17.2.19

Memoria. Porti chiusi: stragi di italiani sui lazzaretti del mare durante i viaggi per l’America (Gian Antonio Stella)



«La lunga sosta lì, davanti alla costa sognata da anni, a due bracciate da quel Brasile che aveva animato sere e sere di chiacchiere e di sogni nei filò nelle stalle, a un soffio da quell’America per la quale tanti si erano venduti la casa e le vacche e le pecore, fu un tormento». Il diario di Cesare Malavasi, partito per la «Merica» dalla provincia di Modena, è un documento eccezionale per ricordare le Navi di Lazzaro, titolo di un libro di Augusta Molinari (Franco Angeli), cariche di emigranti italiani che sognavano di «catàr fortuna» nei lontani continenti e furono respinti.
Anche i nostri nonni subirono feroci blocchi navali. Costati centinaia di morti. Il piroscafo Nord America, per citarne uno, fu respinto nel 1892 da ben tre Paesi: l’Argentina, l’Uruguay, il Brasile. C’era un’epidemia a bordo. E gli italiani, come scrisse l’americana Regina Armstrong nel 1901 su «Leslie’s Illustrated», erano visti tra gli immigrati più a rischio: «C’è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati…».
Non bastasse, ai problemi sanitari si aggiungeva l’immonda ingordigia di certi armatori. Dice tutto il caso della Carlo R., una nave merci riadattata al trasporto di «tonnellate umane» che, salpata da Genova a fine luglio 1894, si fermò a Napoli per caricar altri migranti. Manco il tempo di allontanarsi di 300 miglia, scrive Tomaso Gropallo in Navi a vapore e armamenti italiani (Bertello editore), e già c’era a bordo il primo morto. Colera. Buon senso imponeva l’inversione di rotta, ma il capitano Scipione Cremonini, per non obbligare l’azienda a restituire i soldi dei biglietti, decise di tirare diritto. Un errore spaventoso. Arrivata al largo di Rio de Janeiro con l’epidemia che falciava i passeggeri, la Carlo R. fu fermata: attracco vietato. Cremonini cercò di forzare il blocco, le cannoniere di Rio risposero sparando alcuni colpi intimidatori. Disperati, i nostri nonni tentarono una rivolta. Domata con l’arresto e la reclusione nelle stive più malsane. Costretti a riattraversare l’oceano, vennero dirottati all’Asinara per una quarantena. Nell’autodifesa, lo stesso comandante fornì il numero dei morti: 141 per il colera più 70 per altre epidemie.
Non diverso fu il destino di altri piroscafi. Come il Matteo Bruzzo, una carretta del mare che più volte aveva rischiato il naufragio. Caricata «una turba» di 1.200 emigranti quasi tutti italiani, si legge in un rapporto del ministero dell’Interno, la nave salpò da Genova per Montevideo il 30 ottobre 1894 quando una epidemia di colera si era già manifestata pure in Liguria: «Sapevasi che le repubbliche del Plata» cioè l’Argentina e l’Uruguay «avevano dichiarato chiusi i loro porti alle provenienze da luoghi infetti, ma speravasi che il piroscafo sarebbe stato immesso a libera pratica dopo una quarantena in quei lazzaretti. E con questa speranza, fondata o no, ma sicuramente non bastevole ragione per giustificare la partenza, si uscì dal porto di Genova». Una scommessa. Rischiosissima.
Arrivati un mese dopo a Montevideo i nostri immigrati furono, com’era scontato, respinti. A metà novembre, decimati dai lutti, gli italiani chiedevano aiuto alle autorità brasiliane. Ma alla vista del bastimento «alcune cannonate partite dal forte di Santa Cruz lo obbligarono a fermarsi ed a retrocedere, in attesa di ordini. E furono d’abbandonare immediatamente le acque del Brasile». Il giorno dopo il piroscafo entrò comunque in rada, invocando acqua e provviste. D’accordo. Ma «il comandante del porto avvertì il capitano che qualunque mossa fosse fatta a bordo per isbarcare, il piroscafo sarebbe stato preso a cannonate a fior d’acqua».
Aggrappati al sogno di spuntarla, i nostri tennero duro per giorni. Certo, c’erano anche lì lazzaretti per i malati costretti a una quarantena. Gli immigrati, però, erano «foresti». Venivano dopo. Prima i brasiliani. Prima gli uruguagi. Prima gli argentini. E fu così che, riprende il rapporto italiano, «due navi da guerra brasiliane si avvicinarono ed intimarono nuovamente la partenza. Ed il piroscafo si fece il giorno stesso sulla via del ritorno». Una traversata di pianti e morti. Quando i sopravvissuti arrivarono a Pianosa era il 20 dicembre. Ripartirono per Livorno il 27 gennaio. Un calvario. Lo stesso vissuto quell’anno dall’Andrea Doria, costretto al tragico gioco dell’oca attraverso l’oceano fino al blocco navale brasiliano e al ritorno al punto di partenza…
Cesare Malavasi, il cronista autore de L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, incrociò due volte, davanti alla costa di Rio quell’altra nave di sventurati. Prima quando la vide mentre «recavasi a dar sepoltura ai cadaveri che aveva a bordo» poi quando «ritornò il vaporino Nereide con 2 uffiziali a bordo dai quali si seppe che i morti nel piroscafo Doria erano 92». Un numero che nel viaggio di ritorno sarebbe quasi raddoppiato fino a salire a 159. Una strage.
Tutti quei nostri nonni vissero storie simili a quelle narrate dal cronista del Remo. Sul quale il colera e la difterite salirono a bordo durante l’imbarco a Napoli di 700 partenti supplementari e fecero tante vittime da generare una muta rassegnazione: «Siamo al giorno 4 ottobre, sonvi morti e ammalati; ma io per non annoiare il lettore farò cenno di un solo caso». La fame, le notti pigiati nei dormitori, il rancio scadente («producendo alla massa dei passeggeri diarree, dissenterie…»), l’attesa impaziente: «È il 4 settembre, il cielo è sereno, il mare calmo e sul volto d’ognuno si legge un’ilarità indescrivibile. Si parla solo dell’America, si pretende precisare il giorno e persino l’ora del desiderato arrivo…». L’angoscia all’Isola Grande: «Sul pennone sventolava la bandiera gialla».
Un centinaio di poveretti, «che non ne potevano più, implorarono il comandante di far cessare l’agonia. Il comandante allargò le braccia. Intanto continuavano a morire vecchi e bambini, uomini forti come tori e donne dal fisico fragile e minuto…» Fino allo spossante e cupo ritorno verso l’Italia: «Il preciso numero dei morti ben rare volte si conosce perché di nottetempo, quando tutti sono nelle loro cuccette, vengono buttati a mare». L’arrivo all’Asinara, dove erano già ormeggiati o in arrivo altri «4 vapori con un 7.000 persone a bordo». Le notti nei ricoveri «sdraiati su di un grosso strato di arena del mare, la quale ne forma il pavimento», il «vento frigidissimo», l’assenza di acqua dolce, le fosse comuni per i morti, saliti a 91, «scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine». Nessuno ricorda più quei decessi, all’Asinara. Né sa più dove fossero le fosse comuni. Eppure il piccolo grande cronista del Remo aveva scritto «perché gli uni apprendano che tante rotte dell’emigrazione sono una tratta di bianchi» e «perché gli altri ne ritraggano ammonimento, allorché, sorrisi dalla speranza di un lucro onorato, daranno l’addio alla dolce patria».

Corriere della sera, 23 luglio 2018

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