2.9.18

Blixen, Dickinson, Woolf, Stein, le Bronte, Shelley, Yourcenar: 8 donne, 8 scritture. Rossana Rossanda sui “Nomi” di Nadia Fusini

Nadia Fusini

Il senso della scrittura, l’operazione che per suo tramite si compie, è la ricerca che Nadia Fusini compie nel suo ultimo Nomi, sottotitolo Il suono della vita di Karen Blixen, Emily Dickinson, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Charlotte ed Emily Bronte, Mary Shelley, Marguerite Yourcenar (Feltrinelli, 1986, pp. 238, L. 20.000). Otto donne, otto scritture, chissà quante letture. Perché in questa ricerca domina la messa in guardia del continuo trasferimento: dal sé alla scrittura, che non in tutti avviene con il medesimo segno, la stessa intenzione e valenza, e dall’ulteriore trasferimento dello scritto nel silenzio di chi legge, e ne rifa esperienza, ma per dircene la cifra deve a sua volta trasferirlo in scrittura. Trasferimenti che non sono semplicemente dislocazioni, trasposizioni, ma così diversi «modi» da rendere il passaggio dall’uno all’altro sempre o imperfetto o ridondante, come un cambiamento per somiglianza, analogia, a volte allegoria: mai rispecchiamento.
Tanto che Nadia Fusini inizia dalla bellissima leggenda del dio Theut che regala ad Ammone, fra altre cose, l’alfabeto e invece di esserne ringraziato, provoca la diffidenza del faraone, il quale non soltanto teme che gli uomini, potendo affidare ai segni le cose, cessino di tenerle dentro di sé, svalutando la memoria, ma perché in questo distacco dall’«in sé» al segno le cose iscritte diventeranno altro dall’uomo, un perduto e soltanto superficialmente ritrovato come informazione, diremmo oggi; nozioni e non sapienza.
E poi tanto più fragili appaiono del discorso vivente, il solo pregnante di tutto e solo il suo significato; mentre chi potrà giudicare del vero o falso dell’interpretazione del discorso scritto? In apparenza esso è fissato per sempre; in realtà la lettura è già un terzo e problematico passaggio dopo quella seconda «oggettivazione», presa di distanza che consiste nel «dire in parole», anche se queste partecipano ancora del vivente e sono ancora «vissuto».
Ma non è lo sfaccettarsi dell’esperienza informa plurisignificante di chi parla, scrive, legge — sempre lo stesso e sempre qualcos’altro — che interessa a Nadia Fusini; ma piuttosto il contrario, la ricerca di quel quid che resta univoco, del nocciolo del messaggio, dell’ineludibile da qualsiasi interpretazione, del detto o scritto una volta per sempre, quale che sia la scrittura o la lettura in cui cade. È questo che lei chiama «il suono della vita», la nota, il registro delle otto scrittrici, in ciascuna diversa e della quale in ciascuna cerca la specificità. Cosi la preoccupazione di Ammone è in parte vanificata: l’interiorità della cosa posseduta interiormente per vera sapienza non sarà perduta nella fissità della scrittura; il crittogramma permetterà sempre di ritrovarne la traccia. Anzi è la sua decifrazione che ci rivela il nome, quel che dell’uomo resta.il suo sigillo, la sua forma ultima, il senso.
Non a caso, penso, la scelta delle scrittrici esaminate procede da Karen Blixen, nella quale la fatidicità del nome è così forte da parerla garantire dal crudele non senso della vita, che dovette avere provato nella prima metà della sua esistenza. Tutto ciò che la vita lascia aperto, elude, spreca o perde è concluso, affrontato, conquistato e conservato per sempre nel racconto, nel quale sempre (ed è la condizione per essere raccontato) si disegna «la cicogna», la forma augurale che il narrato non vede, ma è chiara al narratore. Chi diventa narratore trasformerà la sua vita in significante, recupererà ogni perdita, trasformerà il destino in scelta,o crederà, come scrive Nadia Fusini, di avere scelto il destino.
Meno consolatoria la chiave della scrittura nelle altre, anche se per tutte (per tutti, credo) essa è in qualche modo risarcimento. Ma nella Blixen occorreva non soltanto scrivere, ma trovare quella che una volta si sarebbe chiamata la «moralità» nel narrato, un significato che non è nella parole ma servito da esse, una sorta di enigma rivelabile da chi sa raccontare, perché lo ha risolto. Tutto il mondo è dunque fatto di segni, nulla è senza senso: forse le occorreva questo per sopportare il cadere di tutte le speranze, e la ferita insanabile nel corpo. Ma Emily Dickinson? In lei la parola è il doppio dell’inafferrabilità dell’altro, la cosa, il mondo, dio, unico modo per sfiorarlo; mai lo si avrà, ma dandogli nome, parola lo si vedrà prima di perderlo. La comprensione dell’oggetto comporta la sua perdita; il suo diventare da «essere», «forma». E si può capire perché in questo mettere in parola un altro da sé perpetuamente sfuggente, quando non devastante o ingannevole, poco le importasse comunicare, se non per lettera, e scrivesse per sé ; traversare l’esistenza era decifrarla in parole, fatica estenuante ma fine in sé, non diverso da quel possesso di Dio, del quale Emily farà determinatamente a meno.
In Virginia, nelle due Bronte, nella Stein, nella straordinaria Mary Shelley, nella Yourcenar lo scrivere sarà esperienza diversa: non, come è ovvio, diversa per come e quel che scrivono, ma per il senso che per ciascuna di loro ha il fruire del dono di Theut. Così, all’opposto della Blixen, per Virginia Woolf non è un riacquistare il perduto, ma il rincorrere infinitamente e senza possibile raggiungimento le cose, ciò che è reale e in qualche modo sembra il contrario di quel cadere nel silenzio che è la sua malattia. Un reale peraltro del tutto diverso da quello della Dickinson, che ha natura metafisica; quello di Virginia è un reale che altri hanno, e non lei. Non Emily, ma lei ne muore. Il suo è un dolore che dal quale la parola non salva, perché la sua radice ultima, differentemente dalla Dickinson, non è così astratta da lasciarsi mettere in forma.
Ma queste letture di Nadia Fusini portano lontano, con sé e per cammini devianti: invitano a tradire la sua lettura, che è un modo bellissimo di moltiplicare le chiavi di interpretazione. Come se invitasse, nel rincorrere «il suono della vita» di queste donne ad ascoltare più volte una nota, annunciata e ritessuta in altre su una tastiera, quella nota di quella donna che le pagine ti riportano accanto, e che costituisce il filo che ne lega la problematicità, il segno, il disegno ultimo. Quel «nome» nel quale si tocca l'irripetibilità dell’altro, cosa o persona: e lo si tocca, ci ricorderà Nadia Fusini alla fine, non per scienza ma in un improvviso schiarirsi della conoscenza in illuminazione: è così, questa è la domanda, o, più raramente, la risposta iscritta in quelle pagine. L’identità, diremmo oggi fra donne; e non può sfuggire alla confessione neppure la riluttante Gertrude Stein.

“la talpa giovedì il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1986

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