Per uno dei paradossi di
cui si compiace la storia, gli anni della Repubblica di Weimar,
quelli che vanno dalla fine della Grande Guerra all’avvento di
Hitler, travagliati e tormentati com’erano da drammatiche tensioni
sociali, hanno visto anche una fioritura artistica e creativa senza
eguali. Berlino, «città di mercanti (…), la grande cloaca dove si
radunano schiumeggiando le sozzure» (così Nietzsche nello
Zarathustra ) era diventata l’epicentro della modernità, il
laboratorio-crogiuolo in cui bruciano e si fondono tutti gli estremi
e tutte le contraddizioni, la città degli eccessi che per fame di
vita danza sull’orlo dell’abisso in cui finirà per cadere.
L’Atene sulla Sprea di cui parlava l’imprenditore e politico
Walter Rathenau nel 1902 si avviava a diventare una nuova Chicago:
«il parvenu della metropoli e la metropoli dei parvenu». Grosz ci
avrebbe poi consegnato un ritratto feroce della sua borghesia.
Scrittori, filosofi,
inviati speciali, registi la sentivano
come un ineludibile
incrocio della contemporaneità
Sul fatto che Berlino
fosse più vicina all’America che a Parigi o Londra convenivano
tutti. Anche per questo bisognava andarci, viverne da dentro le
tensioni e le effervescenze, quel senso di utopie a portata di mano,
i contrasti tra miseria e lusso, le provocazioni architettoniche a
rischio di kitsch, i grandi magazzini, gli sfavillanti ristoranti
multipiano, i teatri e i cabaret, lo zoo, il ghetto, i ruggiti della
metropolitana. Scrittori, filosofi, inviati speciali, pittori,
drammaturghi, registi la sentivano come un ineludibile incrocio della
contemporaneità. Tra attrazione e ripulsa, poche città sono state
vissute e raccontate con lo stesso spasmodico coinvolgimento.
Berlino Città
d’altri, recita il titolo dell’intenso volume che a quegli
anni ha dedicato Luigi Forte (Neri Pozza, 2018), perché sono stati
in molti a cercare di impossessarsi di quell’amante fascinosa e
perversa da cui era poi difficile staccarsi. Apprezzatissimo
germanista, Forte, che la conosce bene anche per averci studiato e
lavorato a lungo, ha passato al setaccio una letteratura sterminata,
in cui ritroviamo molto del miglior Novecento. Ci sono ovviamente gli
interni, per così dire, Simmel, Kracauer, Döblin, Spengler, Benn,
Walter Benjamin e poi Klaus Mann, il giovane Brecht, e Fritz Lang
(autore del perturbante, emblematico film Metropolis), ma è
proprio lo sguardo da fuori quello che più ci intriga. Capiscono
presto, gli intellettuali, che si ritrovano ad affrontare uno
scenario inedito, quello di una società sempre più fragile e
disorientata sotto i colpi della crisi economica e dello strapotere
di industria e commercio. Quasi fatale che viva immersa in un
presente frenetico e ceda ai richiami dello spiritismo e
dell’astrologia, ai più spregiudicati consumi sessuali: ragazzi e
ragazze che si travestono e si vendono con freddo cinismo, chilometri
di prostitute. «Le andrebbe un baccanale?», propongono i
procacciatori di clienti a chi cerca svaghi proibiti.
Più vicina
all’America che a Parigi o Londra,
oscillava tra
volontà di potenza e miserie da inflazione
Gli osservatori si
muovono tra fascinazione e sgomento. Il viennese Stefan Zweig,
spaventato dalla perdita di un’identità secolare, scopre che i
tedeschi mettono la loro sistematica esattezza anche nella
perversione. L’ebreo galiziano Joseph Roth si cala senza paura nel
sottomondo dei diseredati ricavandone la più ghiotta materia di
racconto. Per Canetti «le cose fluttuavano come cadaveri mentre gli
uomini si trasformavano in cose». Per Kafka, che pure per breve
tempo ha sognato per sé un diverso destino, lì «la folla crede di
camminare e precipita». Diceva Karl Kraus: «In quella strana
congerie prussiana che sapeva di Parigi, ogni scemo era un
personaggio».
I russi sono così
numerosi che hanno ribattezzato Charlottengrad il quartiere di
Charlottenburg in cui sono finiti. «Che ci fanno i tedeschi nella
‘nostra’ città?», si chiedono divertiti. I «grandi» ci sono
tutti: Gorkij, Esenin, Majakovskij (vivente monumento di se stesso),
Belyi, la Cvetaeva, Erenburg, Pasternak (affascinato dai ritmi
dell’ipertrofico meccanismo urbano), Nabokov (in quindici anni di
soggiorno scrive nove romanzi), Sklovskij (che si adatta a fare il
tassista). I cosiddetti «Oxford boys» (Christopher Isherwood,
Stephen Spender, W.H. Auden) sono tra i turisti sessuali più attivi
(per Auden, la città è «il sogno di ogni sodomita»), ma anche
quelli che rappresentano più efficacemente i sintomi inquietanti
dell’epidemia nazista (vedi Addio a Berlino di Isherwood).
Ci sono anche gli
italiani: Marinetti e Boccioni che promuovono spudoratamente se
stessi e il Futurismo, G.A.Borgese, Paolo Monelli, Corrado Alvaro
inviato de “La Stampa” che coglie acutamente la sbornia
consumista e il protagonismo delle «maschiette», ma anche il
riaffiorare del vecchio militarismo prussiano in certe sale da ballo
di periferia. E c’è anche un Pirandello sempre più depresso che
sogna invano un rilancio in terra tedesca, e non apprezza gli effetti
circensi dell’acclamata rappresentazione dell’Opera da tre
soldi di Brecht.
Agli inizi del ’900 un
critico aveva scritto che Berlino è condannata a diventare, mai ad
essere, una realtà in continuo movimento, un laboratorio di futuro.
Felice condanna, che spiega il fascino che la città continua ad
esercitare, in specie sui giovani, e di cui Forte ricostruisce a
perfezione le narrazioni storiche. Come se conflitti e tragedie la
rendessero più forte e vitale.
“Tuttolibri La Stampa”,
6 aprile 2018
Nessun commento:
Posta un commento