27.7.18

È saltata la catena. L'Italia non è paese per ciclisti (Massimo Bongiorno)


Poeti, santi e navigatori possono stare tranquilli. Nessuno ruberà loro la scena, tanto meno pedalando: l’Italia non riesce proprio a diventare un paese per ciclisti. Quindici anni buoni di “movimentismo a pedali” – tra Critical Mass, Ciclofficine popolari e grandi manifestazioni – hanno trovato solo a tratti, e prevalentemente a livello locale, una risposta dalla politica.
Il Nuovo codice della strada, che raccoglie molte delle istanze portate avanti da questo mondo, è fermo da due anni in Senato con ottime probabilità di restarci ancora a lungo, se non per sempre. E non se la passa meglio, alla Camera, la Legge quadro sulla ciclabilità, che continua a rimbalzare in cerca di coperture dal 2014.

Più piste per tutti
Certo, è vero che tra il 2008 e il 2015 le ciclabili italiane sono cresciute del 50%. Ma a parte che tutte insieme non arrivano ad un decimo della rete tedesca (poco più di quattromila km contro oltre 50 mila), si tratta troppo spesso di ghetti senza manutenzione e strozzati dal traffico a motore.
«La chiave di tutto, il primo obbiettivo, è togliere spazio alle automobili nelle città. Le infrastrutture da sole non portano da nessuna parte», sostiene Alberto Fiorillo, responsabile aree urbane di Legambiente, recitando sostanzialmente l’inascoltato mantra di tutte le diverse componenti del “movimento a pedali”.
È un fatto che le città italiane restino in larghissima parte ostaggio delle automobili, con tutto quello che ne consegue. La velocità media nei congestionati centri urbani oscilla intorno ai 15 km orari, 7-8 nelle ore di punta: meno della metà che in bicicletta ed esattamente la stessa raggiunta a fine ’700, quando si andava al massimo in carrozza.
Nella speciale classifica sulla “ciclabilità” stilata dalla Ecf (la lobby delle associazioni di settore nell’Ue a 28, basata a Bruxelles) l’Italia occupa la poco lusinghiera 17ma posizione. Fatta eccezione per alcune realtà virtuose, che “danno del tu” a capitali della bicicletta come Copenaghen e Amsterdam, i numeri di chi in Italia sceglie di spostarsi pedalando restano davvero poca cosa: da 10 anni la media nazionale – rispetto al totale degli spostamenti urbani – è inchiodata al 3,6%.

L’occasione persa
«Sembra una ovvietà, ma l’Italia resta un paese costruito sull’automobile, con una sedimentazione di strutture culturali, sociali ed economiche refrattarie al cambiamento. Voltare pagina è difficilissimo», dice Paolo Bellino, giornalista, attivista della prima ora e tra i fondatori di #salvaiciclisti – l’associazione che, per un momento durato purtroppo non abbastanza a lungo – è riuscita a raccogliere e rappresentare in modo trasversale quasi tutto il movimentismo a pedali nazionale.
C’è un’immagine che ritrae benissimo quel momento. Risale al 28 aprile 2012, un sabato pomeriggio di cinque anni fa. Quando cinquantamila ciclisti invadono pacificamente il centro di Roma, trasformando per oltre 4 ore via dei Fori Imperiali nella scena di in un gigantesco happening “BikePride”. È la più grande manifestazione del genere in Italia, non era mai successo nulla del genere prima e non sarebbe più successo nulla del genere dopo.
Per arrivarci erano serviti quasi 12 anni di lavoro, dal basso. Dal debutto delle ciclofficine popolari – Bulk a Milano e Macchia Rossa nella Capitale, luoghi di scambio di competenze dove si impara materialmente ad aggiustare o a costruire una bicicletta totalmente al di fuori di qualsiasi logica commerciale.
Fino alle prime Critical Mass, nate sull’onda di quelle americane: raduni di ciclisti autoconvocati con la logica dei flashmob per raggiungere una (appunto) massa critica capace, spostandosi, di togliere spazio alle auto. In una manciata di anni in tutta Italia fioriscono centinaia di iniziative e associazioni, in un clima di contaminazione continua tra istanze ambientaliste, messaggi politici antagonisti e – anche – la semplice codificazione di nuove mode urbane (l’hipster barbuto in sella alla bici fixed è diventata un’icona quasi trita).

Confusione sotto il cielo
Ma è proprio l’eterogenea ricchezza di questo caleidoscopio di iniziative, per assurdo, la sua debolezza. Ad un certo punto il dialogo tra le componenti più “movimentiste” e i vecchi “senatori” come Legambiente o la Fiab (Federazione Italiana Amici Bicicletta), si fa difficile. Affiorano ruggini, stanchezze, che spesso diventano frammentazioni partitiche da manuale Cencelli.
Ancora una volta Milano e Roma sono le due realtà più emblematiche. I cambi della guardia a Palazzo Marino non hanno intaccato la sostanziale continuità nella politica di stop alle auto.
Oggi l’8% degli spostamenti sotto la Madonnina avviene in bicicletta e la città ha il record nazionale di bike sharing, sia per numero di operatori che di mezzi. Anche se fa discutere la recentissima comparsa di due nuovi operatori cinesi, con 12mila biciclette offerte a tariffe bassissime e a parcheggio completamente libero, senza stalli: una modalità che sta già creando grossi problemi, gli stessi per i quali Amsterdam ha proibito questo tipo di noleggio.
Nella Capitale invece, dove in percentuale rispetto a Milano si muove in bici la metà degli abitanti e non esiste il bike sharing, ogni amministrazione riparte quasi da zero. La vicenda del GRAB, il progetto della ciclovia del grande raccordo anulare che sarà finanziato dallo Stato, è una cartina da tornasole: un tempo bandiera di tutto il movimento, oggi vede schierati su opposti fronti Legambiente, la giunta capitolina e #salvaiciclisti. Con tutte le immaginabili conseguenze.
Nonostante questo, gli spostamenti in bicicletta a Roma sono passati dallo 0,4% del 2008 a quasi il 4% nel 2012, per poi assetarsi sulla media nazionale del 3,6: Bolzano, Pesaro e Ferrara, a un passo dal 30%, sono irraggiungibili, ma il dato romano – se si considera la dissestata viabilità cittadina – ha del miracoloso.

Cresce il mercato
Intanto il mercato cresce. Nel 2012 per la prima volta il numero di biciclette vendute (1.750.000 pezzi) supera quello delle automobili. Oggi, il fatturato complessivo del settore vale – stando all’ultimo report di Legambiente – oltre 6,2 miliardi di euro. Dentro non ci sono solo le bici (di cui il nostro Paese resta saldamente primo produttore europeo davanti alla Germania con quasi 2,5 milioni di telai/anno) ma anche tutta una serie di economie di scala legate alla salute, all’ambiente e, soprattutto, al turismo. Anzi: al cicloturismo.
E sembra essere solo questa la parola magica per Palazzo Chigi: il cicloturismo. L’unico tema attorno al quale la politica nazionale, attraverso il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha veramente detto qualcosa di concreto: un grande programma di 10 ciclovie, estese per qualche migliaio di chilometri lungo tutta la penisola, che prevede 750 milioni di stanziamenti fino al 2024. Sono stati appena finanziati i progetti di fattibilità delle prime quattro, shortlist in cui rientra il GRAB: esattamente il progetto su cui a Roma è già volato più di qualche straccio. Incrociamo le dita.

"Pagina 99", 3 novembre 2017

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