10.2.19

Ava Gardner sempre diva, a volte attrice (Ugo Casiraghi)

Ava Gardner sul set di "Pandora"
Il caso di Ava Gardner nel cinema di Hollywood è stato quantomeno singolare. La sua perfetta bellezza ne faceva un soggetto paradossalmente incorreggibile, intrattabile. Si pensi un momento alle squadre di estetisti degli studios pronti ad affilare i ferri del mestiere per dare o togliere a un volto, a un corpo ciò che madre natura ha creato in eccesso o in difetto. Ebbene, torse non avevano ancora avuto per le mani qualcuno che li lasciasse praticamente disoccupati.
Certo Ava non ha trovato magici registi che sapessero invaghirsi della sua unicità (uno Stiller per la Garbo, uno Sternberg per Marlene). In questo senso si può dire che non sia stata né una diva con la maiuscola né un'attrice dotata di particolare carisma. Sapeva anche recitare e tuttavia la sua recitazione in ruoli normalmente hollywoodiani non sembrava mai corrispondere in pieno alla sua presenza fisica sullo schermo. Recitava sì, almeno nei casi più felici, eppure si avvertiva sempre qualcosa di stridente, come se lei optasse per la propria vita e non per la sua finzione cinematografica. E torse ha davvero preferito consumarsi al ritmo della realtà, contravvenendo alle regole feroci solitamente imposte a chi - una Rila Hayworth, una Marilyn Monroe - si abbandona a diventare mito.
Bellissima lo era dunque di suo. La ricordiamo, come fosse ieri, nel film che la lanciò nel 1946, lo stesso anno di Gilda. Si chiamava I gangsters (in realtà I killers), era diretto da Robert Siodmak e tratto da un racconto di Hemingway rispettato solo fino a un certo punto, anzi soltanto nel fulmineo inizio. Era l'esordio per Burt Lancaster ma già il ventiduesimo ruolo per Ava. che aveva avuto tutto il tempo di “studiare da diva” e anche di sposarsi una prima volta (con Mickey Rooney). Eccellente film “nero” che presupponeva un'ammaliatrice, una tentatrice, una di quelle femmine diaboliche tipicamente d'epoca. Corpo sinuoso, lunghi capelli corvini, viso d'angelo, Ava non faceva nessuna fatica a irretire e portare alla rovina un giovanotto baldo e sorridente, cosi biondo da esser chiamalo “lo Svedese”, come il Lancaster di allora.
Il bacio di Venere
Statuaria, marmorea, gli aggettivi che la riguardavano erano sempre da scultura greca. La definirono il più bell'animale del mondo, e comunque un animale di sangue freddo. Nata a Smithfield, North Carolina, nel 1922, era venuta a New York per fare l'impiegata e in men che non si dica s’era vista offrire un contratto quinquennale dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Sensazionale per la forma, senza che occorresse la sostanza. Chiunque l'avesse incontrala per la strada, al bar, in un grande magazzino, avrebbe giurato che il suo posto era alla mecca del cinema, nell'Olimpo della mitologia moderna. Hollywood, infatti, non si lasciò sfuggire l'occasione di mitizzarla, o almeno di cercare di farlo. 
Due operazioni del genere si presentarono a breve distanza. Nel 1948 Il bacio di Venere: lei è appunto la statua della dea. rianimata dall'amore. Ma siamo nel banale. Nel '51, con Pandora, il tentativo è un pochino più sottile. Albert
Lewin era uno strano tipo di regista-produttore-sceneggiatore, lo stesso del Ritratto di Dorian Gray più sofisticato e, in fondo, più attendibile apparso sullo schermo (anche perché nessuno ha mai visto quello di Mejerchol'd girato prima della rivoluzione d'Oltobre). Alle prese con la leggenda di Pandora e dell’olandese volante (James Mason), Lewin ha l'alzata d'ingegno di ambientarla in pieno sole mediterraneo: così Ava diventa una donna di sogno. ma anche d'amore e di morte. Gli uomini muoiono per lei, lei muore per un uomo. Una donna di carne e di sangue. Chissà se da qui è nata la sua passione per la Spagna, le corride e i toreri, che sarà meglio documentata nella Contessa scalza. Come mito, dunque, siamo già sulla terra.
Intanto, nella vita reale, il tempestoso matrimonio con Frank Sinatra, che per lei ha lascialo moglie e famiglia, sembra influire sulla carriera di lui, almeno fino a quando non ottiene la parte in Da qui all'etenità (1953). Ma non sembra né scalfire né intaccare quella di lei. ormai solidamente attestata nel suo statuto di star. Le nevi del Kilimangiaro è piuttosto brutto. Mogambo è di poco migliore perché diretto da John Ford: entrambi sono ambientati in Africa (con Sinatra, Ava ha imparato a girare il mondo). L'attrice è costretta a confrontarsi con Jean Harlow che nello Schiaffo aveva sostenuto lo stesso ruolo vent'anni prima e sempre con Clark Gable. Ora Gable è invecchiato e quindi più malleabile: non occorre più l'esplosiva forza di natura ch'era la blonda-platino Harlow. Anche la bruna Gardner se la cava: aggressiva e sentimentale come John Ford la desidera.
Nel 1954 La contessa scalza di Manklewicz è l'autoritratto della diva come poteva darlo Hollywood senza avere a disposizione né una vecchia gloria come Gloria Swanson, né un regista grintoso come Billy Wilder (per non parlare di Stroheim). Il melodramma non era privo di risvolti ridicoli grazie al personaggio di Rossano Brazzi: un latin lover impotente, e proprio con lei. Ma rimane il film prediletto dai suoi fans. Affiancata da un Humphrey Bogart in veste di cineasta pigmalione e testimone. essa vi trasferisce infatti la propria biografia: le povere origini, la scalata al successo, i capricci e gli errori, le esigenze di donna e il cuore di bambina, la sua superba fisicità e quella infantile fossetta sul mento.
Questi i punti più rilevanti nella carriera della star. Che nel frattempo è anche una protagonista della vita mondana. del jet set internazionale, una snob odiosamata. una bevitrice sempre più cupa. Toccò il fondo girando in Spagna La Maja desnuda (1959); ma prima e dopo seppe fare di meglio, e sono i momenti che preferiamo ricordare. Fu persuasiva nel panni di una meticcia angloindiana in un kolossal di George Cukor, Sangue misto (1956). salvato dai suoi primi piani di estasi amorosa. E fu all'altezza del piuttosto impervio ruolo anche nel film drammatico di Huston La notte dell'iguana (1964).
Tra l'altro si deve proprio a Huston l'omaggio personale più sentito che le sia stato dedicato in cinema: il finale dell'Uomo dei sette capestri, nel 1972. L'attrice continuerà, magari in piccole parti, a signoreggiare l'inquadratura per un altro decennio: incarnò perfino la Lussuria nella prima coproduzione sovietico-americana, Il giardino della felicità, diretta ancora da Cukor. Ma nel curioso western hustoniano c'era qualcosa di più. La sua favolosa beltà era indubbiamente un po' sfiorita rispetto ai tempi eroici: cosicché alla vena autobiografica si aggiungeva ora un pizzico di intelligente ridimensionamento autoironico. E quel vecchiaccio di John Huston coronava l'opera, facendo si che un paladino da forca - Paul Newman, sex-symbol maschile come Ava Gardner lo era stato in campo femminile - disegnasse della donna, con dolcezza e con rispetto, un ritratto da cavalier cortese.

“l'Unità”, 26 gennaio 1990

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