1.8.18

Dal Cinquantasei al Sessantotto. La crisi del Psi, la sinistra socialista e la parabola del Psiup (Lucio Libertini)

Lucio Libertini

… un ruolo importante l’ebbe il partito socialista. Esso alla metà degli anni cinquanta entrò in una delle crisi più gravi della sua storia tormentata. Ciò accadde quando, dopo il breve ma intenso periodo della gestione di Morandi, una parte del partito, guidata da Nenni, propose un radicale mutamento di strategia, addirittura di collocazione nel movimento di classe, prendendo spunto da due ordini di fatti. Il primo, interno, era la crisi del movimento operaio nelle fabbriche più grandi (era il periodo della tremenda sconfitta nella Fiat) e il nuovo slancio espansivo di cui sembrava dare prova il sistema capitalistico. Il secondo, internazionale, era la crisi dello stalinismo, la morte di Stalin, quello che seguì, il XX Congresso del Pcus, il crollo di miti, convinzioni, illusioni.
La scelta compiuta dalla destra socialista mirava alla separazione dai comunisti e all’alleanza con la Dc, attraverso il centro-sinistra. Ma alla sua base vi era una matrice più generale; la convinzione profonda che il movimento operaio vivesse due fallimenti decisivi, di portata storica. Un clamoroso fallimento veniva giudicata l’esperienza dei paesi socialisti. Ma, più ancora, si diffuse in quei compagni la sensazione che gli sviluppi storici mettessero in discussione la dottrina marxista, e più precisamente la funzione dirigente della classe operaia, la sua capacità di essere, nell’area capitalistica avanzata, protagonista di un reale processo rivoluzionario che partisse dalla sua condizione specifica. Cominciarono allora i discorsi sull’inevitabile integrazione della classe operaia nella logica del capitale nell’epoca della grande industrializzazione. E questi discorsi, che iniziarono da destra, dall’ala riformista riecheggiarono poi a sinistra, nelle prime avvisaglie dei gruppi minoritari che concentravano le loro speranze messianiche nel Terzo mondo. Fra quello il periodo nel quale si realizzarono per la prima volta in Italia i consumi di massa, la produzione di massa. Fu coniato il termine «neocapitalismo», ed esso venne usato come una spiegazione decisiva dell’arretramento del movimento di classe proprio nelle grandi fabbriche, e della fatale crescita di una socialdemocrazia di massa simile a quelle che da anni sono radicate in altri paesi europei. Nenni parlò allora di una «stanchezza delle masse» (e si era a pochi anni dal sessantotto!): e non di una stanchezza fisica o sindacale egli parlava, ma di una stanchezza storica, e dunque della necessità di trovare soluzioni democratiche al di fuori della funzione rivoluzionaria della classe operaia.
In quelle circostanze venne fuori anche l’idea che la società italiana potesse essere liberata dalle arretratezze attraverso un’alleanza tra classe operaia e capitale avanzato, sulla base di un’esaltazione delle virtù razionalizzatrici e progressive della tecnica e della scienza. Furono queste le posizioni assunte da Giolitti, il quale passò perciò nelle file del partito socialista prima nella sua sinistra e subito dopo nella sua destra.
Queste posizioni suscitarono nel Psi una violenta reazione e opposizione, nella quale confluirono però due tendenze diverse. Una di esse si rifaceva alla vecchia tradizione massimalista, serratiana, ed era in sostanza dominata da una concezione di fedeltà alla politica unitaria. Si trattava di una posizione sana, al cui fondo c’era un serio istinto di classe. Del resto credo che sotto questo profilo oggi s’imponga una più generale rivalutazione del massimalismo, senza che perciò si taccia sui suoi limiti e sui suoi errori. Ma era anche una posizione passiva, a rimorchio, senza prospettiva, senza un’analisi adeguata della realtà in movimento; passiva non solo rispetto al partito comunista, ma in rapporto al dibattito stesso interno al partito comunista, assai vivace in quel momento. Di qui l’accusa che l’ala riformista mosse alla sinistra, di sostenere in fondo che ai comunisti spettasse discutere e decidere, e ai socialisti seguire.
Ma nella sinistra socialista era presente e crebbe continuamente anche un altro orientamento. Questo gruppo di compagni difendeva sino in fondo la politica unitaria con i comunisti, ma non credeva che alle scelte dell’ala riformista si potesse rispondere solo con un no, nell’immobilismo, ignorando rincalzare di nuovi giganteschi problemi e le necessità del rinnovamento e di una analisi adeguata e spregiudicata.
La fedeltà non bastava; le nuove generazioni potevano riconoscersi solo in un’indicazione valida per il futuro. La stessa politica unitaria non doveva essere considerata come un’intoccabile arca santa o come un bagaglio, a volte pesante, da trascinarsi dietro per un elementare senso dell’onore; ma doveva essere una costruzione, non la giustapposizione degli schieramenti, e un rapporto vivo e creativo tra partiti e classe.
Questa componente della sinistra socialista, nel tentativo di ridefinire una posizione del partito socialista nel nostro tempo, propose quattro esigenze, collegate tra loro. La prima esigenza era quella di aggiornare l’analisi dello sviluppo capitalistico e della società italiana. Alla luce della grande espansione economica che aveva luogo in quegli anni, dello sviluppo di una produzione e di un mercato di massa, aveva ancora senso presentare il capitalismo italiano come il prodotto di una rivoluzione borghese mancata, e strozzata in fasce? Era ancora possibile fare delle sue indubbie arretratezze il terreno di lotta fondamentale ed esclusivo del movimento operaio, riducendo il suo compito a quello di realizzare la rivoluzione borghese incompiuta, di raccogliere e di portare al traguardo «le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere per terra»? Forzando un poco la realtà, e certo con una buona dose di schematismo, noi (di quell’orientamento faceva parte chi scrive) ponevamo in rilievo gli elementi di avanzamento e di sviluppo del sistema capitalistico italiano, l’intreccio tra le contraddizioni che derivano dalla arretratezza e quelle che derivano dallo sviluppo, e sostenevamo che occorreva accentuare e mettere in primo piano gli elementi di socialismo da introdurre nella società italiana perché risultavano proprio dalla sua trasformazione oggettiva e dal nuovo livello delle contraddizioni. Su questo terreno, ovviamente, lo scontro con la destra socialista, tutto chiuso nelle posizioni neoriformiste che ho indicato, fu durissimo e frontale; ma una discussione vivace si apri anche con il partito comunista, pur se in realtà essa si mescolò poi con un dibattito analogo che autonomamente si era aperto tra i comunisti. Al convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle tendenze del capitalismo italiano si ebbe un momento assai elevato e vivo di questo dibattito unitario, al quale peraltro la destra socialista si sottrasse sostanzialmente, proiettata com’era al rovesciamento delle alleanze e alla costruzione di un rapporto nuovo con la De.
Da questa premessa di analisi si faceva discendere il secondo tema, quello della centralità operaia. Si poneva in rilievo la grande debolezza dei partiti di sinistra nelle grandi fabbriche — che la sconfitta alla Fiat aveva, per così dire, messo a nudo — si mostrava la contraddizione tra questo fatto e i principi e la natura stessa dei comunisti e dei socialisti; e si facevano risalire le cause di questa crisi a una politica che si era lasciata «sorpassare» dallo sviluppo capitalistico, e che, tutta impegnata nello sviluppo degl'istituti di democrazia borghese, si era distaccata dalla concretezza della condizione operaia e aveva messo in ombra il ruolo dei lavoratori delle fabbriche. Di qui nasceva l’esigenza di una svolta nella strategia della sinistra, che doveva riportare al suo centro il ruolo della classe operaia, partendo dalla centralità della fabbrica nella società capitalistica; e il tentativo di individuare le condizioni e le ragioni per dare spazio a una politica di alternativa e di rinnovamento che partisse dalla condizione specifica della classe operaia. Solo cosi — ci sembrava — era possibile sconfiggere la rassegnazione dei riformisti e l’accettazione di una logica di integrazione nel sistema che si voleva fare apparire fatale e ineluttabile.
Le due prime esigenze sfociavano nella grande questione della democrazia e del suo rapporto con il socialismo. Nel momento in cui si apriva la discussione sui regimi comunisti, sull’Unione Sovietica, sui limiti di questa esperienza storica, a coloro che su questi fatti esercitavano una critica da destra, nel tentativo di ricondurre una volta per tutte il movimento operaio italiano nell’alveo esclusivo della democrazia borghese, questa parte della sinistra socialista opponeva una critica da sinistra, che ridesse spazio e fiducia a una prospettiva di democrazia socialista. Si intendeva così riproporre la funzione creativa della classe operaia, l’esigenza di lotta per una società nuova, per un nuovo livello di democrazia. Con la proposta di una strategia del controllo operaio, dell’autogoverno, della partecipazione si intendeva assumere che nuovi contenuti sociali esigono parallelamente la costruzione di un nuovo Stato, diverso organicamente dalla democrazia borghese. In questa concezione, si badi bene, non c’era affatto il rifiuto della storia precedente, la velleità di ripartire da zero: vi era anzi l’idea, molto ferma, che si dovessero recuperare tutti i valori democratici contenuti nella democrazia borghese, e non restringere in alcun modo, ma solo allargare la democrazia, rompere i limiti che al suo sviluppo erano frapposti dall’ordine proprietario. Il socialismo — si affermava — non è la giustizia che, in una semplice sommatoria, si aggiunge alla democrazia esistente; è una nuova struttura della società e quindi del potere statale, e lo sviluppo della società socialista comporta il deperimento del potere statale in nuove forme più avanzate di autogoverno.
La conclusione politica di questo ragionamento era — per ciò che riguardava la prospettiva del movimento operaio — il rifiuto di ritenere permanente e ineliminabile la divisione tra socialisti e comunisti. Se nel presente occorreva portare avanti la politica di unità nutrendola di comuni iniziative di lotta e di un aperto confronto, tutto ciò doveva servire a promuovere la riunificazione della sinistra in un unico grande partito della classe operaia, fondato sul rifiuto della socialdemocrazia e del dogmatismo. Dalla scissione di Livorno sono passati mille anni fu il titolo significativo che “Mondo nuovo”, giornale della sinistra socialista, dette a una discussione sullo stato dei rapporti tra socialisti e comunisti e sulla loro prospettiva futura: come dire che troppa acqua era passata sotto in ponti della storia, e che i partiti e le loro politiche si dovevano misurare sul presente e sul futuro, e non alla stregua delle più antiche polemiche.
Ripensando a quelle posizioni, a quel dibattito e a quella lotta, io debbo oggi riconoscere che nelle nostre tesi vi era certamente semplicismo, alcune schematizzazioni eccessive, e una sottovalutazione della necessità di condurre il movimento operaio, contro le radicate e ricorrenti tendenze del massimalismo, a farsi carico del problema dello Stato e del potere, della gestione complessiva della società italiana. Ma ritengo che l’essenza di quelle idee fosse giusta, e non solo esprimesse l’unico modo possibile di lottare contro il tentativo di inglobare la sinistra dentro la logica del sistema capitalistico e di mantenere aperta una prospettiva socialista, ma fosse poi anche una risposta assai pertinente alle inquietudini, agli interrogativi, alle nuove tendenze che emergevano dalla società italiana e che sarebbero venute in piena luce alcuni anni dopo.
A quelle posizioni è toccata una sorte contraddittoria, e per certi versi strana. Da un lato esse sembravano essere quelle di una piccola minoranza, priva di peso. Non solo la destra socialista fece muro, ma difficoltà serie sorsero in seno alla sinistra socialista, e da parte comunista, tutto sommato, le chiusure furono maggiori delle aperture, anche se in pratica solo con i comunisti riuscimmo a discutere sul serio. Nel 1961 Panzieri, con il quale avevamo appunto scritto le tesi sul controllo operaio, lasciò il Psi e la sinistra socialista: l’occasione della rottura fu il dissenso sulla possibilità di continuare il nostro discorso nell’ambito del movimento operaio organizzato. Panzieri aveva maturato una sfiducia radicale a questo riguardo, io e la maggior parte dei compagni eravamo di diverso avviso: anche se poi, naturalmente, lo sviluppo del dissenso fece venire in luce altre differenze teoriche, che riguardavano il significato ultimo da dare alla posizione inizialmente comune sulla centralità della classe operaia.
D’altra parte, invece, gli anni sessanta hanno visto una diffusione assai vasta di quelle posizioni; anzi, semmai, vi è stata una moltiplicazione delle loro interpretazioni, e in molti casi uno svisamento dei contenuti originari (e a Giorgio Amendola, con il quale avemmo ripetute e franche discussioni, debbo rimproverare d’avere troppo spesso sbrigativamente confuso in un solo fascio l’una e l’altra cosa). Dal distacco di Panzieri dal partito socialista nacquero la rivista “Quaderni rossi” e il gruppo che si raccolse attorno a lui a Torino, e che storicamente credo si possa definire la prima organizzazione della sinistra extraparlamentare, per usare una terminologia rozza ma chiara. Da quel ceppo crebbero poi molti rami e tendenze, e tutto ciò alimentò per mille rivoli l’emergere della contestazione di massa del sessantotto.
Ma nel frattempo la sinistra socialista, sconfitta per un piccolo margine all’interno del Psi, rifiutando di farsi sostegno anche indiretto della nuova socialdemocrazia unificata, si scisse e si costituì in partito, nel Psiup: e intorno al Psiup crebbe, soprattutto dopo il 1965, l’adesione di vasti strati di giovani, studenti, impiegati, operai che si riconoscevano nella politica del controllo operaio, e che rifiutavano un’interpretazione del Psiup e della sua funzione nella chiave della sola fedeltà unitaria. Non si hanno certo strumenti di misura a questo proposito, ma mi pare di poter dire che nel 1968, quando i socialisti di unità proletaria ottennero un milione e mezzo di voti alle elezioni politiche, il nerbo dei militanti attivi era in prevalenza composto di questo orientamento.
Nel bene e nel male, per i contenuti e i contributi positivi come per gli errori e per le distorsioni che si ingenerarono, il Psiup tenne a battesimo il movimento del sessantotto, lo stimolò, ne animò le prime spinte, offri i temi e le prime parole d’ordine di lotta.
L’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e del patto di Varsavia determinò una crisi verticale del Psiup e di quella che era stata la sinistra socialista. Quell’avvenimento drammatico, che di per sé apriva una discussione di fondo sulla democrazia, sul socialismo, sui paesi del socialismo reale, fece emergere l’equivoco irrisolto della sinistra socialista, nella quale, al di sotto di posizioni di intransigenza teorica e politica e a volte di massimalismo, coabitavano tendenze cosi diverse, che andavano dal rinnovamento più spinto sino alla conservazione dogmatica. Le ambiguità, le incertezze, le indecisioni del Psiup in quella occasione determinarono una dispersione e un crollo della sua forza. Moltissimi giovani si allontanarono, i più confluendo nei movimenti estremisti che sorgevano, qualcuno persino entrando nel partito comunista — che sulla Cecoslovacchia aveva preso una posizione critica del tutto limpida, e che si stava aprendo alla tematica e alla realtà delle nuove lotte operaie — altri appartandosi dalla lotta.

Da La generazione del Sessantotto, Editori Riuniti 1979

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