19.11.18

UPA (S.L.L.)


Nel lungo Sessantotto si ragionò anche di scienza e non mancò qualcuno (pochissimi in verità) che parlò di "scienza alternativa", alternativa a quella ufficiale che era bollata come "scienza del capitale". Ma i sessantottini erano ribelli, non matti, per cui i più rimasero convinti che la scienza - quando è tale - è di tutti per tutti e non c'è una "scienza borghese" e una "scienza proletaria". Esistono semmai un "sapere operaio" e un "sapere popolare", nati dall'esperienza e talora consegnati alla tradizione, che contengono elementi di scienza, i quali possono e devono essere liberati dai luoghi comuni e dalle false credenze in cui sono inviluppati.  
La "scienza" propriamente detta non venne perciò mai posta seriamente in discussione, si ragionò piuttosto dei suoi usi e si ipotizzò un uso almeno parzialmente alternativo delle sue acquisizioni. C'era una sigla ad indicarlo, "UPA" (uso parzialmente alternativo).  
Sul finire dei Settanta Agnès Heller, allora rappresentante di un "marxismo critico", sostenne una tesi che incontrò molto interesse nella sinistra pensante, sessantottina e non: scrisse che, nella scienza pura come nella scienza applicata, in un tempo in cui le tecnologie sono molto avanzate e i costi della ricerca in molti casi alti, quello che conta sono le domande più che le risposte. Pensava che su quello andasse intavolato un dibattito democratico, perché la scelta delle domande, cioè dei filoni di ricerca da sviluppare (e finanziare), non poteva essere affidata a un potere opaco ed invisibile. 
Insisteva perciò - con ottime ragioni - sull'importanza della formazione scientifica di massa.

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