17.2.19

Architettura. Carlo Scarpa, l'uomo che guardava l' acqua (Enrico Filippini)

"Voglio vedere le cose..."


Il racconto di una leggenda
Enrico Filippini
Un articolo secondo me assai bello, di un intellettuale colto, moderno, onesto e geniale pochissimo ricordato, quasi sepolto dall'oblio: il racconto di una mostra diventa qui racconto di un'opera grande e complessa, di una personalità eccezionale, di una vera e propria leggenda. 
Un esempio di come si dovrebbe scrivere d'arte, di come si dovrebbero fare giornalismo e divulgazione. (S.L.L.)









La "memoria involontaria"  di un architetto autentico
Il negozio Olivetti a Piazza San Marco
VENEZIA
Nel 1978, Carlo Scarpa, che aveva settantadue anni, essendo nato qui, in corte dell'Aseo, nel 1906, mentre camminava all'indietro come aveva l'abitudine di fare per focalizzare meglio un oggetto o una proporzione che gli stavano davanti, cadde da una piattaforma sopraelevata a Sendai, in Giappone, e si ammazzò. L'emozione nel mondo dell'architettura e dell'arte in generale fu enorme, non soltanto perché era morto un uomo, ma anche perché Scarpa era già una sorta di leggenda. 
Questa leggenda era fatta di molte cose: della genialità che gli veniva attribuita dai suoi ammiratori e delle nefandezze che gli rinfacciavano i suoi invidiosi detrattori. Era fatta soprattutto di un numero infinito di aneddoti, che in genere alludevano alla sua stravaganza e alla sua insistita venezianità. Questi aneddoti non verranno qui raccontati perché sono stranoti, stucchevoli e noiosi. Ma di due vale la pena di far menzione, perché alludono realmente alla sua personalità.
Il primo me l'ha raccontato Vittorio Gregotti. È il 1958, la direzione dell' Olivetti è innervosita perché i lavori per il suo negozio sotto le Procuratie vecchie, il suo "biglietto da visita" in Piazza San Marco, si trascinano da tre anni e non accennano a finire. Il giovane Gregotti passa di lì, vede Scarpa, gli domanda: "Come va?" "Cosa ci vuoi fare", risponde il maestro sconsolato, "quando si è costretti a lavorare così in fretta...".
Il secondo lo racconta Bruno Zevi: si sta allestendo una mostra di un pittore cinquecentesco. Mentre si avvicina l'ora dell'inaugurazione ufficiale, Scarpa guarda a lungo i quadri e lentissimamente, nell'impazienza di tutti, ne decide la collocazione. Arriva l'ora delle "autorità" e due quadri sono ancora per terra. "E quelli?" gli domandano. Risposta: "Non so dove metterli, li lascio lì". Più tardi si scopre che sono dei falsi.
La lentezza, la quasi immobilità come infinita pazienza ideativa e costruttiva, e come senso infallibile dell'autenticità.
Ora, a distanza di sette anni, il comune di Venezia molto opportunamente gli dedica una mostra che si è inaugurata venerdì scorso nel grande padiglione della Chiesa della Carità dell' Accademia. Di questa mostra, che invito tutti a visitare, va lodato tutto: primo, il magnifico lavoro di ricerca e di ordinamento compiuto da Francesco Dal Co, ex allievo e storico dell' architettura, e da Giuseppe Mazzariol, amico di sempre e acuto interprete della misteriosa opera scarpiana; lavoro che con l'aiuto del figlio Tobia, notissimo designer, ha permesso di censire i 238 lavori che compongono l'Opera completa, infine raccolta in un ottimo volume edito dall' Electa. Secondo, l'allestimento, curato dagli architetti Mario Botta, ticinese, e Boris Podrecca, triestino-viennese. Chi, come me, ha avuto il privilegio di entrare alla mostra dalla porta di servizio, e quindi di salirvi per la bellissima scala del Palladio, rimpiange un po' che essa non sia stata inclusa nell'itinerario normale. Perché questa scala, fatta di grandi scalini monolitici fissati nel muro, ricorda, benché a chiocciola, quella che Scarpa disegnò nel 1954 per la Galleria nazionale nel Palazzo Abatellis di Palermo. Certo, non era il Palladio che ricordava Scarpa, era Scarpa che si ricordava del Palladio. Ma appunto: è un'indicazione.
Nel lavoro di questo maestro contemporaneo c'è una persistente rammemorazione o, come dice Dal Co, un'intensa "memoria involontaria" della tradizione. Poi, di sopra, la grande sala dell'Accademia è stata svuotata dei mobili e pannelli che l'ingombravano. Poche pitture rinascimentali sono appese alle pareti. Dalla capriata scendono cavetti d'acciaio che tagliano e sfrangono la luce e a cui sono appesi orizzontalmente dei doppi telaietti di metallo in cui sono fissate, a contenere i disegni, delle lastre di plastica bombata. Finalmente una maniera di esporre che consente di vedere i disegni nonostante i riflessi e le instabilità della luce. Inoltre, se intenzionalmente o inavvertitamente si sfiorano i telai, i disegni si mettono in movimento, e sembrano galleggiare sull'acqua: su quell'elemento nativo che fluisce silenzioso lungo tutto il lavoro dell' architetto...
A sinistra dell' entrata, in un gazebo, ecco i famosi "vetri" che Scarpa inventò tra il 1927 e il ' 30 per i Maestri vetrai
Due "murrine" di Scarpa
Cappellin di Murano e dal 1933 al '47 per Venini. Sono cristalli molati, vasi opalizzati e "tessuti", coppe "murrine" di incredibile bellezza, oggetti-sintesi di varie tradizioni e innovazioni cromatiche e decorative, nonchè oggetti-testimonianza di una profonda attenzione artigianale. I vetri sono centrali per intendere le forme di Scarpa. Eppure erano nati per una ragione contingente: Scarpa non era un architetto laureato, cosa che, in anni di molto successivi, gli valse ben tre denunce per esercizio abusivo della professione, e che prima, in anni di fascismo e di monumentalità, gli precluse l'accesso alla progettazione e lo costrinse nell'isolamento. Tuttavia, l'articolazione dello spazio e l'intervento sullo spazio già articolato erano nella sua vocazione e nel suo destino, come dimostrano già i primi progetti: non so, gli arredi per la Casa Asta di Venezia, il progetto di concorso per il ponte dell'Accademia (1932), il progetto per il fabbricato viaggiatori dell'aeroporto Nicelli al Lido (1934), il progetto di arredamento per uno yacht (1935), o il restauro e la risistemazione di Ca' Foscari del 1935-37...
I disegni sono qui e, come quelli successivi, sono straordinariamente emozionanti, anche se non è facile dire perché. Sono disegni in cui si leggono gli influssi dei maestri: Mies van der Rohe, Alvar Aalto, più tardi Frank Lloyd Wright, nonché dei pittori Lèger, Braque, Sironi, soprattutto Klee, nonché dei poeti che Scarpa prediligeva e che erano Giacomo Noventa e Baudelaire. Ma sono soprattutto disegni molto diversi dai normali disegni di architettura, che tendono all'ufficializzazione del progetto. Destinati "ai muratori", fitti di annotazioni scritte che spesso indicano insoddisfazioni e ripensamenti, sporchi per l'uso sul cantiere, colorati con matite opaline e coralline, vivono di una vita incerta e come aurorale: cercano a tentoni una forma, testimoniano della genesi di una forma, introducono nello spazio e nel tempo una forma che è una sorta di enigmatica intermittenza, un' interruzione nel flusso delle opache abitudini visive.
Interno del negozio Olivetti
Nel 1947, Scarpa scoprì Wright, e sotto l'influsso del suo organicismo progettò tra l'altro un palazzo per appartamenti e uffici a Padova (non realizzato). Nel 1948, scoprì Klee e ne allestì (a sue spese) una mostra complessiva alla XXIV Biennale. Wright e Klee rimarranno un po' come i paletti di riferimento del suo lavoro, il quale tuttavia resterà radicato in una irriducibile e testarda (e lenta) originalità. Basta andare avanti per la mostra: ecco la Villa Zoppas del 1953, ecco la memorabile sistemazione-restauro del museo di Castelvecchio a Verona, ecco la Casa Cassina del '64, ecco i progetti per il Teatro Carlo Felice di Genova, ecco la Banca popolare di Verona, ecco gli schizzi per il monumento in Piazza della Loggia a Brescia, ecco il Padiglione del libro d' arte per la Biennale, ecco il Padiglione del Venezuela ai Giardini..., ed ecco, infine, dopo moltissimi altri lavori quasi mai realizzati, quello che da molti (non da tutti) viene considerato il suo capolavoro e la sintesi di tutte le
La scala di Palazzo Abatellis a Palermo
sue ricerche, il cimitero Brion a San Vito d' Altivole (Treviso): una superficie di 2400 mq circondata da un muro inclinato e strenuamente modulata, a cui il maestro lavorò per dieci anni a partire dal 1979 e in cui alla fine, per sua volontà, fu sepolto. Non vorrei né saprei descrivere questi capolavori, per la stessa ragione per cui non avrei voglia di trascrivere l'insieme di pensieri e di emozioni suggerite dalla Sfinge che, nei pressi del Cairo, contempla l'eterno e l'infinito.
Ai visitatori di questa mostra consiglio una visita almeno a Verona e a Treviso. A Verona, guardando la statua di Cangrande della Scala, sospesa da Scarpa, come dice Mafredo Tafuri, "su un abisso", capiranno cosa vuol dire mostrare un'opera d'arte; a Treviso capiranno cosa vuol dire per un architetto intervenire sul paesaggio e insieme affrontare il tema della morte. Nel suo saggio per il catalogo, Dal Co ha ottimamente sintetizzato il modo e il senso della lunga opera (quasi tutta non realizzata o distrutta e quasi clandestina) di Scarpa: il suo senso dei materiali, la sua cura degli elementi "tettonici", costruttivi, il significato strutturale del suo ornamento (le famose cornici "a dentelli") che si ritrova negli edifici in cemento armato come nei piccoli oggetti di design), la sua concezione sacrale del progetto, la sua allergia all'ordine e la sua meditata trasgressività, il suo arcaismo e la sua modernità, la sua sensibilità al momento simbolico dell'architettura, al suo legame profondo col movimento dell' origine, della durata e della fine. Condivido tutti i suoi giudizi. E sono un po' perplesso sul fatto che questa mostra abbia risuscitato una domanda oziosa: Scarpa era poi un architetto? Lo era sul senso più autentico del termine. Difatti, si esce dalla mostra arricchiti di una sorta di sesto senso: "Voglio vedere le cose", ha scritto Scarpa, "non mi fido che di questo. Le metto qui davanti a me sulla carta per poterle vedere. Voglio vedere e per questo disegno. Posso vedere un' immagine solo se la disegno"... Ecco, uscendo dalla mostra si vede un po' di più.

"la Repubblica", 5 luglio 1984

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