6.7.18

Memoria. Parlata palermitana e canzoni di mezza malavita: Salvo Licata, Gigi Burruano e "'A santanotte" (Salvatore Lo Leggio)

Gigi Burruano in "Palermo oh cara" (1979)

In Swinging Palermo di Piero Violante (Sellerio, 2015) leggo: “Ricordo la mantiglia di Kadigia Bove – l'attrice di Luigi Nono, moglie a Palermo di Achille Occhetto – su un palchetto in cui Salvo Licata, giornalista de “L'Ora” e drammaturgo, metteva a punto in Scherzo per tromba e guitti la sua idea di teatro metropolitano, una sorta di lumpen-theater tra Edoardo e Brecht e che affonda nella tradizione popolare urbana: Giuseppe Schiera, Petru Fudduni. Una poetica rabbiosa e dialettica che ha al centro la città delle borgate ora scomparsa, una città che possiede una lingua, la “parlata palermitana”. Per Licata quella parlata, seppure specchio della corruzione sociale e morale dei suoi lumpen, era anche, se non omologata, una possibilità di salvezza «morale»”.
Anch'io ricordo.
Andai a vedere tra il finire del '69 e gli inizi del '70 quell'esperimento teatrale alla sala Aziz. Non rammento la data precisa ma era il tempo dell'amore. Con Carmela, che sposai alla fine del '70 e da cui mi separai 10 anni più tardi (dopo tante gioie, tanti dolori e tre figli), andavamo a teatro di rado. Quella volta fui io a trascinarla, perché volevo vedere sulla scena Gigi Burruano, che avevo conosciuto una sera allo Shanghai in circostanze avventurose, durante l'autunno caldo ma prima che arrivasse la bomba di piazza Fontana.
Lo Shanghai era al tempo la trattoria più caratteristica della Vuccirìa. Situata al primo piano, in un angolo della piazzetta, di fronte al bancone dei polpi bolliti, consentiva nella stagione adatta di mangiare in terrazza e di controllare da lì i movimenti che si svolgevano nel sottostante mercato. Altrimenti c'era un gran camerone un po' malandato. E lì che con Lillo Guarneri trovammo posto, non ricordo se per ragioni climatiche o per mancanza di spazio nella terrazza. Avevamo qualche lira in più del solito e avevamo scelto di cenare lì, piuttosto che da don Ciccio al Cassero o dalla 'Ngrasciata del Foro Italico, in omaggio al compagno Mao, alla Rivoluzione Culturale e alla Comune di Shanghai. Proprio per questo, nell'attesa dello sciamannato cameriere, in un foglio protocollo aperto, con i pennarelli rosso e nero che portava spesso con sé, Guarneri detto il Filippino, tempra d'artista, usando le sue risorse di grafico e cartellonista, disegnò una scritta a quei tempi di moda, “VIVA IL PENSIERO DI MAO TSE TUNG”. La affissi io stesso al muro, con il nastro adesivo.
Su un tavolo contiguo c'erano, già intente a mangiare, sei persone abbastanza giovani, cinque maschi e una femmina; a capotavola un tipo con la barba lunga di qualche giorno e un maglione nero dolce vita, al centro del quale spiccava un gran medaglione. Ebbi l'impressione che ci guardasse male. Anche gli altri osservarono la scritta e sembravano nutrire verso noi intenzioni non benevole. Temerario com'ero a quell'epoca, mi rivolsi al capotavola dicendo “C'è cosa?”. Lui chiese: “Che vuol dire quella scritta?”. Lillo disse: “Qui, allo Shanghai, ci sta bene!”.
Così sdrammatizzò il confronto e favorì il dissiparsi degli equivoci. Non erano fascisti, ma compagni; avevano creduto che fossimo noi i neri, che nella scritta si nascondesse una qualche provocazione. Quello col maglione scuro era Nino Drago, un attore che dopo l'incendio del Teatro Biondo aveva costituito una sua compagnia, “I Draghi”, e aperto una sorta di ridotto in uno scantinato, che aveva chiamato “Il Bunker”.
Facemmo comunismo o, quanto meno, comunella e - dopo aver mangiato e ben bevuto – andammo al Bunker, che non era lontano, un posto umido e scuro tra la via Libertà e il mare. A quanto ci disse Drago non vi si faceva solo teatro: certe sere vi si suonava, altre si ballava. Uno dei commensali, non tutti attori della compagnia, era Gigi Burruano, e quella sera era in vena: per l'occasionale “gruppetto” trasformatosi in pubblico si esibì per un'ora o due in cose stravaganti, non del suo repertorio abituale. Quello che meglio rammento è un pezzo di Renzino Barbera, Don Totò alla scuola serabile, uno scialo. Ricordo la faccia e la voce di Burruano, con un nonsoche di tragico che l'arrochiva già in quella gioventù, perfino quando si cimentava nel comico ultraleggero.
Non ne nacque un'amicizia, ma una cordialità. Ci salutavamo. Nel giro di alcuni anni (l'ultimo incontro risale probabilmente al '73) capitò di prendere il caffè insieme, ma quasi nulla sapendo l'uno dell'altro. Ma a vederlo ad Aziz nell'invenzione di Salvo Licata, il cui titolo esatto era Scherzo per tromba, fisarmonica e guitti, ci volli andare.
Ricordo che ne uscimmo, con Carmela, allegri e soddisfatti, e a questo effetto contribuiva di sicuro la gioia dello stare insieme; ma lo spettacolo era in ogni caso gradevole ed interessante. La cosa che più mi rimase in mente è la canzone napoletana che Burruano più volte cantava, come una sorta di tormentone, durante l'azione scenica. Il ritornello che tuttora mi accade di canticchiare fa: “Vi' chi triate / sta vita nostra / a santanotte / a chi m'a 'ntussecate” (“Guarda che teatro/ è questa vita nostra! / La santa notte / a chi mi ha avvelenato”).
Solo di recente ho appreso, con una rapida ricerca in rete, che 'A santanotte (o 'A santa notte) è una canzone dei primissimi anni Venti, di Scala e Bongiovanni, che ha avuto tra gli interpreti più famosi Giacomo Rondinella ( https://www.youtube.com/watch?v=5cJbNoenkF0 ) e su cui Elvira Notari, audace produttrice, autrice e regista napoletana realizzò nel 1922 una pellicola per la DORA FILM ( https://www.youtube.com/watch?v=9vo9mtLyWdU ). È canzone di “mezza malavita”, di inganno, gelosia e tradimento più che di guapparia, una di quelle che sono alla base delle sceneggiate. A Napoli erano ascoltate, amate, ricantate dal popolino dei “bassi” e dei quartieri degradati, in cui come pesci nell'acqua nuotavano prostitute, ruffiane, ladruncoli, contrabbandieri, truffatori e anche peggio, che spesso si sentivano, non del tutto a torto, più vittime che carnefici.
A quei tempi abitavo in vicolo del teatro di Santa Cecilia, in un buco dove pagavo un affitto bassissimo (5 mila mi pare) e non avevo coabitazioni sgradite, se non quella di un topo, forse proveniente dal tombino che stava lì davanti, nella stradina, e amava la carta dei libri (mi rese inservibili le Elleniche di Senofonte, l'Eutifrone di Platone e l'orazione Per Megalopoli di Demostene). Diciotto metri quadrati, inclusa la “toilette” con solo cesso, specchio e lavandino (per la doccia andavo da amici o al diurno).
Avevo commissionato alcune scritte al Filippino, citazioni di Mao soprattutto, e di esse avevo decorato le pareti aggiungendo ritratti, oltre che del Grande Timoniere, di Marx e Lenin (non Stalin, che nel mio gruppuscolo consideravamo capostipite del revisionismo) e una foto di studenti parigini in lotta. Proprio sulla porticina del gabinetto di decenza attaccai, senza pensarci su, la scritta “CONTARE SULLE PROPRIE FORZE”. Già allora soffrivo un po' di stipsi e la frase lì collocata mi fece sorridere: non la spostai, chissà che l'invincibile pensiero di Mao Tse Tung, avendo compiuto in Cina tanti miracoli, non rendesse più spedita, meno faticosa e dolorosa la mia quotidiana catarsi.
Mi abitava accanto una famigliola, all'inizio senza capo, una mamma e due figlie che parevano coetanee, sui quindici anni, tutte e tre piuttosto sgraziate. Dalla mattina alla sera mettevano dischi con canzoni napoletane, melodiche, interpretate da voci a me sconosciute, che immagino imitazioni locali del bel canto partenopeo, dei Mario Abbate, dei Rondinella, delle Maria Paris, del giovane Mario Merola soprattutto. Non ascoltavo con attenzione i testi, ma il genere preferito, un po' aggiornato nella ambientazione, nella ritmica, nella strumentazione, era quello stesso “mezza malavita” di 'A santa notte.
Dopo qualche tempo arrivò in quella casa il capofamiglia che veniva dall'Ucciardone, un omino sui quaranta fino fino e con baffetti, all'apparenza innocuo e fin dal mattino avvinazzato. Doveva essere in semilibertà, perché venivano spesso, intorno a mezzanotte, i carabinieri a controllarne la presenza. Una mattina lo trovai a casa mia a chiacchierare con Carmela rimasta lì a preparare il pranzo, mentre io ero andato a comprare non so che cosa al vicino supermercato Standa, in via Roma. Pensai, senza troppo preoccuparmi, che fosse lì per farle la corte. Invece cercava me. Mi aveva preso per un giornalista o per uno scrittore e voleva raccontarmi le sue sventure, spiegarmi chi l'aveva rovinato, affinché ne scrivessi. Non seppi dire di no, ma riuscii con la politica della dilazione a non onorare la promessa.
Quando da lì, alla fine dell'estate del '70, me ne andai a vivere con Carmela in un'altra parte della città, avevo fatto una scorpacciata di canzoni napoletane da non poterne più.
Insomma, come i “lumpen” dei teatri di Salvo Licata anche quelli dei vicoli della Palermo reale alla “parlata palermitana” accompagnavano una “cantata napoletana” e questa segnalava una sorta di primato della musica popolare partenopea. Almeno in questo Napoli restò capitale per tutto il Sud, isole comprese e le sue canzoni di “mezza malavita” funzionarono per tutto il secolo scorso come colonna sonora del vivere sottoproletario nelle città e nei paesi. In quella musica era possibile riconoscere come un segno distintivo, un barlume di appartenenza, di coscienza.
In tutta quella produzione, duratura, ampia e mediamente scadente, che celebrava il proprio trionfo nelle feste e nei festini popolani, come nei mangiadischi che la diffondevano a tutto volume per i vicoli, è perfino possibile rintracciare qualche pietra preziosa: la Bammenella un po' francesizzante di Raffaele Viviani, per esempio, e ancor più lo Scapricciatiello dei quasi sconosciuti Pacifico Albano e Ferdinando Vento, che si giovò dell'interpretazione scanzonata di Renato Carosone.

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