11.8.18

Kurt Hamrin. L'uccellino venuto dal Nord che ammutolì i razzisti di Rotterdam (Massimo Raffaeli)


Avrebbe dovuto concludersi con uno squillante zero a zero, il risultato perfetto, e invece andò a finire 6-3, paradossalmente un esito infamante sia per Annibale Frossi sia per un Nereo Rocco che, prima del calcio d’inizio, si era limitato a dire ai suoi, gli ineffabili «manzi», Zoghé come ve gh'ha insegna' vostra mare. È una domenica di pieno inverno, il 2 febbraio 1958, quando nella buca fangosa dell’Appiani, a Padova, a un passo da Prato della Valle, arriva il Genoa guidato in panchina dall’ingegner Annibale Frossi, l’occhialuta ala destra di Berlino 1936, un ex subalterno del Pepp Meazza poi divenuto teorico insigne e persino cavilloso del calcio all’italiana, quasi un causidico del risultato a reti bianche, il quale sa benissimo che sulla panca dei biancoscudati lo sta intanto aspettando il genio empirico della sua stessa scuola.
Frossi ha un portavoce in campo che si chiama Julio César Abbadie, uruguaiano di classe smagliante e di estri in proporzione inversi alla continuità: tocca a lui aprire il gioco e condurlo facendo salire la squadra. Rocco viceversa ha dalla sua una torma di duri muscolari (difensori arcigni quali Azzini e Scagnellato o imponenti come Ivano Blason) e dissimula, chiudendo la difesa, i tre fuoriclasse che illustrano la squadra più fischiata e diffamata d’Italia: l’italo-argentino Humberto Rosa, un regista capace di goleare e di dettare i tempi, il centravanti Sergio Brighenti, letale stoccatore in area, infine un’ala destra svedese, Kurt Hamrin, appena avuta in prestito dalla Juventus. Dunque al Genoa va il dubbio onore di attaccare e al Padova, la squadra di casa, spetta invece il contropiede più classico: come non bastasse, in conferenza stampa Rocco ha voluto inchinarsi al collega laureato omaggiandolo di un titolo, Xè el me maestro, che all’altro non promette nulla di buono. Fatto sta che a soli tre minuti dalla fine del primo tempo il Genoa è sotto di cinque gol, quattro dei quali su azioni che tutte si somigliano e portano la firma dello svedese velocissimo che si lancia nel vuoto alle spalle dei rossoblù, duettando in progressivo con Brighenti e Rosa, per concludere indifferentemente di destro e sinistro, una volta anche di testa: sembra che qualcuno in tribuna a questo punto esclami Xè come darghe ai fioi («è come picchiare i bambini») mentre Gianni Brera, l’indomani riferendone su “Il Giorno”, definisce a tutte lettere Kurt Hamrin «un gigante».
Il gigante è alto appena 169 cm. (per 69 kg. di peso) ed è nato a Stoccolma, figlio di un imbianchino, il 19 novembre del 1934; apprendista di tipografia (come Giovanni Trapattoni) dopo alcuni armi all’AIK, lo ha acquistato per la stagione 56-‘57 la Juventus. A Torino non è andato male (8 gol in 23 partite) ma un infortunio recidivo al piede destro ne ha molto limitato il rendimento nonostante avesse compagni di squadra, fra gli altri, un raffinato centravanti, Lello Antoniotti, e nientemeno Giampiero Boniperti all’apice della carriera ma frustrato nel suo narcisismo di goleador perché appena retrocesso da punta avanzata a interno di regia. Si sospetta, come per altri fuoriclasse cacciati dalla Juve - su tutti Helge Bronée e Eduardo Ricagni - che sia stato proprio Boniperti, intrinseco per così dire della famiglia Agnelli, a proporre il trasloco di Hamrin, se nelle memorie giovanili dettate a Gian Paolo Ormezzano (La mia Juventus, prefazione di Carlin, 1958) così lo ritrae: «Svedesino intelligente e calcolatore, che però da noi non rese al massimo delle sue possibilità, per incidenti vari e difficoltà di ambientamento». Tali difficoltà è probabile consistessero nel rifiuto di essere sottomesso agliordini del capitano o di passare sempre a lui il pallone con l’automatismo servile di quasi tutti gli altri.
Nell’estate del ’57, nonostante Boniperti, arrivano a Torino John Charles e Omar Sivori: Hamrin li segue in tournée nella sua Svezia, con loro compie mirabilie ma al ritorno è «tagliato» dalla rosa in quanto straniero soprannumerario.
Perciò va in provincia da Rocco, notoriamente un rigeneratore di vecchi giubilati come di talenti incompiuti: ed è lì, nella stagione irripetibile in cui il Padova dei «manzi» si classifica terzo dietro Juve e Fiorentina, che Hamrin, con le sue 19 reti in 30 partite, viene davvero battezzato fuoriclasse. La sua fisionomia è indimenticabile: brevilineo, evolve a piccoli passi lungo l’out, non ha grande falcata ma è capace di guizzi improvvisi e di cambi di marcia repentini; la sua specialità è il cross dal fondo, rasoterra o in alto, però si accentra volentieri in area e, senza essere egoista, spesso si concede il lusso di segnare. I gol di Hamrin differiscono l’uno dall’altro a riprova di un talento versatile, adattabile a qualunque frangente della gara e al mutare delle tattiche di gioco. Dirà che gli assomigliano Paolo Rossi e Filippo Inzaghi: certo è molto meno opportunista sotto misura ma li supera entrambi per qualità del repertorio. Il Paròn gli ha messo il soprannome di Faina ma i tifosi prenderanno a chiamarlo Uccellino per la specialità del fisico, e d’ora in avanti Uccellino sarà.
È un atleta leale, un vero e proprio gentleman del campo che ignora i castighi della ammonizione o, peggio, della espulsione. Rocco lo torchia in allenamento, lui non se ne adonta e presto si abitua, se a distanza di decenni confessa (nel bel volume di Pino Lazzaro, Nella fossa dei leoni. Lo stadio Appiani di Padova nei ricordi di tanti ex calciatori biancoscudati, Ediciclo editore 2002): «Fare il calciatore credo sia il mestiere più bello del mondo, con le porte poi che ti si aprono come fossero tende. Chi gioca a calcio deve essere consapevole di questo perché basta poco, basta farsi male e star fuori per essere subito dimenticato. Per me l’allenamento era un lavoro: se c’era da piegarsi cinque volte io lo facevo sei volte, se gli addominali erano quindici io arrivavo a venti». Chiude in gran forma l’unica stagione a Padova però stavolta la rimpatriata estiva significa Coppa Rimet. Al Mondiale di casa del 1958 Hamrin è titolare anche nella finalissima che si apre al quarto minuto con un gol da fuori di Niels Liedholm, al passo d’addio. Uccellino è il più giovane fra campioni celebrati come Liedholm stesso o Gunnar Gren, detto il Professore, e un poeta dal sinistro impossibile, Lennart Skoglund detto Nacka: tuttavia non c’è di fronte il Genoa di Abbadie ma il Brasile di un fenomeno diciassettenne, Pelé, guidato in panchina da una specie di filosofo difensivista, Vicente Feola, che di Frossi e di Rocco rappresenta la sintesi ideale. Insomma fanno cinque a due per i carioca e Hamrin sa già che la Juventus l’ha appena spedito a Firenze a titolo definitivo.
Trova una squadra neanche male ma di medio cabotaggio dove sembra avviarsi al suo autunno di atleta: è la Fiorentina di Beppe Chiappella, di Humberto Maschio, Alberto Orlando e Giancarlo Morrone, in cui rimane nove anni e continua imperterrito a giocare/segnare vincendo, dopo tutto, due Coppe Italia, una Mitropa e nel ‘61, nella finale passata alla storia come la battaglia di Ibrox Pak, la Coppa delle Coppe contro i Rangers di Glasgow. Ha trentatré anni, ha preso casa a Firenze e sembra avvicinarsi per lui lo stato di quiescenza quando riceve una telefonata dal maestro.
Nel generale scetticismo, come sempre sottovalutato, offeso, dileggiato, Paròn Rocco sta allestendo un Milan che dicono raccogliticcio, di anziani spompati e giubilati, ma presto si rivela una squadra di classe mondiale. Hamrin è giusto l’ultimo tassello di un attacco che fa perno su Gianni Rivera (con Lodetti addetto alla bonaccia) e due punte di grande vigore, Angelo Sormani e il giovanissimo Piero Prati da Cinisello Balsamo detto Pierino la peste. Il Milan stravince il campionato e, non bastasse, arriva alla finale della Coppa delle Coppe, a Rotterdam il 23 maggio 1968, contro l’Amburgo di Uwe Seeler. Si gioca nello stadio del Feyenoord, la tifoseria locale (tradizionalmente incline al neonazismo e all’antisemitismo) tifa Amburgo a braccia levate e fischia i rossoneri senza sospettare che Uccellino sta per celebrare la propria apoteosi. Qui gli basta ridurre di un terzo la quota rifilata al Padova dieci anni prima e infatti, su suggerimento di Rivera, va due volte in gol a passi fitti, zigzagando imprendibile, prima al terzo poi al quindicesimo minuto del primo tempo, quando la partita può dirsi conclusa: lo stadio tace costernato, cadono le braccia levate a migliaia nell’ «Heil!» mentre Uccellino viene cinguettando la sua gioia civilissima che si accende appena in un sorriso chiaro.
Bisserà l’anno dopo addirittura in Coppa dei Campioni a Madrid, la sera in cui Nereo Rocco (coadiuvato da Gianni Rivera) impartisce a muso duro, e per 4 a 1, una memorabile lezione d’umiltà e pragmatismo all’Ajax di Rinus Michels e di un ancora imberbe, non meno strafottente, Joahn Cruijff. Ma per Kurt Hamrin, che immaginiamo gongolante nella misura in cui può esserlo uno come lui, non è affatto finita. Ora ha trentacinque anni, eppure si regala altre due stagioni al Napoli, neppure così male, e un’altra, l’ultimissima, un ritorno all’origine, tra i semidilettanti dell’IFK di Stoccolma, dove gioca appena dieci volte ma segna cinque gol, cioè una media che continua a essere tremenda. Se potesse, non fosse per i reumi e le ginocchia torturate, lui continuerebbe oltre quel 1972. Successive e modeste esperienze di allenatore come di osservatore non dicono nulla né a lui né a noi. Per noi conta solamente l’ala destra dell’Appiani, di Ibrox Park e di Rotterdam, il campione che prima fu detto la Faina e poi, per tutti, fu semplicemente Uccellino

Alias il manifesto, 3 marzo 2012

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