14.7.18

“Il mio Pci, la Bolognina e quel cambiamento che ci tradì”. L'ultima intervista ad Alessandro Natta (Marcello Rossi)

Alessandro Natta

Un paio di settimane dopo la morte di Alessandro Natta “l'Unità” pubblicò l'ampio stralcio che qui riprendo di un'intervista di Marcello Rossi, direttore de “Il Ponte”, l'ultima rilasciata dall'ex segretario del Pci. L'intervista comparve nella sua forma integrale sul numero 5/2001 della rivista fiorentina, fondata da Piero Calamandrei. (S.L.L.)

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Marcello Rossi
Alessandro Natta lo avevo incontrato, con Piero Belleggia e Roberto Passini, il 24 febbraio di quest'anno a Imperia o, come diceva lui, a One-glia. Siamo stati insieme tutto il giorno e lui ha parlato, per quanto affaticato dall'enfisema che l'opprimeva, in continuazione. Ci ha detto di Oneglia e di Buonarroti, dei giacobini e delle ricerche che aveva fatto in tal senso; della sua vita in Normale, del suo primo avvicinarsi alla politica e al Partito comunista; della prigionia e poi della piena militanza politica. Questo al ristorante, tra una portata e l'altra, ma lui ha molto più parlato che mangiato. A casa sua, poi, abbiamo registrato l'intervista. Ci siamo lasciati con il proposito di reincontrarci per commentare le elezioni politiche: non c'è stato il tempo. C'eravamo sentiti per telefono ai primi di maggio, quando gli avevo inviato per posta questa intervista per avere il suo placet e lui si era rallegrato con me per l'ottimo lavoro che, mi disse, rifletteva a pieno il suo pensiero. Non gli era mai capitato, aggiunse, di non dover mettere le mani su un'intervista. «Non t'immagini -disse - cosa talvolta mi hanno fatto dire!». Proprio in quella telefonata avevamo riconfermato l'impegno di incontrarci subito dopo le elezioni. Stavo programmando una nuova gita a Oneglia, quando la radio ha dato la notizia della sua morte. (Marcello Rossi)


On. Natta, il trapasso dal Pci al Pds si poteva fare in altro modo, usando proprio della specificità del Partito comunista?
Specificità non solo del Partito comunista, ma italiana. E introduco subito in questa riflessione sul passato dei comunisti - ma anche dei socialisti e della sinistra italiana - questo elemento della specificità. Vi sono state una, due, tre Internazionali, vi sono stati partiti socialisti, socialdemocratici, comunisti, ma guai a dimenticare che in questo universo, che intendeva coniugare libertà ed eguaglianza, vi sono state identità e differenze. Ogni paese, pur partecipando a un movimento con caratteristiche internazionali, ha avuto una sua storia. Il Partito socialista italiano, per esempio, non è stato il Partito socialista francese o il Partito socialdemocratico tedesco. Non lo è stato nella prima fase - nell'Ottocento - non lo è stato di fronte a una questione cruciale quale la Prima guerra mondiale. Voglio dire che proprio di fronte al problema della guerra le differenze si sono fatte evidenti e sono divenute costitutive delle identità dei diversi partiti. I due maggiori partiti della socialdemocrazia europea, quello francese e quello tedesco che sono crollati - questo è il termine - di fronte alla guerra, hanno sposato la causa - come si diceva allora - della borghesia del proprio paese, hanno, cioè, accettato e combattuto la guerra. Ci sono stati al loro interno i dissidenti, naturalmente, ma la socialdemocrazia tedesca è andata in larga misura dietro ai governi tedeschi, e i socialisti francesi si sono schierati dietro i governi francesi e hanno fatto il possibile e l'impossibile, pur non riuscendovi, per trascinarsi dietro anche il Partito socialista italiano.
Così la posizione del Partito socialista italiano, discutibile quanto si voglia, è stata una singolarità. Si può anche fare dell'ironia sulla formula di Lazzari (non di Serrati, che era piu radicale), ma il «non aderire, non sabotare» rappresentava senza dubbio una singolarità. Il Partito socialista italiano non era guerrafondaio e ha alzato la bandiera del neutralismo e del pacifismo; il suo giornale, "l'Avanti!", proprio in questo periodo e per queste posizioni del partito è diventato un grande giornale. Vi sono state quindi delle specificità sulle quali, forse, bisogna ancora oggi riflettere.
Quando, dopo la guerra, nasce il movimento suscitato dalla rivoluzione d'Ottobre - che, al di là del bilancio sul comunismo sovietico, è un fatto epocale che domina la storia del mondo per quasi un secolo - in quel momento anche il Partito socialista italiano vive un dramma, ma in modo italiano. Serrati rivendica, e ritengo giustamente, una propria autonomia rispetto al partito russo che è vincente. Tutti aderiscono all'Internazionale, anche Turati: sono tutti d'accordo per una ripresa, una rinascita, un ricominciamento. Serrati vuole fare questo nel rispetto di una tradizione e di un'identità. Penso che avesse ragione. Quando a Livorno non vuole rompere e, di conseguenza, non vuole cacciare Turati dal partito, fa un ragionamento ineccepibile. Chi sbaglia è Bordiga, ma Bordiga, che non obbediva a Lenin - come qualcuno potrebbe pensare - era uno che aveva una testa quadrata e ragionava di testa sua.

Tornando al presente, o al passato prossimo, si può affermare che l'operazione della Bolognina non abbia tenuto conto di questa specificità italiana e confuso il comunismo italiano col comunismo sovietico? Che sia stato, in altre parole, un errore di cultura?
Secondo me, sì. Evidentemente Occhetto non ha ripercorso con una visione storica il nostro passato o non ha vissuto bene la nostra storia, che è stato un tragitto difficile e travagliato, certo, ma non costellato solo di errori. C'è chi dice: «nel '21 avete sbagliato». Si può essere d'accordo, ma nel '45? Abbiamo sempre sbagliato? E come è possibile che un partito, sbagliando sempre, riesca a costruire la forza che abbiamo costruito e a essere un cardine della politica italiana, nazionale e internazionale?

Un partito che ha dato il maggior apporto, insieme al Partito d'Azione, alla Resistenza e che, combattendo il fascismo, ha ripristinato in Italia la libertà.
Appunto. Che siamo stati la forza più ostinata contro il fascismo, spero che non ci sarà negato. È vero che qualcuno cerca di far credere che Gramsci sia morto in prigione per volere di Togliatti e non di Mussolini, ma queste sono amenità. Sta di fatto che l'apporto del Partito comunista alla Resistenza non si può né negare né cancellare. E che questo Partito comunista, uscito dalla lotta di Liberazione, sia stato un cardine della costruzione del regime democratico in Italia ri-mane un dato di fatto.

Si può dire che, in questo senso, il Partito comunista in Italia è stato quello che in Europa era la socialdemocrazia?
Su ciò non ho alcun dubbio. Quando sono stato segretario del partito, e per ragioni politiche sono andato in giro per il mondo, ho visitato anche i grandi paesi socialdemocratici, dalla Svezia alla Finlandia. E ho sempre detto: «Questo nostro partito comunista è un animale singolare. È, come diceva Togliatti, una giraffa». Non una giraffa rispetto agli altri partiti italiani - chi pensa questo fa finta di non capire il pensiero di Togliatti -, ma una giraffa rispetto agli altri partiti comunisti. Anche nel panorama della stampa comunista è difficile trovare una rivista come "Rinascita".
A mio avviso, è quindi addirittura evidente che in Italia noi siamo stati la forza socialdemocratica più consistente, con le idee più chiare, con la capacità di lotta maggiore.

E Saragat? E il partito socialista?
Saragat, per quanto ritengo che fosse un uomo in buona fede e di grande intelligenza, non è mai riuscito a costruire qualcosa che avesse l'aspetto, la consistenza, il richiamo di un partito vero. Quando, dopo il '56, siamo arrivati alla crisi dei rapporti dell'unità a sinistra, i socialisti hanno provato a creare in modo consistente, serio, una forza di carattere socialdemocratico attraverso l'intesa tra il Psi e il Psdi. Nenni e Saragat hanno avviato l'esperienza del centrosinistra e Togliatti con intelligenza disse: «Volete sfidarci? Accettiamo la sfida». E l'idea che era alla base del centrosinistra - non dimentichiamolo - aveva un duplice scopo: fare un'intesa con la Democrazia cristiana per diventare alternativi a questa e, nel contempo, lanciare in Italia una grande forza socialdemocratica per tagliare l'erba sotto i piedi al Partito comunista. Togliere ai comunisti l'egemonia nella classe operaia, togliere alla Democrazia cristiana il governo del paese. Progetto politicamente perfetto, che però non è andato in porto. Bisogna chiedersi il perché, ma sul serio, non con delle battute, non portando in campo Stalin e l'Unione Sovietica.
Dunque, perché il centrosinistra, con un progetto che doveva essere riformatore, un riformismo al quale noi comunisti mai abbiamo messo i bastoni fra le ruote, alle elezioni del '63 non ottenne i consensi che sperava e addirittura andammo avanti noi comunisti? Forse la gente aveva capito che eravamo noi a mirare a una soluzione socialista in termini di gradualismo e riformismo. Non abbiamo perso la testa neppure all'indomani della Liberazione, quando perfino qualcuno dei nostri amici e alleati più cari - alludo a quel grande maestro che fu Calamandrei - ci rimproverava di non aver saputo fare la rivoluzione. E anche oggi, se si legge Bocca, che è il rappresentante più tipico e piu onesto fra i giornalisti che derivano dall'azionismo, questo rimprovero torna.

Togliatti sapeva della divisione di Yalta.
Tutto il mondo sapeva che qui c'era l'esercito anglo-americano, e bisogna riconoscere a Togliatti il merito di avere avuto gli occhi aperti e di essersi reso conto che in Italia, con la presenza degli alleati, una rivoluzione era impossibile. Ma non è solo questo, perché Togliatti e il partito comunista avevano alle spalle un'elaborazione che veniva dall'esperienza delle sconfitte dell'Internazionale comunista. Ciò troppo spesso viene dimenticato.(...) Togliatti, che è un realista, non fa gli errori dei poveri comunisti greci, non dà la testa contro il muro. Sa, e continuerà a saperlo, che l'Unione Sovietica non avrebbe certo fatto una guerra per i comunisti italiani. Lo sa e si muove di conseguenza. Ma, al di là di questo, che è realismo e buon senso, c'è l'intelligenza di chi ha vissuto già una storia drammatica, tragica; di chi sa anche che cos'è l'Unione Sovietica, e per questo ricerca un proprio nucleo fondamentale di idee, staccato dall'Unione Sovietica, nucleo che è quello dell'unità della sinistra, del movimento operaio. Si delinea cosi il partito nuovo di Togliatti: un partito in cui possono stare sia i comunisti sia i socialisti.
Anche questo è qualcosa che molti fingono di non aver mai capito, ma il partito nuovo di Togliatti, che non piace a tutti i comunisti - non piace a Secchia, per esempio - è la novità su cui si dipana la storia del partito dal '45 all'89.

E la Bolognina ha tradito questa storia?
Sì, l'ha tradita, perché se un segretario non tiene conto di questa storia non tanto innova quanto stravolge. Del resto, Occhetto è arrivato ad avere nel partito una funzione importante quasi per caso. Berlinguer non lo voleva nella segreteria - e aveva ragione lui e torto io - perché riteneva che fosse un propagandista da strapazzo, uno che inventava dei begli slogan e niente più, ma con gli slogan, belli o brutti che siano, non si fa una politica seria, si fanno solo delle improvvisazioni.

Allora la Bolognina non è stata una critica all'Unione Sovietica.
Assolutamente no. Noi siamo stati la forza socialista, socialdemocratica - chiamiamola come si vuole - di maggior rilievo in Italia, siamo diventati via via più forti per questo, e abbiamo assunto, cosa ancora più straordinaria, una forza e un prestigio internazionali sfidando i comunisti russi. Anche questo è un capitolo che molti fingono di non sapere. Certo, noi non abbiamo mai fatto sceneggiate alla Occhetto. Berlinguer non è mai uscito sul balcone di Botteghe Oscure per dire che avevamo dichiarato «guerra» all'Unione Sovietica! Eppure poteva farlo! Al congresso dei comunisti russi sostenne che la democrazia è un valore universale. E anche questo non era una novità, perché già Togliatti aveva scritto in quella sorta di promemoria, di testamento, che non ci può essere socialismo senza libertà - e lo diceva a Krusciov, poveretto, che, tra l'altro, stava perdendo il posto.
Dunque, il Partito comunista italiano è stato questo. A un certo punto abbiamo «rotto», ma «rotto» cosa vuol dire? Mica abbiamo ritirato gli ambasciatori! Abbiamo detto che la politica dell'Unione Sovietica era sbagliata: era sbagliata in Afganistan, dove si è fatta una politica imperialistica, era sbagliata in Polonia. Abbiamo messo i sovietici alle corde e loro hanno hanno sostenuto che il socialismo reale era quello sovietico, mentre noi avevamo solo delle fantasie.
Ecco perché con Berlinguer abbiamo «inventato» l'eurocomunismo. L'abbiamo inventato con le forze che avevamo. Non potevamo far scendere in terra Marx o un qualche altro filosofo. Con le forze che avevamo abbiamo costruito una serie di iniziative politiche tali che i dirigenti sovietici sono stati costretti a sostenere che il socialismo reale era il loro e che noi fantasticavamo. Ma queste nostre «fantasie» ci hanno dato nel mondo un grande credito: abbiamo ripreso i rapporti con la Cina. E questo non perché ci piacesse il comunismo cinese, ma perché ritenevamo - e io lo ritengo ancora oggi - che anche con un partito come quello cinese bisognava avere dei rapporti.
Quando, morto Berlinguer, è venuto fuori il tentativo estremo, disperato, di Gorbaciov di cambiare le cose, noi abbiamo cercato di dargli una mano. Io sono stato criticato di essere stato troppo tiepido, di non aver dato aiuto sufficiente a Gorbaciov, ma avevo capito che Gorbaciov non ce la faceva. Ma non entriamo in questo problema.
Per tornare allo «strappo», ritengo che noi dovessimo continuare, con più energia se si vuole, la strada che avevamo intrapreso, una strada che, certo, ci portava sempre piu lontano dai tentativi dell'Unione Sovietica.
Nel 1989 abbiamo fatto un congresso. Io non ero più segretario, ma da persona per bene non me ne sono andato subito. Mi son detto: obbedisco alla regola dei frati francescani secondo cui, quando uno non è più priore, ritorna a fare il frate semplice. Segretario era Occhetto, che proveniva dalla sinistra del partito. Quando io, alla fine dell'87, decisi di proporlo come vice, indicando quindi una prospettiva, spaccai in due il comitato centrale perché Occhetto era gradito a Ingrao, ma era osteggiato da Napolitano e da tutti i «miglioristi» e i «riformisti».
Dunque, nel gennaio-febbraio dell'89 io ho aperto il XVIII congresso del Pci e Occhetto ha fatto una relazione tutta quanta fondata sull'idea che bisognava fare un partito nuovo, aprire un nuovo corso - il «nuovo» era speso a manciate nei suoi discorsi. L'unica cosa sulla quale, secondo lui, il nuovo non andava era il nome del partito: fece una tale difesa del nome che, quando alla fine della relazione mi si avvicinò e mi chiese com'era andata, io gli dissi: «è andata bene, ma sul nome potevi esagerare un po' meno».
Oggi mi viene da sorridere perché, al di là del nome, avevamo problemi molto più importanti da risolvere: i problemi della nostra collocazione e della nostra funzione. Non eravamo degli sprovveduti e sapevamo che, per andare avanti con l'intelligenza necessaria, era ormai difficile continuare a stare in gruppo con altri partiti comunisti. Sapevamo bene, nell'89, anche prima della caduta del Muro, che dovevamo organizzarci un po' diversamente. All'indomani delle elezioni abbiamo fatto una riunione della direzione in cui abbiamo discusso di questo problema e io ho detto: «Non c'è dissidio fra di noi sul fatto che il nostro approdo è al gruppo socialdemocratico europeo. Solo che dobbiamo prima risolvere alcune questioni. Per esempio, non possiamo approdare al gruppo socialdemocratico con l'atteggiamento dei questuanti o magari perché ci siamo rivolti a Craxi».
Non ho mai avuto dubbi sul fatto che dovessimo affrontare un cambiamento e che la cosa non fosse un problema da poco. Il Muro di Berlino, l'Unione Sovietica, Gorbaciov, un crollo ormai annunciato, erano tutte realtà che pesavano; solo che questo cambiamento avremmo dovuto farlo con più intelligenza e anche con più serietà, non partendo dalla questione meno importante, cioè dal nome e dall'inno. Se canti Bandiera rossa non credo sia un delitto. Ho mandato gli auguri a Ingrao per la fine e l'inizio di quest'anno divertendomi un po'. Gli ho scritto: «Caro Pietro, non pensi che sia venuto il momento di levare il vecchio grido "avanti popolo alla riscossa"? anzi, forse è meglio "aux armes, citoyens"!».

Non sono cose importanti, ma quando sono andati a scegliere il nome hanno scelto il peggiore possibile. Si sono dimenticati di mettere un minimo di accenno al socialismo: Partito democratico della sinistra non significa niente.
Niente, sono d'accordo. Ma tutto è stato giocato così in fretta da non permettere una riflessione seria. Ammesso, e non concesso, che come segretario del partito Occhetto ritenesse di non dover sentire il parere di nessuno, di due persone però doveva almeno sentirlo: uno era il suo amico Ingrao, che in quel momento era in Spagna; l'altro ero io, che ero anche presidente del Comitato centrale e quindi avevo anche un incarico istituzionale.
Noi non ne sapevamo niente e lui fa la sua uscita alla Bolognina. Il giorno dopo ritorna a Roma e viene nel mio ufficio a Botteghe Oscure. Gli dico: «Guarda che hai fatto una stupidaggine, ora dobbiamo andare in direzione e devi smentire». Risponde: «Ma allora devo dimettermi». Gli replico: «Certo, ormai abbiamo superato la sacralità che uno si dimette quando muore». Ma poi, non si può procedere nel cambiamento solo abbandonando un nome, che oltretutto era un nome onorato. I comunisti nella storia italiana -prima e dopo la Liberazione - sono stati uccisi e non hanno ucciso nessuno. Allora, se si parla di mostruosità, di crimini di cui dobbiamo pentirci, dico che questi crimini non sono nostri, ma di altri. Se poi si parla di linea, ricordo che al Congresso dell'86, a Firenze, ho detto, forse troppo timidamente, che il nostro partito era parte integrante della sinistra europea. Su questa linea ci dovevamo muovere, ma con un progetto serio.
Se invece ci si lascia andare alle idee del primo venuto si finisce per dire che il comunismo, anche il nostro, è stato un disastro e non resta che diventare socialdemocratici. Ma poi socialdemocratici come? Perché gli anni ottanta hanno rappresentato l'affermazione di un nuovo capitalismo aggressivo, forte, che ha dimostrato di avere delle carte da giocare, e sono stati anni di sofferenza, di debolezza, non voglio dire di ritirata, però d'inadeguatezza anche della socialdemocrazia. Allora, o si riesce a impostare quello che avevamo detto con Berlinguer, cioè la ricerca di una terza via, di nuove soluzioni, di un ripensamento anche delle esperienze socialdemocratiche, oppure ci si trova in balia del primo che esce, che ti dice che ti devi pentire. E i nuovi dirigenti del partito con questa loro idea del «pentirsi», in definitiva con questo loro complesso di inferiorità, hanno fatto delle scelte disastrose in campo politico-istituzionale. Nel '90, nell'ultimo congresso in cui ho parlato (ho parlato anche nel '91 ma solo per portare un saluto) li ho messi in guardia. Ho detto: «Non andate dietro a questo Segni. Il padre era un reazionario convinto, ma forte, questi è un reazionario debole e politicamente inconsistente. Non andate dietro ai referendum, al collegio uninominale. L'Italia ha già sperimentato la vicenda del collegio uninominale». Ma anche in questo i nostri dirigenti non sanno la storia e ci hanno riportato alle origini del partito socialista, quando Menotti Serrati voleva che il partito non fosse del candidato del collegio.

Cosa prevedi? Come si può ricostruire una sinistra?
Ritengo che le chances e le possibilità vi siano sempre, anche se sono stati fatti errori tali che sembrano rivelare un sorta di cupio dissolvi. Ritengo che il problema del socialismo e della sinistra si riproponga in pieno, in Italia e non solo in Italia, perché siamo di fronte a una realtà che non è accettabile e quando una realtà non è accettabile, gli uomini qualcosa inventano. Intendiamoci, io parto dalla consapevolezza che stiamo vivendo un'esperienza da privilegiati. Non sono uno di quelli che dicono: siamo sempre allo stesso punto. Guardando l'economia, constato che siamo lontanissimi da quello che era l'Italia nel '45, nel '50 o nel '60. Siamo oggi a un livello alto, anzi, sproporzionato, rispetto al resto del mondo. E qui si pone quel problema dello squilibrio delle condizioni dei popoli che negli anni settanta Berlinguer aveva cercato di risolvere con il concetto di austerità. Oggi questo problema è diventato ancora piu acuto.
Nessuno ha in tasca la ricetta magica, ma secondo me le idee guida sono ancora quelle che hanno caratterizzato la «modernità». Sono le idee della libertà, della giustizia, dell'uguaglianza. Bisogna ripartire dalle idee che sono state a fondamento del movimento operaio. Qualcuno dice: non ci sono più gli operai. Sarà anche così, ma le disparità sociali esistono ancora e vi sono i ricchi e vi sono i poveri. E io continuo a pensare che la molla dello sviluppo risieda nella disparità fra le classi e nella conseguente lotta fra le classi.

Un Marx necessario, ma non sufficiente?
Appunto, ma non credo che questo si possa ottenere mercanteggiando qualche posto in parlamento in più o in meno. Purtroppo la frammentazione di questa sinistra è tale che oggi è difficile prevedere uno sviluppo del pensiero marxista. Io sono uno che ha sognato, anche nei momenti piu difficili, l'unità delle forze della sinistra. Qualcuno che non mi conosce bene ogni tanto mi dice: «ma tu hai cacciato dal partito quelli del "Manifesto"». Sì, ma li ho anche ripresi.
(...) In conclusione, voglio sottolineare questo: abbiamo avuto mille difetti, certo, il punto difficile per noi è stato il rapporto con l'Unione Sovietica, ma abbiamo avuto sempre un'idea unitaria della sinistra e non meritavamo di finire in mano a questi dirigenti che hanno distrutto il partito senza ricostruire nulla di significativo. Si apre un futuro oscuro. Speriamo solo che non duri molto.

“l'Unità”, 10 giugno 2001

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