3.2.19

Quando la sterminatrice era uno spettacolo. Un libro sul Trionfo della morte di Palermo (Antonio Scurati)


I cimiteri sono deserti, anche nel giorno dei morti, le chiese evacuate da weekend in riviera, gli ospedali confinati nelle suburbie. Per secoli la civiltà cristiana ha messo la morte al centro della vita, ora noi l’abbiamo confinata ai suoi margini oscuri. Mai come in questa nostra epoca è stato possibile assistere quotidianamente, abbondantemente, immediatamente, accendendo un computer o un televisore, alle immagini mediate di morti altrui e mai come in questa epoca l’immagine della morte ci ha lasciati orfani di una meditazione sulla morte. Da sempre, nessuna cultura, in qualsiasi epoca e luogo, è nata senza un culto dei morti, fino alla nostra epoca, alla nostra cultura. Un rivolgimento antropologico profondo, una novità senza precedenti. Eppure la morte non ha mai smesso di trionfare.
Il «Trionfo della morte» di Palermo è il titolo dell’ultimo libro di Michele Cometa, studioso di letterature comparate e cultura visuale all’Università di Palermo (Quodlibet editore, pp. 170, € 16), dedicato al formidabile affresco originariamente collocato nel cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palazzo Sclafani e ora custodito nella Galleria Regionale della Sicilia. Indimenticabile per chiunque lo abbia visto, il gigantesco dipinto (sei metri per sei) racchiude l’intera enciclopedia iconografica della meditazione sulla morte di un’epoca ossessionata da essa, lo specchio dell’Europa medievale funestata dalla peste da più di un secolo eppure sorprendentemente aperta a un futuro ignoto e diverso.
Cometa esordisce con una ékphrasis, una meravigliosa descrizione verbale dell’opera d’arte visiva, un esercizio retorico antico eppure modernissimo, nella convinzione che l’attuale trionfo della visualità non comporti - come credono i reazionari, i malinconici masturbatori di libri defunti, i torvi della retroguardia accademica inutili a sé stessi e al mondo - la competizione storica con la parola, né tanto meno l’emarginazione della cultura libresca, ma una superiore sintesi di entrambe.

Solo pochi osano guardare
E, così, la parola sapiente ed evocativa interroga trentaquattro tra uomini e donne, più quattro cani, un cavallo e altri minuscoli animali, tutti sovrastati dalla freccia sterminatrice che solo pochi tra loro osano guardare. E sono i mendicanti, gli storpi, i derelitti che dal margine dell’affresco implorano una liberazione. Cometa li interroga nel vertiginoso gioco reciproco di sguardi che si scambiano reciprocamente e che scambiano con noi che, a secoli di distanza, li stiamo ad ammirare. Qui una prima rivelazione colpisce l’occhio che interroga ciò che gli occhi non osano guardare: già nel Medioevo, incantato dalla grande sterminatrice, il trionfo della morte era il trionfo dello spettatore. Soltanto che allora, prima della rimozione del tragico, fissare i propri occhi in quelli del morituro significava che l’abisso ci avrebbe restituito lo sguardo. Allora, come oggi, la morte ci ri-guarda. Oggi, però, voltiamo la testa.
Consapevole di ciò, Cometa interroga il grande spettacolo del mondo nell’istante della sua fine, ammaliato dalle sue tessiture narrative più che dalle disquisizioni erudite sulle sue fonti. Non si chiede «chi lo ha dipinto?» ma «quale storia vi si narra?». E qui cade la seconda rivelazione: vi si narra una storia che giunge fino a noi. Sì, perché nelle immagini di un’Europa medievale perseguitata dalla peste come in quelle dei migranti odierni che vengono a morire sulle nostre coste, ciò che davvero conta, al di là di ogni disquisizione attributiva o distributiva («chi lo ha dipinto?», «che ne facciamo?”), «è il riconoscimento del segnale che da questa immagine si diparte, una luce che intercettiamo e comprendiamo a distanza di secoli perché ci parla di un’esperienza che s’irradia nel nostro mondo, nel nostro tempo», ciò che conta davvero è l’onda immemoriale che attraversa tutte le esperienze della morte, la storia che comprendiamo oltre ogni cronologia, la nostra storia senza fine.

Il «nulla» che dà un senso
L’occhio del critico, sempre puntato sull’elemento fatale, ci accompagna a scoprire le forme dell’affresco - ellissi, onde, quadri, personaggi, cataste, orti - fino alla penultima scoperta, quella della donna morente che non implora più salvezza ma solo compagnia, quella del grido che dal fondo dei secoli non implora più Dio ma gli uomini e chiede soltanto «Non lasciarmi!». È la scoperta di quelle struggenti figure di consolatori pietosi che soccorrono gli amici morenti senza aver più nulla da dire né da opporre alla morte, eppure li soccorrono, animati da una devozione moderna che non ha più nulla del sentimento ultraterreno che la religione ha coltivato per secoli ma è diventata semmai «la forma specifica del prendersi cura dell’altro nel mondo abbandonato da Dio».
Ecco l’ultima rivelazione di questo libro abbagliante: il culto dei morti non è estinto, prosegue e prospera nell’attuale, dilagante storytelling. La pulsione narrativa che eccita ogni organo del nostro mondo disertato dagli dei si rivela come la principale manifestazione di quella devozione moderna che ci spinge a soccorrere l’amico morente offrendogli come antidoto alla pestilenza, in mancanza di altro, un racconto, una narrazione del suo nulla, che restituisca alla vita tutto il suo senso.
Come ha scritto Stephen Greenblatt, nelle arti e in letteratura tutto cominciò con il desiderio di parlare con i morti. Il libro di Michele Cometa dimostra che non solo tutto continua con quel desiderio nei nostri modesti romanzi e nelle nostre nottate davanti alle serie tv, ma anche che in qualche raro, felice caso, come il suo, i docenti di letteratura si guadagnano fino in fondo lo stipendio di «sciamani di ceto medio».

La Stampa 31 maggio 2017

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