5.8.18

A una passante – À une passante. Una poesia di Charles Baudelaire nella mia traduzione con il commento di Giuseppe Scaraffia

Orchidee

Assordante la strada intorno a me urlava.
Lunga, magra, in gran lutto, dolore maestoso,
passa una donna, che con la mano fastosa
alza e fa dondolare il merletto e l'orlo;

agile e nobile, con gamba statuaria.
Intanto io bevevo, contratto come un pazzo,
nel suo occhio, livido cielo che cova uragani,
la dolcezza che affascina e il piacere che uccide.

Un lampo … poi la notte! - Fuggitiva bellezza
il cui sguardo mi ha fatto d'improvviso rinascere,
io non ti vedrò più, da qui all'eternità?

Altrove, via da qui! E tardi, forse mai!
Perché io ignoro dove fuggi e tu non sai dove vado,
o tu, che avrei amata, o tu, che lo sapevi!


La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

Da Les fleurs du mal
E. Manet - Donna che legge il giornale al Caffé

Tra la folla
Alta e sottile, vestita in nero, la donna fatale baudelairiana attraversa la fiumana anonima delle strade con il suo passo maestoso. Il suo lutto è quello di chi ha perso ogni compagno degno di esserlo. La bellezza, ritrattasi dall’immediatez-za della vita moderna, assume un fascino fine a se stesso, che la trasporta nell’ambito delle opere d’arte. La sua gamba statuaria fende la folla vociante, che si ritrae al passaggio di quell’immagine divina e diabolica ad un tempo. Nella sua pupilla, carica di un piacere misterioso e distruttivo, s’affaccia una dolcezza indisponibile al singolo, ma estesa ai passanti, con il peso trasparente di una benedizione. L’immagine che sta trascorrendo ha la stessa mesta grandezza di un sovrano in esilio, di un passato che ancora indugia in un presente ormai estraneo. Il suo passo elegante e solenne è irraggiungibile, ma il dominio che la sua comparsa instaura sull’uomo non è meno terribile per il fatto di durare pochi istanti. La statua di carne resuscita, con il fastoso gesto della mano che solleva la gonna, un tempo trascorso, il ricordo di una possibilità ormai irraggiungibile, come la sua persona. L’illuminazione subitanea accesa dalla sua comparsa svela il buio confuso che circonda il suo osservatore intento, privato dall’estasi di ogni pudore, a cogliere nello sguardo della sconosciuta qualcosa che non potrà mai appartenergli. Il riconoscimento istantaneo, quasi una muta agnizione, operatasi tra i due, esclude ogni contatto. La legge dei grandi affollamenti urbani vieta ed inibisce le soste ed i riconoscimenti. Il moltiplicarsi dei volti sconosciuti abitua l’attenzione a concentrarsi sugli aspetti meno familiari dei visi che incrocia. Lo sguardo innamorato dell’osservatore rompe le regole, svelando un’impossibile, ma non per questo meno vertiginosa, prossimità con il suo mobile oggetto, cui è rivelata la possibilità d’amore dell’occhio che lo fissa. L’immagine, colpevolmente sottratta al regno urbano delle ombre senza volto, si riimmerge, con il suo passo sicuro, nell’indistinta tenebra della folla, trascinando nel pozzo del suo sguardo l’amore del poeta, che non può che renderlo più fondo. L’incontro impossibile, lo sfioramento di un corpo ridotto ad anima dall’impossibilità di essere tale, diventa l’unica modalità possibile di rapporto con la donna fatale. Ma forse il flaneur, disperato e disperso, è più simile ad un provvisorio Orfeo, sospeso tra la folla dei vivi da un’ambigua e luttuosa Euridice che, accumulando su di sé tutti i fascini della morte, rende impossibile la vita di chi resta al di là della linea d’ombra.
L’osservatore rimane imprigionato tra la folla fluttuante, soggetta al sussulto meccanico della storia. Egli non ha più il coraggio, né la forza di seguire la donna fatale, di vivere il suo destino. Egli ormai può solamente guardare il trascorrere del fato, il passo elegante dell’umano fantasma, tra i passanti anonimi. Nell’impossibilità di vivere direttamente, lo sguardo del flaneur si trasforma in una bacchetta magica, che tramuta ogni cosa che sfiora in ricordo. L’impraticabilità del futuro lo converte in passato; la delusione della speranza la converte, come l’acqua in vino, in nostalgia. Quanto non è stato vissuto confluisce, confondendovisi, nell’immenso territorio di quanto non sarà mai più vissuto, nel quale la disillusione individuale si traduce in ricordo collettivo. In questo movimento la speranza ritorna alle sue radici e, nel farlo, riconosce nel passato la propria sorgente e, nel ricordo della specie, la luce riflessa nello specchio delle sue aspirazioni. In Baudelaire si manifesta il conflitto di chi si trova in bilico tra l’orrore della modernità, lo smarrimento dell’identità, e dell’aureola, tra la folla indistinta delle metropoli, ed una natura, la donna fatale, trasformata in mostro sanguinario dalla sua espulsione dalla società. Tra la massificazione e la perdizione, cui viene indotto chi indulge alla passione nella realtà ottocentesca, il poeta sceglie un cammino tortuoso e difficile. L’arte è lo scudo di specchio con cui egli affronta la sua fascinosa Medusa. In essa, come nella luce trascinante del fato, ogni cosa brilla per se stessa e comunica con le altre senza smarrire la propria identità. Ad essa guarda l’artista privo di guida, per non farsi prendere dal «piacere che uccide», e, al medesimo tempo, per non dimenticarlo. L’opera d’arte si rivela allora per un’impronta reificata del fato, un suo fossile, in cui rimane imprigionata la tensione della passione, tesa nel suo libero gioco, sul filo che separa ed unisce la vita e la morte. Nella donna fatale Baudelaire riconosce ed onora la divinità pagana, bestiale e divina, innocente e crudele. Gli abiti ondeggianti intorno ai corpi femminili sono tenui travestimenti, sottili garze, poste a velare lo splendore della carne, sulla quale i gioielli sono le offerte votive di un popolo adorante, la pietrificazione fastosa degli sguardi d’amore posatisi su di essi.
Lo sguardo maschile, affondato in quello della bellezza luttuosa che fende la folla, non potrà mai esprimersi compiutamente in un dialogo, se mai parleranno, ancora muti, i corpi, nel loro disumano linguaggio. L’arte può soltanto ritrarre questo meraviglioso scacco, la sconfitta irrimediabile che, nel mondo moderno, anche la più intensa esperienza nasconde, tra le pieghe profumate degli abiti femminili.

Da Giuseppe Scaraffia, La donna fatale, Sellerio, 1987

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