aver capito quello che era accaduto, innocenti perché non avevamo avuto il tempo di comprometterci, quando tutte le opportunità erano aperte. Eravamo pronti a ogni rischio ma - diciamo la verità - sapendo che non dovevamo pagar pegno. Non eravamo obbligati a soffrire per conquiste impossibili, esprimevamo una nostra forma di impudente gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore d'antan che per definizione si voleva sofferente ed escluso. Non eravamo giovani bohemien che vivevano in soffitta e davano la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ciascuno di noi aveva già pubblicato uno o due libri, ed era ormai inserito nelle case editrici, nei giornali, nella Rai, nell'università. Il Gruppo 63 non ha rappresentato una rivolta dall'esterno ma dall'interno. Il Gruppo 63 irritava la cultura "impegnata" perché credeva più al gesto rivoluzionario, quello dei futuristi che scandalizzavano i buoni borghesi. Aveva ormai capito che questi gesti eversivi, nella nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così duttile e smaliziata da fagocitare ogni proposta di eversione immettendola nel mercato culturale. L'eversione artistica non poteva più assimilarsi all'eversione politica. Si tentava di aggiustare il tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali, difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le soluzioni dell'arte, una visione diversa della società in cui ci si muoveva. Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e sperimentalismo aveva avvertito che, se l'avanguardia storica era stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo. Se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia, scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. La maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell'avanguardia storica. Per questo avevo allora parlato di una Generazione di Nettuno, opposta a quella di Vulcano.
Non eravamo una banda di corsari che dava l'assalto alla Maracaibo della letteratura. Scrivevo: «Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati: un giorno verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le teste. Ma per intanto Jenny... scruta nel volto gli avventori, ne mima i gesti ... Come sono fatti i piatti? Di quale legno i letti? E c' è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello sbarco?». Mi chiedevo: «Ma il gesto sperimentale non potrà attardarsi su se stesso - nella sequenza delle ricerche successive non si perderà di vista il fine?... Di qui la necessità di un controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma mentre l'opera si fa.... Poiché la verifica non è più data dallo scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la verifica comune, l'incontro e il controllo delle triangolazioni. Certo, nulla più dell'effusione lirica individuale sfugge a ogni triangolazione: segno che la generazione non crede all'effusione lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a qualcos'altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome».
Immaginatevi se l'estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria era stata una diversa disposizione al confronto. I nostri maggiori si erano impegnati a mantenere intatto il loro unico capitale, l'idea sacrale dello scrittore. Nascondevano il dissenso nel silenzio e, alla pubblica stroncatura, preferivano la malignità sussurrata al bar. Invece a Palermo i presenti si leggevano i loro lavori più recenti e si criticavano spietatamente l'un l'altro. Lo facevano perché avevano in comune (oltre a tante nuove letture) questa volontà di dialogo rissoso, ma erano diversissimi tra loro. Che cosa rendeva simili Giuliani e Leonetti, che cosa avevano in comune, come stile e come poetica, Marmori e Amelia Rosselli, Pagliarani e Manganelli o, quanto a valutazione sul marxismo, Sanguineti e Barilli? Sull'opera aperta Guglielmi aveva opinioni diverse dalle mie, si opponevano diverse valutazioni dell'opera di Moravia. Eppure tutti erano tenuti insieme dal proposito di confrontarsi senza pietà e senza cineserie. Nell'ambito di una società letteraria apollinea, queste divergenze avrebbero segnato la fine di una bella amicizia.
A Palermo il dissenso generava amicizia. Questo era stato il messaggio offensivo lanciato dal gruppo. Oserei dire che la visibilità del Gruppo è stata dovuta a chi se ne è sentito offeso. Rimane tipica la faccenda delle Liale 63. Come era nata la battuta? Non ricordo, forse era ingiusta, almeno rispetto a Bassani (ma all'epoca molto severo col Giardino dei Finzi-Contini era stato proprio Vittorini). Ma se avesse circolato come una delle tante boutades messe in giro da Flaiano o Mazzacurati, saremmo rimasti all'aneddoto. Invece fu proprio Bassani, evidentemente impreparato al gioco dell'invettiva, a protestare accoratamente su “Paese Sera”, contribuendo ad allargare lo scandalo a macchia d'olio. Passati i primi furori, le opposizioni alla neo-avanguardia hanno preso un'altra strada: si è detto che il gruppo aveva espresso molte belle teorie ma nessuna opera valida. Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto (e cito solo gli scomparsi) la grandezza di Porta, Amelia Rosselli, Germano Lombardi, Manganelli o Emilio Tadini allora si è detto: «Sì, ma costoro non appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di passaggio». Ora è ovvio che, se io denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi cita Orson Welles o John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, a ogni nome io rispondo che però quelli non erano veramente americani nel senso più profondo del termine, alla fine il cinema americano si riduce a Gianni e Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è fatto e ancora si sta facendo su varie gazzette.
Quella del Gruppo 63 non è stata una stagione dogmatica. Nel corso degli anni il Gruppo ha saputo rimettere in questione molte idee iniziali. Nella riunione del 1965, Renato Barilli si trovava a fare i conti col nuovo Robbe-Grillet, e con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto Roussel, che amava Verne. E diceva che sino ad allora si era privilegiata la fine dell'intreccio, e il blocco dell'azione nell'epifania e nell'estasi materialistica, ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell'azione, sia pure di un'azione autre. In quei giorni era stato proiettato un collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, fatto con spezzoni di situazioni standard del cinema commerciale. Il pubblico aveva reagito con maggior piacere proprio nei punti che pochi anni prima avrebbero provocato scandalo, dove le conseguenze logiche e temporali dell'azione tradizionale venivano eluse (l'avanguardia stava diventando tradizione), ma soprattutto apprezzava la rivisitazione ironica e critica di un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi. In quei giorni era stata discussa la insorgente poetica del post-moderno, solo che all'epoca il termine non circolava ancora.
Quale è stata la contraddizione che a condotto il Gruppo 63 al suicidio? Renato Poggioli nella sua Teoria dell'arte d'avanguardia aveva fissato le caratteristiche delle avanguardie storiche. Erano: attivismo, antagonismo, nichilismo, culto della giovinezza, ludicità, prevalenza della poetica sull'opera, autopropaganda, rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, come tendenza agonica all'olocausto e gusto della propria catastrofe. L'avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, mentre lo sperimentalismo produce l'opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell'intertestualità, l'avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d'artista faceva della provocazione avanguardistica. Ora nel Gruppo 63 esistevano le due anime, e l'anima avanguardistica è quella che è stata colta dai mass media. Ma, se tanti testi ancora rimangono, i gesti non potevano che vivere una breve stagione.
Il momento in cui il Gruppo 63 ha scelto esplicitamente la strategia dell'attacco è stato paradossalmente quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul linguaggio, all'impegno pubblico e politico. È stata la stagione di “Quindici”, che ha visto drammatiche conversioni all'utopia sessantottesca, o sofferte resistenze, e alla fine ha portato il Gruppo a togliersi la vita - proprio nel senso dell'agonismo di Poggioli. Confrontandosi con le tensioni immediate di un periodo storico tra i più contraddittori, il Gruppo si è accorto che una mancanza di unità ideologica - che all'inizio aveva fatto la sua forza interna, e la sua energia provocatoria - ora ne sanciva la giusta estinzione. Fu vera gloria? A tutti, meno che ai sopravvissuti, l'ardua sentenza. E nostalgia solo per i tanti amici scomparsi nel corso di questi quattro decenni.

“la Repubblica”, 9 maggio 2003

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