Il
testo che segue, poco conosciuto e poco citato anche dagli studiosi
di Italo Calvino, rientra in una serie di interviste che, alla
vigilia delle elezioni politiche del 1963, il quotidiano del PCI
“l'Unità” realizzò tra letterati e uomini di cultura, affidando
l'incarico a diversi redattori e collaboratori. A Giorgio Frasca
Polara, per esempio, toccò l'intervista a Leonardo Sciascia, a Paolo
Spriano, destinato a diventare uno storico importante, quella che
segue, a Calvino. A volte si trattava di mere dichiarazioni di voto
in appoggio alla campagna elettorale del Pci, ma più spesso le
risposte contenevano elementi di riflessione e di critica, ponendo a
loro volta delle domande politiche al partito di Togliatti.
Così
in questo caso.
Italo
Calvino era uscito dal Pci nel '57, dopo che i carri armati sovietici in
Ungheria e la feroce repressione della rivolta operaia avevano gelato le speranze di grande riforma del comunismo internazionale. Già da prima
il suo percorso di scrittore si era progressivamente allontanato dai canoni
del neorealismo e del nazionalpopolare che, seppure a maglie larghe e
senza obblighi o sanzioni, restavano la linea ufficiale del partito
nella politica culturale. La pubblicazione all'inizio del 1963 de La
giornata di uno scrutatore (il
mio amico Vincenzo Vasile la colloca con ottime ragioni non solo al
vertice dell'opera di Calvino, ma della letteratura italiana del
Novecento), aveva
riportato
lo scrittore alla realtà contemporanea dopo la riscrittura delle
Fiabe italiane
e le parabole illuministiche della “trilogia degli antenati”; ma
quel racconto rappresentava in realtà la negazione radicale
dell'engagement
frontista.
Pur amareggiato e ferito da quegli eventi lo scrittore non cessa di
partecipare alla vita politica italiana. Nel 1961, per esempio, è
tra i primi ad aderire all'appello di Capitini per la Marcia della
Pace ed il 21 settembre sarà in prima fila a marciare sulla strada
tra Perugia e Assisi. Proprio nella Giornata
di uno scrutatore aveva
messo in bocca ad Amerigo, il protagonista di quel racconto lungo,
parole che potevano applicarsi a lui: “... nella politica come in
tutto il resto della vita, per chi non è un balordo contano quei due
principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di
credere che ogni cosa che fai potrà servire”.
Italo Calvino certamente guardava con interesse al progressivo avvicinarsi del Psi all'area di governo, al processo di unificazione socialista, al progetto riformista del costituendo centro-sinistra. Ma era profondamente convinto che i conati riformistici si sarebbero arenati senza la forza operaia rappresentata soprattutto dal Pci.
È quello che avrebbe scritto a Norberto Bobbio nell'aprile del '64: “... ebbene sì, sono riformista. O più precisamente: credo che oggi (e forse soltanto oggi) si possa cominciare a considerare un riformismo che non cada nella trappola tante volte denunciata dalla polemica rivoluzionaria, cioè nel sistema della classe dominante. Perché si salvi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale (…) cioè il riformismo riuscirà solo se saranno i comunisti a guidarlo”. In quella lettera aggiungeva che non andava dimenticato “il valore universale dell'antitesi operaia quale il marxismo l'ha proposta” ed esprimeva l'aspirazione di “salvare la capra dell'universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi di un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili”. La lettera in verità dava forma a quanto c'era già, esplicitato con molta chiarezza, nell'intervista qui "postata", e rilasciata un anno prima, nel marzo del 1963.
Giova forse un po' di contestualizzazione. Quelle elezioni seguivano il primo esperimento di centro-sinistra, il governo tripartito Dc-Pri-Psdi guidato da Fanfani dal febbraio 1962, con l'appoggio esterno del Psi di Nenni. Alla sua nascita il Pci di Togliatti non aveva votato contro, ma aveva decretato una “astensione critica”. Quel primo centro-sinistra aveva tra l'altro realizzato la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la scuola media unificata. Ma questo primo impulso accentuò l'opposizione di Confindustria e dei ceti proprietari, che divenne durissima dopo la presentazione del progetto di riforma urbanistica che bloccava, attraverso il regime pubblico dei suoli, la speculazione fondiaria. Già sul finire del 1962 il progetto del centro-sinistra sembrava essersi arenato.
Durante la campagna elettorale della primavera 1963 la Dc – ricattata dalla conservazione – confermava il progetto di accordo politico con il Psi, ma metteva la sordina e il freno ai programmi di riforme. Ciò non impedì al Pli di Malagodi, il partito che più direttamente esprimeva gli interessi della grande proprietà, un qualche protagonismo. Questo spiega il senso dell'intervista a Calvino, che – senza neppure esplicitare una dichiarazione di voto – auspica una avanzata del Pci, per controbilanciare la prevista ondata di destra (poi non verificatasi nelle dimensioni temute).
E tuttavia la parte più interessante dell'intervista non è qui: è piuttosto nell'idea di un riformismo ove l'intervento dall'alto si connetta alla partecipazione dal basso e trovi in essa linfa e sostegno. (S.L.L.)
Italo Calvino certamente guardava con interesse al progressivo avvicinarsi del Psi all'area di governo, al processo di unificazione socialista, al progetto riformista del costituendo centro-sinistra. Ma era profondamente convinto che i conati riformistici si sarebbero arenati senza la forza operaia rappresentata soprattutto dal Pci.
È quello che avrebbe scritto a Norberto Bobbio nell'aprile del '64: “... ebbene sì, sono riformista. O più precisamente: credo che oggi (e forse soltanto oggi) si possa cominciare a considerare un riformismo che non cada nella trappola tante volte denunciata dalla polemica rivoluzionaria, cioè nel sistema della classe dominante. Perché si salvi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale (…) cioè il riformismo riuscirà solo se saranno i comunisti a guidarlo”. In quella lettera aggiungeva che non andava dimenticato “il valore universale dell'antitesi operaia quale il marxismo l'ha proposta” ed esprimeva l'aspirazione di “salvare la capra dell'universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi di un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili”. La lettera in verità dava forma a quanto c'era già, esplicitato con molta chiarezza, nell'intervista qui "postata", e rilasciata un anno prima, nel marzo del 1963.
Giova forse un po' di contestualizzazione. Quelle elezioni seguivano il primo esperimento di centro-sinistra, il governo tripartito Dc-Pri-Psdi guidato da Fanfani dal febbraio 1962, con l'appoggio esterno del Psi di Nenni. Alla sua nascita il Pci di Togliatti non aveva votato contro, ma aveva decretato una “astensione critica”. Quel primo centro-sinistra aveva tra l'altro realizzato la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la scuola media unificata. Ma questo primo impulso accentuò l'opposizione di Confindustria e dei ceti proprietari, che divenne durissima dopo la presentazione del progetto di riforma urbanistica che bloccava, attraverso il regime pubblico dei suoli, la speculazione fondiaria. Già sul finire del 1962 il progetto del centro-sinistra sembrava essersi arenato.
Durante la campagna elettorale della primavera 1963 la Dc – ricattata dalla conservazione – confermava il progetto di accordo politico con il Psi, ma metteva la sordina e il freno ai programmi di riforme. Ciò non impedì al Pli di Malagodi, il partito che più direttamente esprimeva gli interessi della grande proprietà, un qualche protagonismo. Questo spiega il senso dell'intervista a Calvino, che – senza neppure esplicitare una dichiarazione di voto – auspica una avanzata del Pci, per controbilanciare la prevista ondata di destra (poi non verificatasi nelle dimensioni temute).
E tuttavia la parte più interessante dell'intervista non è qui: è piuttosto nell'idea di un riformismo ove l'intervento dall'alto si connetta alla partecipazione dal basso e trovi in essa linfa e sostegno. (S.L.L.)
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I limiti del
riformismo borghese nell’Europa occidentale e in America — La
prospettiva della coesistenza pacifica - I comunisti chiave di volta
dello schieramento popolare
TORINO,
marzo
Una
conversazione politica con Italo Calvino parte sempre da una
discussione sulle grandi linee storiche del mondo contemporaneo.
Proprio su questi aspetti generali Calvino in questi ultimi anni ha
avuto occasione di scrivere saggi, corrispondenze di viaggio,
interventi di carattere culturale e politico.
Come vedi la
situazione rispetto a qualche anno fa?
I
dati di fondo della situazione non sembrano mutati, anzi rimangono
confortanti. Il processo di avvio alla coesistenza pacifica tra i due
Grandi è continuato anche se non ha fatto passi avanti decisivi; un
fatto sintomatico è che oggi sia possibile considerare anche il Papa
tra coloro che si adoperano per creare un clima di distensione.
Quando però passiamo dalla valutazione delle tendenze storiche più
generali alla analisi delle situazioni particolari, ci saltano agli
occhi numerosi fattori negativi in contraddizione con una prospettiva
ottimistica a lunga scadenza. Questa Europa occidentale offre una
vista nient’affatto rassicurante. Qui in Italia ci siamo un po’
abituati a considerare lo sviluppo industriale di tipo
neo-capitalistico e il riformismo democratico di tipo centrosinistra
come due fenomeni paralleli. Ma nel resto d’Europa non è affatto
così: il nuovo sviluppo economico-tecnologico si accompagna a una
strutturazione autoritaria dello Stato sulla linea De
Gaulle-Adenauer. La stessa Spagna di Franco in una prospettiva di
questo genere finirebbe per trovare nuove chances di sopravvivere.
Anche in America, del resto, una linea di coesistenza pacifica e
l’ideologia kennediana di riformismo democratico, nel quadro
borghese, sono insidiate continuamente dai gruppi reazionari
nord-americani. Nel mondo borghese — si potrebbe quindi
sintetizzare — le minoranze riformiste e progressiste sono
condizionate, anche quando riescono a porsi alla testa della
direzione politica dalle ali più reazionarie, cui sono tenute
continuamente a dare assicurazione che le fondamenta del capitalismo
non saranno scosse e di cui insomma devono subire continuamente il
ricatto.
E nel mondo
socialista?
La
politica kruscioviana di coesistenza pacifica è andata avanti, e mi
pare indiscutibile che essa debba fornire la linea strategica di
tutto il mondo socialista. Appunto per questo, per le implicazioni
che questa linea strategica dovrebbe avere sui vari piani, si rimane
preoccupati da una atmosfera che si è creata in queste ultime
settimane e che ha avuto manifestazioni rilevanti nelle riunioni di
Mosca con gli scrittori e gli artisti. La polemica sulla libertà
delle espressioni artistiche è solo un aspetto di queste riunioni, a
mio parere. Nell’URSS la letteratura è una tribuna dell’opinione
pubblica e quindi un conflitto tra potere socialista e scrittori, che
si risolva in un giro di vite dato alle possibilità di critica,
diventa ancor più negativo perché segna un arresto o un passo
indietro in un processo che sembrava portare a una maggiore
dialettica tra potere e opinione pubblica.
Secondo te, a che
punto stiamo in Italia, nel rapporto tra spinte democratiche e
resistenze conservatrici?
Mi
pare che in Italia, oggi come per il passato, la maggiore, e forse
l’unica garanzia per non avere dei ritorni di involuzione
reazionaria, e per smuovere qualcosa nel senso di una
democratizzazione e modernizzazione dell’apparato statale e della
vita sociale, resta la esistenza di una forte opposizione di
sinistra, di una sinistra operaia, con tutte le sue forze politiche,
sindacali, associative. Si sa che questa forza propulsiva della
sinistra operaia, senza la quale il centro-sinistra si ridurrebbe a
una vana etichetta, ha la sua chiave di volta nei comunisti. Oggi
l’anticomunismo patologico è in ribasso: la polemica politica e
giornalistica si va riconducendo ai reali motivi di classe. I
conservatori scendono in campo apertamente per difendere gli
interessi della grande proprietà monopolistica, e i voti
conservatori probabilmente si gradueranno stavolta anche a destra
della DC. Sarebbe grave se un — sia pur leggero — aumento di peso
specifico della destra malagodiana e confindustriale in Parlamento
non fosse controbilanciato o — speriamo — sopravanzato, da un
irrobustimento a sinistra.
Quali ti sembrano, sul
piano sociale, i compiti concreti più importanti di una forza di
opposizione di sinistra?
Oggi
lo sviluppo tecnico- industriale consente certamente possibilità di
maggiore benessere, ma se questo benessere rimane sul piano di
maggiori consumi, in un paese così povero e arretrato sul piano
delle strutture, esso rimarrà in larga misura fittizio. Potremmo
dire che il benessere del popolo è veramente in aumento non solo
quando si sia accresciuto l’esercito dei consumatori di frigoriferi
o di lavatrici, ma quando vi siano larghe disponibilità di scuole
per la istruzione, una efficace organizzazione sanitaria, quando si
creerà un ambiente urbanistico non da formicaio. E qui si inserisce
il problema dello sviluppo della cultura. Il tanto vantato «boom»
librario è ancora ben lontano da segnare un aumento del livello
culturale degli italiani. Una nazione in cui a leggere è ancora solo
una minoranza della popolazione concentrata soprattutto nelle grandi
città, in cui le possibilità di diffusione della produzione
letteraria e culturale più elevata sono condizionate dalla mancanza
di un vasto terreno di una cultura di base generalizzata, una nazione
in cui la cultura di massa si espande solo sul piano dello
spettacolo, in cui le biblioteche sono quasi esclusivamente una
istituzione universitaria, è una nazione in cui un piano di sviluppo
culturale diventa sempre di più una necessità fondamentale.
E dal punto di vista
delle libertà politiche?
La
cosa più allarmante è che, mentre tante cose mutano in Italia, non
vediamo segni di cambiamento nel rapporto tra il cittadino e lo
Stato, né in quelle istituzioni e persone che rappresentano lo Stato
di fronte al cittadino. C’è in atto una specie di
controrivoluzione preventiva dei vecchi funzionari conservatori
contro il nuovo clima, che prende le forme più vistose, isteriche,
patologiche, nei sequestri recenti, nelle condanne della
Magistratura, ma che insidia ben altro che un film o un libro. Anche
qui la cultura non è che il simbolo di una battaglia per far sì (o
per impedire) che lo Stato diventi lo strumento d’una democrazia
moderna.
E hai qualche idea sul
come dovrebbe oggi strutturarsi questo processo di democratizzazione?
Finché
le programmazioni e le riforme vengono dall’alto e sono
condizionate solo agli interessi dei gruppi di potere economici e
politici, è ragionevole il timore che ci troveremo di fronte a un
seguito di compromessi e di occasioni mancate. In una situazione di
questo genere, sarà necessario che le forze di opposizione trovino
nuove vie per far sì che la partecipazione popolare dia la sua
impronta alla impostazione e alla soluzione dei singoli problemi. La
lotta politica dovrà farsi più specifica, pur senza perdere il
mordente dei grandi temi generali. Sarà una nuova saldatura tra
intellettuali e masse che si dovrà attuare, e un nuovo rapporto con
gli strumenti del potere politico, dal parlamento alle commissioni
tecniche. Si sta delineando una nuova figura di quadro
intellettuale-tecnico, ma non soltanto tecnico, cui dovrà andare una
autorità sempre maggiore nell’elaborazione delle soluzioni
pratiche (e non soltanto nei settori della programmazione economica, ma in tutte le strutture della vita civile). Se questo quadro
deriverà la sua autorità solo da quella dei detentori del potere
politico o — peggio — del potere economico, s’accorgerà presto
d’avere le mani legate. Solo se potrà rendersi interprete d’una
coscienza delle masse e valersi della loro pressione organizzata, si
metterà finalmente in moto una dialettica democratica capace di dare
risultati pratici.
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