13.12.18

Il passato coloniale che Hanoi vende ai turisti (Enrico Arosio)


Un reportage ben costruito e scritto che invoglia ad andare sul posto, per verificare. (S.L.L.)

Hanoi. La grande piazza del Quartiere Francese con l'Highland Coffee

Hanoi
Nel cuore di Hanoi c’è un piccolo lago a forma di peperone. A metà lago c’è un’enorme statua in pietra: no, non del padre della patria Ho Chi Minh; ma di un imperatore dell’undicesimo secolo, Ly Thái To, che fu il fondatore della città. E ai piedi dell’imperatore cosa c’è? C’è il narcisismo del nuovo Vietnam: liceali che volteggiano ballando la breakdance; ragazzine in Nike, Ray-Ban e zainetto North Face; una rock band di studentelli molto amplificata che prova per il concertino del sabato sera; adolescenti, e persino bambini, che sfrecciano su e giù bilanciandosi come acrobati su nuovissimi Hoverboard, la versione del Segway senza manubrio. Tutti senza sorveglianza dei genitori e a rischio, appena si distraggono, di farsi travolgere da uno degli innumerevoli scooter Honda che assediano la capitale a ogni ora del giorno e della notte come sciami di locuste a benzina.
Hanoi ha oltre sette milioni di abitanti, ed è fatta per stupire. La prima parola che le si associa, se riflettiamo sulla scena appena descritta, è schizofrenia. Capitale di una repubblica socialista retta da un partito unico – per semplificare: alla cinese – con l’aiutino delle forze armate, ma assai disposta all’economia di mercato, è oggi una delle città più trafficate e inquinate del Sud-Est asiatico.
La categoria motociclo costituisce il 60 per cento dei veicoli urbani, mentre la bicicletta è rimasta il mezzo dei contadini, degli anziani e dei poveri. Eppure questo venerdì sera accade il miracolo che si ripete da qualche tempo. Con una decisione di sapore europeo l’intero lungolago, dove di solito attraversare la strada è un azzardo a rischio morte, è promosso per l’intero weekend a zona pedonale e night market, con ampia sorveglianza di polizia. Finalmente si passeggia, si mangia il gelato, si ascolta musica, si balla a ritmi occidentali, e migliaia di smartphone scattano migliaia di immagini, come avviene in piazza di Spagna o piazza del Duomo.
Al traino di una ripresa economica molto vivace negli anni scorsi (un po’ meno di recente), la metropoli asiatica è alla ricerca di una definizione di sé che non sia più legata a Ho Chi Minh, ai vietcong, alla guerra, agli americani prima e ai russi poi. Per rendersi attrattiva, Hanoi ha come imboccato una doppia strada: da una parte quella della globalizzazione dei consumi, dall’altra quella del recupero identitario attraverso la storia che, nelle città, si esprime attraverso i luoghi fisici, l’architettura, la forma urbis.
Già, la storia. Ma quale storia, esattamente?
Una delle principali novità, dopo decenni di tormentato dopoguerra e di predicazione ideologica dall’alto, è la riapertura della Cittadella Imperiale di Thang Long. La Cittadella, che dal 2010 gode del patrocinio Unesco, è stata negli ultimi mille anni il centro del potere militare della città. Oggi è un vasto rettangolo cintato di prati verdi ben tenuti, liberamente accessibile agli abitanti come ai forestieri, dove spiccano pochi edifici monumentali e i resti di almeno quattro grandi dinastie, quanto rimane dopo le demolizioni dei militari francesi prima e i bombardamenti americani poi. Ed ecco il paradosso: oltre alla porta principale a pagoda, Doan Mon, che introduceva al palazzo degli imperatori Lê, l’edificio meglio tenuto e restaurato è la palazzina dell’Amministrazione militare francese del 1897, di disegno neoclassico, a due piani e color vaniglia. È proprio qui che gruppi di neolaureati, ragazzi e ragazze vestiti da cerimonia (le ragazze in lungo con fiori nei capelli), si mitragliano allegramente di foto ricordo. Del Palazzo imperiale, demolito dagli occupanti che ne fecero il quartier generale dell’artiglieria, sono rimaste solo due scalinate con dragoni in pietra del quindicesimo secolo. Nella parte più protetta della Cittadella, provvista di bunker, si riuniva, durante la guerra contro gli americani, il comando del leggendario generale Giap.
Non è un caso isolato. Al contrario. Il lascito coloniale dei francesi, quei francesi contro i quali il movimento di liberazione di Ho Chi Minh si batté per quindici anni con memorabile tenacia, prima di combattere l’esercito americano intervenuto al Sud, è oggi al centro dell’attenzione come mai in precedenza. Anche se al Museo Nazionale di Storia Vietnamita – dove sono esposti tesori come i Libri d’oro della dinastia Nguyen e un meraviglioso Buddha ligneo del IV secolo che si direbbe la Pietà Rondanini locale – l’epoca della colonizzazione, che iniziò dopo il 1850 e durò un secolo, è concentrata incredibilmente in una sola stanza.
Ma se la politica occulta, la realtà incalza. Il cosiddetto Quartiere Francese, subito a sud del lago Hoan Kiem, sta vivendo una rinascita sorprendente. È qui che troneggia, ottimamente restaurato, il palazzo dell’Opera di Hanoi, costruito da architetti transalpini sul modello dell’Opéra Garnier di Parigi e inaugurato nel 1911. Davanti all’Opera c’è un quadrivio tremendamente trafficato, dove i risciò a pedali sembrano dinosauri in estinzione: ma nei giardini brilla il frequentatissimo Highlands Coffee con cameriere parlanti inglese e ordinazioni gestite da “saponette” elettroniche distribuite ai clienti. L’Opera ospita anche uno dei ristoranti di punta della città, il Nineteen 11.
Dirimpetto c’è la vecchia Borsa, con la sua brava statua del toro come a Wall Street; sulla destra un gran palazzo abitato dai marchi di pregio italiani, da Prada a Cucinelli a La Perla, e da uffici della finanza globale, da World Bank a Deutsche Bank a Hongkong Land. Poco più avanti rifulge, nel suo bianco splendore, l’albergo più prestigioso della capitale, il Métropole: un perfetto oggetto della Belle Époque costruito nel 1901, con le persiane verde scuro come un grand hotel della Costa Azzurra. Oggi è proprietà della catena francese Sofitel. Al piano terra è tutta una batteria di vetrine luccicanti, da Hermès in giù. Il ristorante di punta si chiama Le Beaulieu, il menu da sei portate costa 2 milioni di dong, circa 80 euro (in un ristorante medio il turista medio ne spende 8). Davanti all’ingresso sono parcheggiate due vecchie Citroën Traction Avant blu notte, veramente chic. Coppie di sposi con le loro faccine fresche vengono immortalate da fotografi nerovestiti nello stile del film Lost in Translation. Intorno alla piscina interna bevono drink fino a tarda sera i turisti più danarosi, la nomenklatura locale, i giovani draghi della telefonia e dell’elettronica.
Dove fa shopping la Hanoi bene? Al department store Trang Tien Plaza, sempre nel Quartiere Francese, che parrebbe voler copiare le Galeries Lafayette: agli angoli ha colonnati finto-classici color crema, dentro si articola su cinque livelli con sfavillio di luci a Led; non vi è quasi marchio del lusso occidentale che non sia rappresentato. E pensare che poche centinaia di metri più a sud, all’ora di pranzo i giovani impiegati come i vecchi bottegai si accoccolano su sgabelli in plastica, agli angoli delle strade, a consumare il saporito street food locale cotto su minuscoli fornelli appoggiati sull’asfalto.
Nel Quartiere Francese c’è, in una elegante villa coloniale circondata di piante, anche l’Ambasciata d’Italia. Accanto ha l’Ambasciata “di Palestina” (così è scritto) e di fronte Casa Italia con il suo Country Promotion Centre per conto di Piaggio (la Vespa è lo scooter della Hanoi più trendy), Ariston, Barilla, e della Viet-It Wines Import (perché anche il Barolo e il Prosecco hanno preso a innaffiare con successo la squisita cucina locale).
Gran parte delle ambasciate ha sede in palazzine coloniali, anche quelle di molte ex nazioni del Patto di Varsavia, nonostante i russi, negli anni Ottanta, abbiano lasciato pesanti tracce edilizie in cemento armato, dalle sedi di partito agli enti della pubblica amministrazione. Le grandi arterie che vanno a ovest verso il Palazzo Presidenziale, il Parlamento, il Mausoleo di Ho Chi Minh – i viali Dien Bien Phu e Tran Phu – ospitano una serie di ambasciate “francesizzanti”, dalla Polonia all’Arabia Saudita. Né fa eccezione quella di Germania e il Goethe-Institut: un edificio Belle Époque del primo ’900, poi diventato scuola per i figli dei funzionari russi, e oggi proprietà dello Stato tedesco. Eredità coloniale anche il vicino Museo delle Belle Arti, ricavato nell’ex ministero dell’Informazione.
Quanto alla Old City, la Città vecchia che si sviluppa su due lati del lago, è il solito densissimo brulicare di persone e di botteghe vietnamite e cinesi, con impressionanti fasci di cavi elettrici appesi in facciata. E lì, non fosse per gli smartphone in mano a tutti, si potrebbe forse dire che il tempo si è fermato al folklore da cartolina. In effetti, le guide turistiche magnificano la Old City anche oltre i suoi meriti. Senza volerne negare il fascino, qui si assiste all’esito paradossale secondo cui la memoria coloniale, a livello estetico e simbolico, lascia più tracce nel forestiero in visita dell’identità della nazione indipendente. La quale fatica a definire un proprio stile.
Detto un po’ bruscamente e senza offesa per la sovranità del Vietnam: non ci fosse l’eredità coloniale – da vedere, fotografare, esplorare – la città di Hanoi, pur con tutto il suo charme, sarebbe interessante la metà.

Hanoi. Il mausoleo di Ho Chi Minh
Ha un che di schizofrenico, infine, lo stesso complesso del Palazzo Presidenziale, a ovest del centro, meta di rispettosi pellegrinaggi. Anche il sontuoso Palazzo, d’un giallo caldo, è in stile Beaux-Arts. Un tempo era la sede del governatore generale dell’Indocina. È al centro di un bellissimo parco ricco di palmizi, tassi, alberi della Bodhi, aranci, ficus, e non ci si può avvicinare più di tanto. Ho Chi Minh, però, lo usava il minimo indispensabile. Preferiva abitare la Maison 54, così detta perché il presidente vi alloggiò a partire dal 1954. Gialla, semplice, affacciata su un laghetto silenzioso allietato dai pesci rossi, sul lato un giardino di pompelmi. Nel suo ufficio ci sono ancora le fotografie di Marx e Lenin, i telefoni usati in guerra, la sedia Thonet alla scrivania; in garage sono esposte le vetture del presidente, la berlina russa dono del governo Kruscev, la Peugeot \404 del 1964. Poco oltre, il famoso Mausoleo di Ho Chi Minh, al confronto, non è che un orrido bestione in marmo e cemento soviet style, ma ad alta voce qui non si può dire.
In realtà il rifugio privato di Ho Chi Minh, almeno secondo la vulgata di Stato, stava sulla sponda opposta del laghetto. È una casa piccolissima su palafitte di semplicità quasi ascetica, detta Stilt House: interamente in legno e stuoie vegetali, basata sulla ventilazione naturale. Camera da letto, stanza da lavoro, servizi, veranda, poco altro. Da questi minuscoli spazi il presidente Ho Chi Minh teorizzò, impostò e combatté un paio di guerre per l’indipendenza della sua nazione.
Ci giriamo intorno in silenzio, con un senso di incredulità. Che dire, oggi? Piacerebbe, forse, a un Papa Francesco.

Pagina 99, 10 dicembre 2016

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