Pesaro
Il patio di una bella villa un
po' arretrata rispetto al mare, un piccolo gruppo di amici, le
colline marchigiane che degradano con la consueta dolcezza. L'idillio? Non proprio. Se il padrone di casa risponde al nome di
Giancarlo Del Monaco - figlio del grande tenore e sovrintendente all'opera di Bonn - e soprattutto se quei cinque amici sono tutti pezzi
grossi del locale Club Mario Del Monaco, bè, allora basta formulare
una domandina del tipo: "Ma Del Monaco non era un po' debole
negli sfumati?" perché tutto vada in tempesta: colline, animi,
vigneti.
Si scherza, ovviamente, poiché la lirica si nutre anche d'iperboli. E in ogni caso è giusto essere qui, tra i fan della curva
sud, a ricordare la voce squillante del nostro dopoguerra, l'eroe,
il forzato del timbro e dello smalto: Del Monaco, il tenore potente e
prepotente che sfidò il mondo intero col talento. Fra pochi giorni,
il 16 di ottobre, saranno giusti dieci anni dalla morte. E in quella
circostanza, mi spiega Antonino Giubilaro, presidente del Club, tutto
si muoverà in città. Il Comune di Pesaro, che a Mario Del Monaco ha
già dedicato una via e un'aula del conservatorio, metterà a
disposizione il Teatro Rossini per un concerto di Katia Ricciarelli,
sua ultima Desdemona nel 1972. Poi, sulla sua tomba, verrà scoperto
il monumento funebre di Arnaldo Pomodoro (in realtà l'autore del monumento fu Giò Pomodoro - n.d.r.). E tutt'intorno ci sarà un
mare di folla, mi assicurano: se è vero, com'è vero, che quando
nel 1984 la sua salma fu trasportata qui da Treviso, la città intera
scese in piazza, per mettersi in corteo fin dal casello autostradale.
La sua fama è alle stelle
"La sua fama è ancora alle stelle",
mi assicura Emma Raggi Valentini, che da quarant'anni insegna canto
al conservatorio cittadino e che da ragazza lo ebbe come compagno di
studi. "Se lei domanda all' uomo della strada chi siano Raimondi
o Corelli, non lo sa. Ma se lei domanda chi è Del Monaco, lo sa.
Questo significa che Del Monaco è ormai celebre come Gigli o
Caruso".
"Mio padre è certamente stato il più grande
tenore drammatico di questo secolo in un'infinità di opereé",
irrompe Giancarlo Del Monaco, gagliardo non meno del papà, esibendo
una sfilza di attestati di stima firmati Giordano, Mitropulos...
"Negli Stati Uniti il suo mito è immenso, tant'è che per il
decennale della morte al Metropolitan ci sarà un concerto dei
migliori cantanti del mondo. E in Italia la gente lo ama. Solo che
qui da noi alcuni critici specialisti hanno lanciato una campagna
contro di lui. Ma sì, lei sa di chi parlo: quei cultori del
cosiddetto, lezioso bel canto che oggi hanno il potere e fanno i
registi, i maestri di canto, i consiglieri musicali dei teatri.
Rodolfo Celletti, per non far nomi". Per bel canto - va da sé -
s'intende Rossini, e Mozart, e insomma quel gusto "alleggerito",
quella passione per l'ironia e il disincanto che sola sopravvive al
nostro tempo.
Da qui, da quest'inverno che ha un po' surgelato gli
eroi verdiani si prova una specie di tenerezza a ripercorrere le
tappe della carriera del giovane Mario. Nato a Firenze nel 1915, a
tredici anni era iscritto al liceo musicale Rossini, di Pesaro, per
studiare violino. Ma già gli esplodeva la voce fra i muri domestici,
quella voce che - salvo pochi anni al conservatorio della città -
lui avrebbe coltivato da autodidatta, fino a scurirla in toni da
baritono. E poi l'esordio, con la Cavalleria, a Cagli, nel 1938. I
sette anni di servizio militare, la Butterfly, la Bohème, la
Traviata, perfino il Rigoletto, in decine di recite destinate al
mistero per assenza di incisioni. Poi il successo degli anni
Cinquanta, l'approdo al divismo, gli applausi infiniti riscossi
insieme alla Callas, alla Tebaldi, alla Simionato. E i dischi (il
primo è del 1947), che faranno di Del Monaco una specie di padre
fondatore della Decca (etichetta per cui incise ben 28 opere) e che a
tutt'oggi hanno un giro d'affari che sfiora i quattro miliardi l'anno. Ma, soprattutto, l'incontro fatale con Otello.
Davvero, fatale
è dir poco. Poiché quell'incontro segnò l'identità del tenore
più di quanto la vista del Partenone abbia segnato l' esistenza di
Le Corbusier. Fu a Buenos Aires, al teatro Colon, nel luglio del
1950. Del Monaco aveva accettato di cantare Otello - un'opera
prudentemente disertata dai grandi, Gigli e Caruso compresi - perché
sapeva che quell'opera poteva essere per lui "un fantastico
trampolino di lancio", come confessò nella sua autobiografia
(La mia vita, i miei successi, apparsa da Rusconi proprio l' anno
della sua morte). Una sfida, tanto per essere in tema con se stesso.
Ma anche gli eroi, davanti alle grandi sfide, possono tremare. Alla
vigilia della prima, resosi conto che quell' opera è "al limite
delle possibilità umane", Del Monaco dà forfait, non ce la fa.
Provano a rassicurarlo in due, il maestro Votto e la moglie Rina. E
lui guadagna una sorta di apnea, quanto basta per entrare in scena.
E' un trionfo. Di più: è quasi una sospensione di consapevolezza,
un sogno di totalità, un'apparizione del tenore a se stesso. Da
quell'Otello in poi, il cantante prenderà a specchiarsi nel suo
mito, a nutrirsi anche d'improntitudine. Sarà Otello comunque,
perché Otello è vincente. Sarà Otello per sempre. Quando nel 1975,
con I Pagliacci a Vienna, si ritirerà dalla scena, fra le quasi
tremila recite sostenute nella sua vita si conteranno ben 427 Otelli.
Ma non si potranno contare tutte le altre - che Otello non sono -
alle quali Del Monaco avrà iniettato comunque il pathos dell' eroe
verdiano. "Certo, un Otello come quello di Del Monaco non c'era
mai stato prima, e probabilmente non ci sarà mai più"
interviene la signora Raggi Valentini. "E questo, probabilmente,
perché si tratta di un'opera che richiede quasi una doppia
vocalità, baritonale e tenorile. Ma questo non significa che lui non
sia stato un grande in tutte le opere. Semplicemente perché aveva
tutto: vocali, recitativo, acuti, la voce importante nel centro... E
poi Del Monaco era straordinario in questo, nell'essere allo stesso
tempo un grande cantante e un grande attore. Ciò che è davvero
raro, perché di solito si è o l'uno o l'altro. Gigli, ad esempio,
aveva una gran voce, ma presenza scenica zero".
"Stia a
sentire: mio padre è stato il migliore in Otello, Chénier,
Pagliacci, Forza del destino, Fanciulla del West, Cavalleria, Norma,
nel tardo Verdi, nel verismo e nel Puccini drammatico", riparte
Giancarlo Del Monaco, zittendo la tifoseria del club, che monta a
ogni obiezione del cronista. "Il suo Otello resta inarrivabile,
e lo sa perfino il mio amico Pavarotti, che sono andato a trovare
quando stava montando l'Otello con Solti e mi ha detto: ' Guarda che
se fosse vivo tuo padre io quest' opera non la canterei' . Ma è
chiaro che ciascuno ha un suo repertorio, e che mio padre non sarebbe
stato il più adatto a fare l'Elisir d' amore. Tutta la vita i
critici suoi nemici lo hanno accusato di non saper cantare piano. Ma
cos'è il cantar piano di un tenore drammatico, di uno che in scena
è perennemente sul punto di uccidere o di uccidersi? Certo non è un
piano alla Di Stefano: quando Verdi fa cantar piano Otello è come se
cercasse di domare un leone. Insisto, è solo una questione di
repertorio. E non ha senso che Celletti dica di preferire Lauri Volpi
a Del Monaco, perché Lauri Volpi era un'altra cosa, e cioè un
tipico tenore di gusto ottocentesco. No, mi creda: Celletti è un
nemico storico di mio padre, proprio come Hanslick lo fu di Wagner.
Il signor Celletti va in brodo di giuggiole solo per la musica dei
castrati, e se gli accenni due note della Cavalleria gli prende un
tremito di paura. In altre parole, scarica su mio padre le colpe di
un repertorio che non ama. Ma io lo invito, lo sfido - se ha il
coraggio - a una discussione seria sulla figura di Del Monaco".
'
Dopo di me il diluvio
Lessico familiare, un' altra sfida ancora.
Di qui non si passa. E a poco serve tentar la scorciatoia, un po'
pettegola, del caratteraccio, della presunta antipatia, della
captatio malevolentiae che tanto attraevano il divismo del nostro.
"Non sono un tenore, ma una cooperativa di tenori", amava
dire di sé. Oppure, semplicemente, "dopo di me il diluvio".
O, ancora, si definiva "un Michelangelo del canto". E
girava con la sua Rolls Royce bianca per le vie di Roma vestito da
texano, brandiva il pugno in scena contro i loggionisti avversi,
liquidava le critiche all'insegna del narcisismo con una battuta:
"Piccole voci, piccoli problemi. Grandi voci, grandi problemi".
E poi il mal di dandy, quel suo mostrarsi sempre vestitissimo, l'esibizione del lusso, la villa mausoleo di Lancenigo...
Tutto bene,
comunque? Certo che sì, ribattono i tifosi. Poiché è normale che
un vero divo sfoggi la provocazione, che un figlio della guerra
ostenti il risultato, mostri la rabbia della sua rimonta. Ed era
buono, Del Monaco, ti giurano. Istrione ma buono. Regalava soldi,
adottava bambini, era religiosissimo.
Viva Mario Del Monaco, dunque,
dieci anni dopo e sempre. Smagliante e vanitoso, il suo Otello è
lontano. E più lontani ancora sono i momenti di gloria, le collere e
i delirii senza psicologia. ma quella è in ogni caso una stagione
che ha senso solo ricordare intera.
"la Repubblica", 7 ottobre 1992
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