9.8.18

Thadeusz Kantor. Un cimitero, una croce e l'artista va a morire (Tommaso Chiaretti)

Thadeusz Kantor in "Crepino gli artisti" (Milano 1985)

Uno spettacolo di Thadeusz Kantor è senza dubbio una sorpresa, e non lo è. È una sorpresa nel senso che ogni volta il regista ci pone di fronte violentemente al "fatto" della sua evidente genialità espressiva, alla qualità altissima della sua ricerca, alla chiarezza esplosiva del risultato. Ma non lo è più, una sorpresa, nel senso che sempre più chiaramente, ogni spettacolo riproduce esplicitamente se stesso. E se è vero che, alla resa dei conti, ogni poeta scrive sempre la stessa poesia, ogni romanziere lo stesso romanzo, ogni pittore esegue lo stesso quadro, è certo, appunto, che Kantor fa ostinatamente lo stesso spettacolo: fa lo spettacolo del proprio mondo poetico ed espressivo, rende spettacolare, forse il proprio inconscio. E non traveste le sue intenzioni. Insomma, si recita ancora, questa sera, La classe morta: sono quei fantasmi, quegli zombies, quei cadaveri putrefatti, quei reperti di sepolcro, a venire in scena, è quella cripta polverosa abitata da scheletri come un cimitero dei cappuccini, il luogo della azione.
Lo spettacolo si chiama con forte senso invettivo, Crepino gli artisti. E certo l'esperienza creativa c'entra assai. C' entra come ripensamento furibondo del ruolo dell'artista nella società polacca di secoli recenti, e forse di secoli più antichi. C'entra nel senso che si racchiudono qui, nelle immagini canoniche di una sorta di furibonda via crucis ghignante, tutti i sentimenti "neri" di una visione antica, agghiacciante ed evocativa, della realtà. Nella idea plastica di Kantor c'è una linea gotica, tedesca, che dalla Melancolia di Dürer, porta diretta agli Ecce Homo di Grosz e di Dix, una linea espressionista che cavalca la morte, che evoca l'apocalisse e lo sterminio di inevitabili guerre mondiali, la sicurezza disperata che all'Ovest non c'è nulla di nuovo, e che l'uomo ha la vita ossessionata dal sentimento della tortura, dal senso dell'amore mercenario, dal disfacimento dei corpi in una minacciosa valle di Giosafatte sempre presente negli incubi. Accettando di realizzare questo spettacolo per il Centro di Ricerche per il Teatro di Milano, ma anche per l'istituto di Arte moderna di Norimberga, Kantor si è aggrappato proprio, mi pare alla idea figurativo-evocativa di una Norimberga come città di macchine tragiche, di vergini e di processi. Egli ha collocato il senso di Norimberga, evidentemente, in una cultura di triste giorno dell'ira, in una atrocità del passato non più sofferibile, e che non si può più ulteriormente esorcizzare.
La citazione, e la evocazione in scena, del personaggio simbolico di Veit Voss venuto diretto dal suo Quattrocento a significare il rintocco funebre dell'autore, non lascia equivoci così come non lascia equivoci il sottotitolo macabro di "rivista" che reca lo spettacolo. Rivista, forse, nel senso che dava Wedekind al suo circo circolare: in questa pedana di sabbia, ruotano cadaveri che non sono nemmeno felliniani. Fellini ha nella sua vena macabra sempre un sentimento ovvio, naturale, di amore mediterraneo. Il circo di Kantor è piuttosto quello di Bergman, e questo mi sembra, alla fine, il riferimento culturale più vero e più alto. Bergman in bianco e nero, perché l incubo deve essere così poco colorato, perché l' incubo deve far parte di quella cultura protestante che dichiara la sua sofferenza e il senso del suo martirio, ed anche di una cultura ebraica che trova le sue radici assai lontano, al centro dell'Europa che si dissolve, e vive in una ondata di morte nel ghetto di Varsavia, nelle tombe di Cracovia.
Il cronista non forza nella interpretazione la realtà di questo spettacolo bello e doloroso, triste e magnificamente recitato. Lo spettacolo non fa mistero dell'essere evocato, ambientato in un cimitero: dove il "proprietario del deposito" è come il domatore che estrae dalla gabbia le belve stanche della classe morta. Riflettiamo un momento su questa locuzione del foglietto che ci accompagna: si tratta proprio di un "proprietario". Forse è un lapsus, ma forse no: siamo tutti di proprietà privata di "qualcuno", addestrati a saltare il cerchio come i ciuchini di Pinocchio. Il proprietario evoca ad uno ad uno i personaggi della esistenza di Kantor, il suo "doppio", l'autore che guarda se stesso, le sue donne-uomo, il suo io bambino, dominato dallo spettro dei soldati e delle croci. Come in Wielopole Wielopole la croce domina la scena, come fosse uno strumento simbolico di tortura enfatizzata che dà corpo ad uno degli "sketchs" violenti. E, subito, i personaggi della evocazione infantile si mescolano ai personaggi dell'incubo: irrompe il mondo circense dei "comici". Eccolo tutto intero, dunque, il mondo e Bergman, quello del Settimo Sigillo e di tutti i suoi primi films, il mondo del Posto delle fragole. Sono qui, quei professori divorati dai propri traumi, son qui gli alter ego affascinanti, che non esitano ad esporsi, a giocare la propria esistenza onirica in un diluvio di autobiografismo. È qui la patina di quei film, è qui Kantor. E infatti mi sembra che il dato fondamentale di questo spettacolo non sia il suo senso apparente, che può esser anche considerato vecchio e addirittura banale. È in quella presenza di Kantor, sempre in scena come al solito, a far la parte di se stesso, a mimare in ogni gesto la nervosa nevrosi del regista, ad attrarre la attenzione sull'unico dato certo, che ci viene proposto con alterigia e privilegio carismatico: lo spettacolo. Kantor recita la recitazione, mima la mimica, Kantor sottolinea gli effetti musicali del suo tango ossessivo con gesti che sono esplicitamente dei tic. Qui il discorso, se mai fosse stato misterioso, e criptico come la cripta desidera, davvero non lo è più: è un discorso esplicito diretto, talmente esplicito che non ci permette di giudicarlo, o di tentare di collocarlo ancora in una cultura. È il discorso dell'artista, che accetta di essere mandato metaforicamente a crepare, ma lo fa con meraviglioso orgoglio, con la certezza di una sua affascinante diversità. al Teatro dell'Arte di Milano

“la Repubblica”, 16 giugno 1985

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