3.6.18

La Berlino dei tempi di Weimar. I turbamenti della giovane capitale tra romanzi e cabaret (Ernesto Ferrero)


Per uno dei paradossi di cui si compiace la storia, gli anni della Repubblica di Weimar, quelli che vanno dalla fine della Grande Guerra all’avvento di Hitler, travagliati e tormentati com’erano da drammatiche tensioni sociali, hanno visto anche una fioritura artistica e creativa senza eguali. Berlino, «città di mercanti (…), la grande cloaca dove si radunano schiumeggiando le sozzure» (così Nietzsche nello Zarathustra ) era diventata l’epicentro della modernità, il laboratorio-crogiuolo in cui bruciano e si fondono tutti gli estremi e tutte le contraddizioni, la città degli eccessi che per fame di vita danza sull’orlo dell’abisso in cui finirà per cadere. L’Atene sulla Sprea di cui parlava l’imprenditore e politico Walter Rathenau nel 1902 si avviava a diventare una nuova Chicago: «il parvenu della metropoli e la metropoli dei parvenu». Grosz ci avrebbe poi consegnato un ritratto feroce della sua borghesia.

Scrittori, filosofi, inviati speciali, registi la sentivano
come un ineludibile incrocio della contemporaneità
Sul fatto che Berlino fosse più vicina all’America che a Parigi o Londra convenivano tutti. Anche per questo bisognava andarci, viverne da dentro le tensioni e le effervescenze, quel senso di utopie a portata di mano, i contrasti tra miseria e lusso, le provocazioni architettoniche a rischio di kitsch, i grandi magazzini, gli sfavillanti ristoranti multipiano, i teatri e i cabaret, lo zoo, il ghetto, i ruggiti della metropolitana. Scrittori, filosofi, inviati speciali, pittori, drammaturghi, registi la sentivano come un ineludibile incrocio della contemporaneità. Tra attrazione e ripulsa, poche città sono state vissute e raccontate con lo stesso spasmodico coinvolgimento.
Berlino Città d’altri, recita il titolo dell’intenso volume che a quegli anni ha dedicato Luigi Forte (Neri Pozza, 2018), perché sono stati in molti a cercare di impossessarsi di quell’amante fascinosa e perversa da cui era poi difficile staccarsi. Apprezzatissimo germanista, Forte, che la conosce bene anche per averci studiato e lavorato a lungo, ha passato al setaccio una letteratura sterminata, in cui ritroviamo molto del miglior Novecento. Ci sono ovviamente gli interni, per così dire, Simmel, Kracauer, Döblin, Spengler, Benn, Walter Benjamin e poi Klaus Mann, il giovane Brecht, e Fritz Lang (autore del perturbante, emblematico film Metropolis), ma è proprio lo sguardo da fuori quello che più ci intriga. Capiscono presto, gli intellettuali, che si ritrovano ad affrontare uno scenario inedito, quello di una società sempre più fragile e disorientata sotto i colpi della crisi economica e dello strapotere di industria e commercio. Quasi fatale che viva immersa in un presente frenetico e ceda ai richiami dello spiritismo e dell’astrologia, ai più spregiudicati consumi sessuali: ragazzi e ragazze che si travestono e si vendono con freddo cinismo, chilometri di prostitute. «Le andrebbe un baccanale?», propongono i procacciatori di clienti a chi cerca svaghi proibiti.

Più vicina all’America che a Parigi o Londra,
oscillava tra volontà di potenza e miserie da inflazione
Gli osservatori si muovono tra fascinazione e sgomento. Il viennese Stefan Zweig, spaventato dalla perdita di un’identità secolare, scopre che i tedeschi mettono la loro sistematica esattezza anche nella perversione. L’ebreo galiziano Joseph Roth si cala senza paura nel sottomondo dei diseredati ricavandone la più ghiotta materia di racconto. Per Canetti «le cose fluttuavano come cadaveri mentre gli uomini si trasformavano in cose». Per Kafka, che pure per breve tempo ha sognato per sé un diverso destino, lì «la folla crede di camminare e precipita». Diceva Karl Kraus: «In quella strana congerie prussiana che sapeva di Parigi, ogni scemo era un personaggio».
I russi sono così numerosi che hanno ribattezzato Charlottengrad il quartiere di Charlottenburg in cui sono finiti. «Che ci fanno i tedeschi nella ‘nostra’ città?», si chiedono divertiti. I «grandi» ci sono tutti: Gorkij, Esenin, Majakovskij (vivente monumento di se stesso), Belyi, la Cvetaeva, Erenburg, Pasternak (affascinato dai ritmi dell’ipertrofico meccanismo urbano), Nabokov (in quindici anni di soggiorno scrive nove romanzi), Sklovskij (che si adatta a fare il tassista). I cosiddetti «Oxford boys» (Christopher Isherwood, Stephen Spender, W.H. Auden) sono tra i turisti sessuali più attivi (per Auden, la città è «il sogno di ogni sodomita»), ma anche quelli che rappresentano più efficacemente i sintomi inquietanti dell’epidemia nazista (vedi Addio a Berlino di Isherwood).
Ci sono anche gli italiani: Marinetti e Boccioni che promuovono spudoratamente se stessi e il Futurismo, G.A.Borgese, Paolo Monelli, Corrado Alvaro inviato de “La Stampa” che coglie acutamente la sbornia consumista e il protagonismo delle «maschiette», ma anche il riaffiorare del vecchio militarismo prussiano in certe sale da ballo di periferia. E c’è anche un Pirandello sempre più depresso che sogna invano un rilancio in terra tedesca, e non apprezza gli effetti circensi dell’acclamata rappresentazione dell’Opera da tre soldi di Brecht.
Agli inizi del ’900 un critico aveva scritto che Berlino è condannata a diventare, mai ad essere, una realtà in continuo movimento, un laboratorio di futuro. Felice condanna, che spiega il fascino che la città continua ad esercitare, in specie sui giovani, e di cui Forte ricostruisce a perfezione le narrazioni storiche. Come se conflitti e tragedie la rendessero più forte e vitale.

“Tuttolibri La Stampa”, 6 aprile 2018

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