Il secondo
centenario della grande guerra contadina in Russia
Il cosacco analfabeta che
portò sotto la bandiera della ribellione antifeudale i servi della
gleba della regione degli Urali e del Volga - L'impresa scosse la
potenza dell'assolutismo e il suo messaggio sopravvisse alla sconfitta
militare e al condottiero
Cade quest’anno il
bicentenario della quarta ed ultima guerra contadina in Russia, la
sanguinosa “pugaciovshina”, dal nome del cosacco analfabeta
Emeljan Pugaciov che portò sotto la bandiera della sua autocrazia
antifeudale i servi della gleba della regione degli Urali e del
Volga. Fu l’ultimo, organizzato sussulto dei paria, sconfitto e
allo stesso tempo vittorioso giacché la sua ideologia non solo gli
sopravvisse ma si espanse come barlume di coscienza delle masse
servili della campagna e della città.
L’andamento della
guerra è assai noto anche per la rappresentazione romantica che ne è
giunta al grande pubblico attraverso opere letterarie molto popolari.
Un cosacco cinquantratreenne che prestava servizio nell’Armata
Turek nel Caucaso settentrionale, disertò e fece propagare la voce
di essere lo zar Pietro III (che in realtà era stato ucciso undici
anni prima lasciando il posto a Caterina II). In un paese ove il
ricorso all’impostura era da tempo un normale mezzo di lotta
politica o di scisma religioso, l’apparire d’un millantatore non
ebbe inizialmente alcuna eco. C’era, tuttavia, un fatto singolare,
e cioè che lo impostore questa volta non era un feudatario o un
nobile ma un semplice cosacco del Don. Questa circostanza parve
togliere ulteriore significato a quella disperata avventura
personale. Ma non fu così. Pugaclov nell’estate del 1773 apparve
sull'Ural e si pose alla testa dei cosacchi ribelli; era la prima
delle tre fasi della sua guerra. Istintivamente a Pietroburgo si capì
ch'era sorto un nuovo Stepan Razin e la corte gli dichiarò guerra
spietata.
Il cosacco organizza
rapidamente un esercito di contadini, servi e forzati delle miniere e
delle fabbriche uraliche assaltando e conquistando le isolate
fortezze della periferia, poste sulla via delle scorrerie mongole e
tartare. Ben presto ha in mano una vasta zona che è, allo stesso
tempo, retroterra bellico, teatro di reclutamento e terreno
sperimentale d’un nuovo ordine. Incoraggiato dalla facilità del
successo, si porta a Orenburg e pone lo assedio. I volontari giungono
a migliaia nel suo esercito e, cosa ancor più preziosa, Pugaciov
riceve armi anche pesanti dalle fonderie degli Urali. Durante
l’assedio di Orenburg egli ha il tempo e i mezzi per riorganizzare
il suo esercito secondo i dettami dell’arte bellica e tenta di
rafforzare la sua causa iniziando una politica di proselitismo nelle
località del SudEst. Invia ovunque i suoi famosi «manifesti» che
promettono affrancamento e giustizia. Nomina il “Collegio di guerra
dello Stato” che è l'organo politico-militare supremo in cui siede
ed esercita li proprio potere assoluto.
Constatate le dimensioni
della rivolta, Pietroburgo mosse cospicue unità militari sotto il
comando del generale Kar, che furono duramente battute. Allora
Caterina inviò un esercito quale la Russia aveva mobilitato solo in
conflitti con altri paesi. Lo guidava il generale Bibikov che si
trovò inizialmente molto a disagio in una guerra cosi
anticonvenzionale, specie nei mesi invernali. Ma nel marzo 1774
riuscì a battere Pugaciov presso Tatishev e a liberare Orenburg
dall’assedio.
L’esercito ribelle
ripiega allora verso gli Urali ove ha le sue basi più forti; è la
seconda fase della guerra. Consolidate queste posizioni grazie anche
all’adesione della Bashkiria in mano all’alleato Salovat Julaev,
viene ripresa la marcia verso occidente. In luglio Pugaciov assedia
Kazan, sulla via di Mosca, ma senza riuscire a sconfiggere la
guarnigione. Gli insorti dovettero cosi lasciare la zona e ripiegare
lungo il Volga.
La terza fase della
guerra prese appunto nome dal grande fiume e assunse ì caratteri di
un’azione combinata fra le unità regolari di Pugaciov e le
formazioni partigiane contadine. La minaccia riprese a proiettarsi
verso il centro della Russia. Caddero molte città, fra cui Penza e
Saratov. Tre i fattori del successo: l’alto grado di organizzazione
dell’esercito ribelle, il largo appoggio della popolazione, la
capacità di evitare il contatto con il grosso dell’armata zarista.
Quando questo terzo
fattore venne meno, fu la catastrofe. Lo scontro si svolse sotto
Tsaritsin (oggi Volgograd) e fu rovinoso per Pugaciov che si ritirò
ancora al di là del Volga nella speranza di raggiungere per la terza
volta gli Urali. Ma a questo punto intervenne il tradimento della
parte più ricca dei cosacchi. Pugaciov fu catturato nella steppa e
consegnato ai suoi nemici, il trionfo sulla “pugaciovshina” fu
consumato il 10 gennaio 1775 a Mosca quando il condottiero fu
giustiziato assieme ai suoi ultimi compagni.
Cosa era stata, al di là
dei suoi caratteri militari, la quarta ed ultima guerra contadina? E
in che cosa essa raccoglieva o superava il messaggio delle tre che
l’avevano preceduta? Per guerre contadine s’intendono, in Russia,
quelle rivolte di ampie dimensioni che si sviluppano fra il 1606 e il
1775 mentre dal seno del feudalesimo sorgono i fattori della sua
negazione: un mercato nazionale che spezza i limiti delle economie
locali a carattere naturale, la nascita d’un ceto mercantile e
usuraio. Tipica è la durezza con cui la classe feudale si oppone
all’emergere di questi fattori. In tutto questo periodo si assiste
ad un irrigidimento dei diritto servile. Cosi nel 1649 viene
eliminato l’ultimo temperamento della servitù della gleba e cioè
la norma secondo cui i contadini-servi che - fossero fuggiti dalle
terre del loro padrone diventavano liberi se non catturati entro
cinque anni.
L’autocrazia dello zar
si trasforma in assolutismo: Pietro I (1682-1725) non solo consolida
ed espande l’impero ma opera una connessione fra gli interessi dei
vari gruppi feudali dando luogo ad una unificazione socio-politica,
cioè alla nobiltà come classe unica; sotto Caterina II (17621796)
la nobiltà si rafforza con l’assegnazione ad essa di terre dello
Stato, della Chiesa e anche dei contadini liberi. Il privilegio
nobiliare viene accresciuto con la soppressione dell’unico vincolo
che lo giustifichi giuridicamente: l’obbligo di servire lo Stato.
Nella seconda metà del
XVIII secolo la condizione del contadino-servo (e similmente quella
dell’operaio servo nelle manifatture, nelle miniere e nelle
industrie belliche) era assai vicina a quella dello schiavo e ciò è
comprovato dalla stessa incapacità di queste classi subalterne,
abbrutite da una condizione subumana, di lasciare la ben che minima
traccia di una testimonianza culturale attorno alla propria
condizione. Solo nei tempi della quarta guerra contadina emersero
alcuni poeti orali o cantastorie che diffusero “lamenti” sulla
povertà e la schiavitù, sulla stoltezza dei funzionari e sulla
furbizia dei servi nello sfuggire alle loro angherie. Spetterà ad un
nobile illuminato, Aleksandr Radichev, consegnare alla storia un
quadro abbastanza preciso dello spettacolo sociale ed umano della
campagna russa con il famoso Viaggio da Pietroburgo a Mosca.
Scarne ma fustiganti le sue conclusioni politiche contro la iniquità
della condizione servile: «Da un lato, la quasi onnipotenza,
dall’altro, l’impotenza più inerme. Di fronte al contadino il
signore terriero è legislatore, giudice, esecutore del suo stesso
giudizio e, ove lo desideri, un accusatore contro cui l’accusato
non può dire niente».
Schiavo su tutta
l'immensa area della Russia, il contadino lo era, per quanto
possibile, ancor più nelle zone cerealicole comprese fra il Volga e
l’Ural, laddove cioè si scatenò la «pugaciovshina». Qui, la
«barshcina», cioè lo obbligo di lavorare senza compenso le terre
del signore, si estendeva fino a sei giorni la settimana, per cui
anche se il contadino aveva la formale disponibilità di un
fazzoletto di terreno non sapeva come lavorarlo, tanto più quando le
forze giovani della famiglia venivano sottratte dalla coscrizione
militare che durava tutto il periodo della giovinezza e della
maturità. Una forma particolarmente esosa di servitù colpiva i
numerosi pescatori cosacchi dell'Ural che erano vessati dagli
«atamani», i quali avevano l’appalto statale del sale che
occorreva per il trattamento e la commercializzazione del pesce.
Nelle miniere e nelle fabbriche belliche non esisteva salario e
vigeva una « barshcina » simile a quella terriera.
Fu per questo che
Pugaciov potè operare una saldatura che non era riuscita ai capi
rivoltosi che l'avevano preceduto: mise insieme la rabbia e la forza
di contadini, pescatori e operai. Dette loro un programma vago,
centrato sull’abolizione delle vessazioni più odiose e sulla
promessa della libera disponibilità di «terreni, boschi, porti,
diritti di pesca e di estrazione del sale, senza riscatto e senza
tributi feudali». La formula politica basilare dei suoi «manifesti»
era la concessione ai servi di «essere da ora in avanti schiavi
devoti della nostra Corona », cioè sudditi di una autocrazia a base
contadina, unica forma statuale allora concepibile della ideologia
subalterna dei servi della gleba.
Ma il capo ebbe anche la
abilità di far proprie rivendicazioni molto particolari delle
categorie professionali, dei gruppi etnici. Nell’insieme dunque
offri una base ideale sufficientemente trascinante ai combattenti e
alle popolazioni. Gli mancò invece un’abilità che non poteva
avere: quella di capire che il servo poteva battersi per non essere
più tale, ma non poteva costruire una società a propria
somiglianza. Oggi diremmo che non seppe concepire una strategia delle
alleanze nella quale, in ogni caso, l’egemonia non sarebbe spettata
al contadino della gleba. La nascente borghesia non lo capì e forse
lo temette. Ed egli fu solo dinanzi alla potenza ancora grande
dell’assolutismo feudale. Fu già opera grande l’essere riuscito
a scuotere quella potenza.
“l'Unità”, 7
settembre 1974
Nessun commento:
Posta un commento