15.7.18

Unità nella diversità. Da Roma a Costantinopoli: pensare l'impero per capire il mondo (Jane Burbank, Frederick Cooper)


Perché interessarsi al concetto di impero? Non viviamo in un mondo di Stati-nazione – quelli, per esempio, che siedono presso l’Organizzazione delle nazioni unite (Onu), con le loro bandiere, i loro francobolli e le loro istituzioni? Sennonché, paragonata alla longevità dell’Impero ottomano (seicento anni), e senza nemmeno evocare la successione di dinastie cinesi nel corso di diversi millenni, l’«era degli stati-nazione» potrebbe rappresentare un’anomalia passeggera nella storia dell’umanità. Tanto più che numerosi conflitti recenti - in Rwanda, in Iraq, in Afghanistan, in ex-Jugoslavia, in Sri Lanka, nel Caucaso, in Israele, ecc - si spiegano con le difficoltà nel trovare nuove forme di organizzazione per sostituire gli imperi, nel 1918, nel 1945 o dopo il 1989. Nulla suggerisce di scadere nella nostalgia imperiale: i mondi perduti del Raj britannico o dell’Indocina francese non illuminano le nostre odierne riflessioni politiche. Nemmeno il ricorso sistematico a termini come «impero» o «colonialismo»scorciatoie spesso insufficienti, destinate a screditare questo o quell’intervento statunitense, francese o di altra provenienza - contribuisce all’analisi della geopolitica contemporanea. Tuttavia, lo studio degli imperi, antichi o recenti, permette di mettere in luce le radici del mondo contemporaneo e di approfondire la nostra comprensione delle forme di organizzazione del potere politico di ieri, di oggi e (perché no?) di domani. Il concetto di Stato-nazione si fonda sulla finzione dell’omogeneità: un popolo, un territorio, un governo. Quanto agli imperi, essi nascono dall’estensione del potere attraverso lo spazio e si basano sulla diversità: governano in modi diversi popoli diversi, e subiscono una doppia tensione. Da una parte, l’espansionismo è alimentato dalla volontà dei dirigenti politici di estendere il loro controllo territoriale in un contesto in cui i popoli vivono variegate realtà socioculturali. Dall’altra, il fatto che l’impero assorba popoli differenti porta alcuni dei suoi componenti a desiderare di staccarsene. Tale situazione spiega perché gli imperi durano, si spaccano, si riconfigurano e crollano.

I “re della savana”
Il repertorio di forme che permettono di governare a distanza gruppi umani differenti è particolarmente ricco. Alcuni imperi hanno sviluppato strategie prese in prestito dai loro predecessori o dai loro rivali. Gli ottomani sono riusciti a mescolare le tradizioni turche, bizantine, arabe, mongole e persiane. Per amministrare il loro impero multi-confessionale, si appoggiavano sulle élite di ciascuna comunità religiosa, senza cercare di assimilarle o distruggerle. Nel corso dei secoli, l’Impero britannico si è dotato di strumenti di governo tanto diversi quanto i territori sui quali esso regnava: dominions, colonie, ecc. Un corpo specifico governava l’India, un protettorato mascherato presidiava i destini dell’Egitto, e l’«imperialismo del libero scambio» si estendeva a numerose zone d’influenza. Un impero che godeva di una cassetta degli attrezzi così ben fornita poteva tempestivamente cambiare tattica senza tuttavia essere costretto ad assimilare o amministrare tutti i suoi territori con gli stessi metodi. Si osservano numerosi schemi di base, ricorrenti anche se eterogenei, nelle forme di governo di popolazioni differenti. In alcuni imperi, la «politica della differenza» consisteva nel riconoscere una molteplicità di popoli, i loro costumi e le loro tradizioni. Altri tracciavano una frontiera netta tra gli autoctoni e gli elementi provenienti dall’esterno, considerati «barbari». I dirigenti degli imperi mongoli, nel XIII e nel XIV secolo, interpretavano le differenze come normali e benefiche. Essi assicuravano l’irradiarsi del buddismo, del confucianesimo, del taoismo e dell’islam, così come quello delle arti e delle scienze prodotte dalle civiltà araba, persiana e cinese. Roma, invece, aspirava a un’omogeneità fondata sulla sua cultura, certo sincretica, ma comunque identificabile; sull’attrattività che poteva esercitare l’acquisizione della cittadinanza romana; e, più tardi, su un cristianesimo divenuto religione di stato. 
Gli imperi si sono evoluti attorno a queste due tendenze, talvolta combinandole (come nel caso ottomano e russo). In Africa, le potenze europee del XIX e del XX secolo hanno esitato tra un approccio assimilazionista, motivato dalla certezza della superiorità della civiltà occidentale, e forme di governo indiretto, poggiate sulle élite delle comunità conquistate. La «missione civilizzatrice» di cui gli europei si credevano investiti entrava talvolta in contraddizione con le teorie razziali comunemente ammesse all’epoca. Quale che fosse l’immagine che avevano degli «altri» e delle loro culture, i conquistatori non sono mai riusciti ad amministrare i loro imperi da soli. Hanno sempre utilizzato le conoscenze, le competenze e le autorità delle società di cui prendevano il controllo appoggiandosi su intermediari: membri delle élite locali suscettibili di trarre profitto da qualche forma di cooperazione; persone precedentemente marginalizzate che trovavano qualche vantaggio nel servire il potere vittorioso. Ogni volta, si trattava di approfittare delle loro reti sociali per garantire una collaborazione efficace. 
Un’altra strategia procedeva a ritroso: porre in una posizione di autorità degli schiavi o delle persone staccate dalla loro comunità d’origine, e che per il loro benessere e la sopravvivenza dipendevano interamente dai padroni imperiali. Il metodo ha dato prova della sua efficacia sotto il califfato degli Abbassidi, poi presso gli ottomani: i più alti amministratori erano infatti staccati dalle loro famiglie in età molto giovane e cresciuti presso il sultano.
La teoria vuole che gli imperi europei abbiano abbandonato questi metodi di delega personale dei poteri a favore di strutture burocratiche. In realtà, nel bel mezzo delle vaste estensioni africane, gli amministratori si consideravano spesso dei «re della savana». Gli ufficiali sollecitavano il concorso di capi tradizionali, di guardie e, ancora, di traduttori, i quali cercavano di trarre vantaggio dalla loro posizione. Ma, da sempre, gli intermediari si sono rivelati tanto pericolosi quanto necessari. Élite indigene o funzionari di rango inferiore, tutti avrebbero potuto desiderare, da un momento all’altro, di prendere il potere. Mettere in luce il ruolo degli intermediari conduce così a sottolineare i rapporti verticali interni alla struttura di potere – tra dirigenti, agenti e soggetti –, una relazione il cui studio è oggi spesso trascurato a vantaggio di un approccio più orizzontale basato sulle affinità etniche e di classe. Né infinita né rigida, l’immaginazione politica dei costruttori di imperi e delle élite locali fu un altro elemento essenziale delle loro pratiche e della loro riuscita. Ad esempio, l’imperatore romano Costantino, e, successivamente, il profeta Maometto hanno, ciascuno a sua volta, adottato il monoteismo, che ha loro fornito il potente modello «un impero, un dio, un imperatore». Una scelta che porta tuttavia ad uno scisma, quando emerge la tesi secondo cui l’imperatore non sarebbe il guardiano legittimo della vera fede. Gli imperi hanno cercato di porsi come garanti della giustizia e della morale. Una pretesa che talvolta si è rivoltata contro di loro: basta pensare a Bartolomeo de Las Casas che difendeva le popolazioni indigene d’America nel XVI secolo, ai movimenti di liberazione degli schiavi nell’Impero britannico del XIX secolo ed ai popoli asiatici e africani che rivendicano la «missione civilizzatrice» della Francia per suggerire che la democrazia non doveva essere appannaggio di un solo continente. Il concetto di «traiettoria» applicato agli imperi permette di analizzarne le trasformazioni e le interazioni in altro modo rispetto all’abituale prisma tautologico: quello di una storia concepita come una successione di epoche distinte. Ciò che viene talvolta chiamata la «espansione europea» a partire dal XV secolo non fu il prodotto di un istinto proprio dei popoli del continente, ma piuttosto la conseguenza di una congiuntura particolare. L’impero ottomano, più grande, più potente e più integrato delle frammentate unità politiche dell’Europa occidentale, costituiva un significativo ostacolo al commercio con la Cina e il Sudest asiatico, le cui innumerevoli ricchezze attiravano ogni bramosia. I re di Spagna e Portogallo, come, più tardi, i sovrani della Gran Bretagna e delle Province unite (gli odierni Paesi bassi) hanno incessantemente cercato mezzi per aggirare i territori sotto dominazione ottomana e di porre un termine alla loro dipendenza nei confronti dei magnati del proprio paese. Una delle conseguenze inattese di questo fenomeno è stato di mettere in contatto i popoli delle due sponde dell’Atlantico, quando Cristoforo Colombo, navigando verso l’occidente per raggiungere l’Asia, ha scoperto per caso quella che sarebbe diventata l’America.

Stati-nazione ed epurazioni etniche
Altri avvenimenti critici della storia mondiale appaiono sotto una luce differente quando li si studia dal punto di vista delle relazioni che gli imperi intrattengono tra loro. È il caso delle rivoluzioni europee ed americane del XVIII e del XIX secolo. Le rivoluzioni nella colonia francese di Santo Domingo (attualmente Haiti), in America del nord (sotto dominazione britannica) e in America del sud (sotto dominazione spagnola) sono state innanzitutto conflitti interni ad un impero prima di divenire tentativi di uscita da esso. Se si considera ora il destino fluttuante dei regimi che segnarono il XIX secolo e la prima metà del XX, si scopre un mondo rovesciato da nuovi disegni imperiali – come quelli della Germania, del Giappone e dell’Unione sovietica – e dalla mobilitazione umana e di risorse di altre potenze imperiali per contrastare tali ambizioni. A metà del XX secolo, la transizione dall’Impero agli stati-nazione non fu scontata. Le popolazioni mescolate dell’Europa meridionale, che avevano conosciuto molteplici regimi, compresa la legge ottomana ed il regno degli Asburgo, hanno subito diverse ondate di epurazioni etniche, tutte condotte con il pretesto di dare ad ogni nazione il proprio stato. Questo fu in particolare il caso dei Balcani durante la guerra del 1870, nel 1912-1913 e dopo la prima guerra mondiale, dopo lo smantellamento degli imperi sconfitti. Poi, di nuovo, dopo la seconda guerra mondiale, quando tedeschi, ucraini e polacchi furono espulsi da determinati territori. Malgrado ciò, lo stato non riuscì mai a combaciare con i contorni della nazione e, negli anni ’90, la regione balcanica divenne nuovamente il teatro di «pulizie etniche». Il genocidio ruandese del 1994 va ugualmente letto come il risultato di un tentativo postimperiale di produrre un popolo unificato che si governava da sé. Il Vicino oriente non si è ancora ripreso dallo smantellamento dell’Impero ottomano successivo alla prima guerra mondiale: in Israele ed in Palestina opposti nazionalismi si contendono i medesimi territori.
Le traiettorie proprie di ciascun impero hanno dato forma alla maggior parte delle attuali grandi potenze. La Cina, ad esempio, la cui eclisse tra il XIX e il XX secolo a favore dell’ascesa di altre potenze potrebbe rappresentare forse soltanto un interregno più breve di altri nella storia plurimillenaria delle sue dinastie imperiali. Durante la repubblica (1911-1937) e il periodo comunista, i governi in carica non hanno mai rimesso in discussione i confini stabiliti dagli Yuan nel XIII secolo e poi dai Qing tra il XVII ed il XX secolo. Gli attuali dirigenti cinesi fanno volentieri riferimento alle antiche dinastie ed alle loro tradizioni imperiali. La Cina ha recentemente invertito i ruoli che definivano il suo rapporto con l’Occidente. Oltre alla seta e alla porcellana, essa esporta oggi prodotti industriali e gode di un colossale surplus della sua bilancia commerciale. Essa è diventata il gestore dei fondi degli Stati uniti e dell’Europa. Le rivendicazioni indipendentiste del Tibet e le spinte secessioniste nella regione musulmana turcofona dello Xinjiang (2) rimandano a fenomeni classici dell’Impero cinese: come in passato, i dirigenti devono controllare i baroni dell’economia e governare popolazioni diverse. Il regime dovrebbe poter attingere al proprio savoir faire imperiale per rispondere a queste sfide e ritrovare il suo rango. La formazione e il crollo dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss) possono essere analizzate a partire dalla medesima griglia di lettura. La strategia di Mosca, finalizzata a promuovere delle repubbliche nazionali, dirette da intermediari comunisti autoctoni, ha fornito la mappa per la disgregazione del blocco e un linguaggio comune che ha facilitato il negoziato per nuove sovranità. Il più grande degli stati dell’era postsovietica, la Federazione russa, è esplicitamente multietnica. La Costituzione del 1993 ha offerto a ciascuna delle repubbliche il diritto di scegliere la propria lingua ufficiale, pur definendo il russo «lingua dell’insieme della Federazione russa». Dopo un breve interludio, Vladimir Putin e i suoi protetti hanno ravvivato le pratiche patrimoniali della Russia degli zar. Mentre ritessevano i legami con i magnati dell’industria, serravano il controllo sulle istituzioni religiose, mettevano la museruola alla stampa, manipolavano il processo elettorale per favorire l’emergere di una «democrazia sovrana» al servizio di un solo partito, si assicuravano la lealtà dei governatori della Federazione pur dando garanzie ai nazionalisti russi, si impegnavano in conflitti territoriali ai confini del paese. L’impero russo faceva la sua riapparizione, nel quadro di una nuova mutazione dello spazio eurasiatico.
L’Unione europea è attualmente la più innovativa delle grandi potenze. Le lotte contro o a favore dell’Europa hanno attraversato le epoche, da Carlo Magno a Adolf Hitler, passando per quelle di Carlo V e Napoleone. Soltanto dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale e la perdita delle loro colonie gli imperi europei hanno posto un termine alla competizione in cui si erano incessantemente impegnati. Fino agli anni ’60 la Francia ed il Regno unito hanno malgrado tutto cercato di riconfigurare i loro imperi, al fine di renderli al tempo stesso più legittimi e più produttivi. La Germania ed il Giappone, esclusi dal gioco imperiale, sono riusciti a prosperare in quanto stati-nazione, mentre non vi erano riusciti in passato. Dagli anni ’50 fino agli anni ’90, gli stati europei liberati dal peso dei loro imperi hanno consacrato buona parte delle loro risorse per tessere alleanze tra loro. Hanno così gettato le basi di una confederazione che ha funzionato efficacemente fintanto che le sue ambizioni si sono limitate all’amministrazione ed alla regolamentazione. Chiunque osservi un posto di frontiera abbandonato lungo una linea di demarcazione che milioni di persone sono morte per difendere, sarà probabilmente portato a pensare alla creazione dello spazio Schengen come ad un progresso. Uno dei principali attributi della sovranità, il controllo delle frontiere, è stato respinto ai confini del continente. Dalle ambizioni belliche finalizzate alla costituzione di imperi fino all’emergere di stati-nazione sprovvisti di colonie, a cui segue il progetto consistente nel forgiare una confederazione di nazioni, l’evoluzione europea sottolinea la complessità della struttura delle sovranità. Dimostra anche che la concezione nazionale dello stato si è emancipata recentemente dal modello imperiale. Dopo l’11 settembre 2001, gli esperti più noti hanno proceduto alla sacralizzazione dell’«Impero americano», sia per denunciare l’arroganza della sua politica estera, sia, al contrario, per celebrare i suoi sforzi a favore della pace e della democrazia. Ma l’unica questione veramente valida è quella che interroga il repertorio del potere di Washington, il quale si basa sull’utilizzo selettivo delle strategie imperiali. Lungo tutto il XX secolo, gli Stati uniti hanno fatto uso della forza, violato la sovranità di numerosi stati e occupato territori, anche se raramente vi hanno stabilito delle colonie. Il patriottismo americano è figlio di una traiettoria imperiale: nel 1776, Thomas Jefferson dichiarava che le province che si ribellavano contro la Corona britannica avrebbero dato alla luce un «Impero della libertà». Il sistema che è emerso era fondato su un principio simile alla politica romana della differenza: consacrava l’uguaglianza ed il diritto di proprietà per i cittadini, così come l’esclusione dei nativi e degli schiavi. Esteso all’intero continente, esso ha permesso agli americani di origini europee di concentrare nelle loro mani la maggior parte delle risorse. Dopo aver vacillato un poco sulla questione della schiavitù, i dirigenti si sono trovati in una posizione sufficientemente forte per decidere tempi e modi dei loro interventi nel resto del mondo.

Sovranità disuguali
La Forma impero è esistita in relazione – e spesso in conflitto – con altre forme di governo. Gli imperi hanno avuto la capacità di facilitare (ma anche di ostacolare) la circolazione di beni, capitali, persone e idee. Per la maggior parte emersero in seguito a processi violenti, e la conquista precedeva spesso lo sfruttamento, l’acculturazione forzata e l’umiliazione. Hanno modellato sistemi politici possenti, ma anche causato sofferenze umane considerevoli. Tuttavia, l’idea di nazione, anch’essa sviluppatasi in un contesto imperiale, non ha dimostrato la sua efficacia, come testimoniano i conflitti irrisolti nel Vicino oriente e in diverse regioni dell’Africa. Ci troviamo oggi sui sentieri scoscesi che conducono al «post-impero», nel bel mezzo di una finzione in cui tutte le sovranità si equivalgono… ma che non riesce a nascondere interamente le disuguaglianze tra gli stati. Pensare l’impero non significa voler resuscitare mondi passati. Si tratta piuttosto di considerare la molteplicità delle forme di esercizio del potere in un dato spazio. Se riusciamo ad analizzare la storia in modo diverso rispetto ad un’inesorabile transizione dalla forma impero alla forma stato-nazione, forse potremmo studiare il futuro da un punto di vista più ampio. E ipotizzare altre forme di sovranità che meglio rispondono a un mondo caratterizzato dalla disuguaglianza e dalla diversità.

“Le monde diplomatique – il manifesto”, dicembre 2011

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