7.2.19

Quando Lucio Magri era democristiano (Luciana Castellina)

Per “Il Saggiatore” uscì nel 2011, a un anno dalla morte, una antologia di saggi di Lucio Magri che copriva un arco temporale piuttosto lungo, dal 1962 (l'intervento al convegno sul neocapitalismo in cui discuteva e polemizzava alla pari con Giorgio Amendola) al 1993 (la Relazione al Congresso di Rifondazione Comunista del 1993, di fatto ignorata dall'Assemlea che avrebbe incoronato Bertinotti, al tempo innamorato del subcomandante Marcos). La scelta tende a rivendicare per Magri una sostanziale linearità, a presentare la sua esperienza di intellettuale e dirigente comunista come una ricerca travagliata e non priva di intoppi ma, nondimeno, coerente e tenace. È una lettura che non condivido del tutto, ma che è alla base del titolo del volume: Alla ricerca di un altro comunismo.
I testi sono preceduti da una intervista a Lucio Magri di Aldo Garzia e Famiano Crucianelli, suoi amici e compagni, una sorta di “ultima conversazione”, più bilancio che testamento prima dell'addio alla vita e da una prefazione di Luciana Castellina, che è molto più di una prefazione. È un contributo importante, tanto affettuoso quanto denso di notizie a molti sconosciute, alla biografia di un dirigente atipico, ma importante del comunismo italiano, certamente una delle intelligenze più vive di un movimento che di intelligenza, a mio avviso, non mancava affatto. 
Dallo scritto di Luciana Castellina riprendo alcune pagine che raccontano le origini cattoliche e “democristiane” dell'impegno politico di Lucio Magri e, con lui, di altri importanti figure della nostra storia comunista. (S.L.L.)


Fra i suoi difetti Lucio aveva anche l’intransigenza. Rigidissima, non integralismo, perché, anzi, era capace di continue autocritiche politiche; ma non sopportava l’incoerenza, l’eclettismo, l’assenza di rigore. Tutto doveva avere una logica e si arrabbiava con chi non riusciva a spiegare come da un certo inizio si sarebbe arrivati a certe conseguenze. Poiché in politica questo esercizio è assai frequente ha finito per litigare con molte persone.
Non si trattava, naturalmente, di integralismo religioso. Se le origini della sua formazione avevano radici nelle organizzazioni cattoliche era solo perché a Bergamo la sinistra era difficile incontrarla. Non c'era quasi. «I preti e i comunisti» che - come constatarono gli americani appena sbarcati, erano gli esclusivi abitanti dell’Italia - erano geograficamente aggregati, in regioni bianche e rosse. E Bergamo era fra le province più bianche. La dialettica politica postbellica, che era quanto a Lucio interessava dalla prima giovinezza, si esauriva dunque nella sventagliata galassia della Democrazia cristiana, che allora comprendeva, oltre a una destra consistente, anche una sinistra rilevante, l’ala dossettiana. E fu cosi che Lucio Magri cominciò con l’essere un dirigente dei gruppi giovanili Dc, che più di ogni altro settore di quel partito cresceva all’ombra del deputato che poi abbandonò tutto, in opposizione alla definitiva scelta neocapitalista della Dc di Fanfani; e si fece prete, presto esiliandosi a Gerusalemme.
I gruppi giovanili erano allora guidati da Franco Maria Malfatti, in seguito ministro e addirittura presidente della Commissione europea, che però all’epoca scriveva sulla rivista ufficiale dell’organizzazione – “Per l'Azione”, diretta da Bartolo Ciccardini - «non credo di sbagliare se dico che l'uscita delle opere di Gramsci ha rappresentato un avvenimento atteso e un lievito culturale importantissimo per la gioventù Dc». Malfatti aveva grande stima di Lucio e, quando a nome di Enrico Berlinguer gli andai a chiedere di andare a Varsavia come osservatore al Congresso dell'Unione internazionale degli studenti (entro cui si era ormai consumata la rottura con le organizzazioni non socialcomuniste), mi rispose che per lui, delegato nazionale, era impossibile, ma che vi avrebbe mandato una persona di sua piena fiducia, uno di Bergamo, Lucio Magri. Le circostanze in cui si stabilì questo accordo furono curiose: allora, era il ’53 e la guerra fredda imperava, che io andassi nel suo ufficio in piazza del Gesù, o che lui venisse nella sede della Fgci, a Botteghe Oscure, era impensabile. Terreni neutri non ce n’erano, tantomeno era adatto un bar. E fu così che salii sulla macchina di Malfatti e andammo a parlare, chiusi nella vettura, in piazza del Quirinale, disturbati da un ambulante che voleva mi comprasse una rosa, che infatti, per togliercelo di torno, mi regalò.
Occorreva, per Magri, il visto per la Polonia e così la prima volta che lo vidi in faccia fu attraverso le foto tessera e il passaporto che mi inviò a Roma affinché portassi a buon fine la pratica. Dovetti recapitarglielo a Milano, in tempo perché prendesse il treno di mezzanotte per Varsavia, mentre io non potei partire perché all’ultimo il questore di Roma mi negò per l’ennesima volta il passaporto, essendo io già una pluriarrestata. Ci incontrammo al bar Zucca, in galleria, e la conoscenza ebbe come quasi tutti sanno qualche seguito: politico, perché è insieme che abbiamo fatto “il manifesto”, e sentimentale, perché anni dopo e per parecchio tempo, siamo stati compagni di vita. Non prima, ovviamente, che lui si fosse iscritto al Pci, altrimenti sarebbe stato impensabile per ambedue.
I giovani Dc, così come la corrente dossettiana da cui traevano ispirazione, erano dominati dalla questione comunista: aprire al Pci era considerato il solo modo di avviare una politica anticapitalista e contrastare la scelta borghese ormai compiuta dai fanfaniani. Le incertezze che ancora in quegli anni percorrevano il mondo cattolico spiegano come sia stato possibile che su “Per l’Azione” siano potuti apparire articoli impensabili solo qualche anno dopo. E così troviamo proprio in quelle pagine un articolo di Lucio Magri, intitolato I limiti del riformismo, più o meno lo stesso di un saggio scritto vent’anni dopo sul “manifesto”, in cui è detto: «La nostra dimensione rivoluzionaria è stata crudelmente compromessa dal ricatto di una politica angusta, che ci obbliga a una spossante attesa del futuro».
Com’era evidente la Dc fanfaniana non poteva sopportare una organizzazione giovanile di questo tipo e infatti il suo esecutivo venne sciolto, alla vigilia del congresso del partito, nel giugno del ’54 a Napoli. Magri, che dal ’53 era succeduto a Ciccardini alla direzione di “Per l’Azione”, non era riuscito a far uscire neppure un numero della rivista: ogni bozza venne da Fanfani gettata nel cestino, fino a quando la rivista stessa non cessò le sue pubblicazioni.
E però una parte dei giovani Dc non si rassegnò: consumata la separazione con chi fra loro aveva scelto di adeguarsi e intraprendere brillanti carriere governative, promosse altre pubblicazioni: "Il ribelle e il conformista", diretta da un altro bergamasco, Carlo Leidi, molti anni dopo militante del manifesto. E poi la rivista “Prospettive”, in cui ritroviamo i nomi di tutti coloro che alla fine abbandonarono la Dc per approdare nelle file comuniste: Chiarante, Baduel, Guerzoni e tanti altri. Ciccardini e Baget Bozzo dettero invece vita a “Terza generazione”, in cui un ruolo importante fu giocato da Felice Balbo, una rivista che per una breve fase cercò di collocarsi fuori dalla De ma non contro di essa.
La vicenda dei gruppi giovanili Dc non fu un caso anomalo. Una crisi analoga subì la ben più corposa Gioventù dell’Azione cattolica, la Giac, i cui presidenti, Carlo Caretto e poi Mario Rossi, furono obbligati a dimettersi in contrasto con la linea integralista e fortemente anticomunista di Gedda, ambedue seguendo la strada di un appartato sacerdozio missionario, già imboccata da Dossetti.
Il Pci, e tanto più la Fgci, non capirono il travaglio della nuova generazione cattolica. Continuarono a proporre riduttive tematiche rivendicazioniste (i campi sportivi per i proletari, la riduzione delle tasse universitarie per gli studenti) come terreno di incontro, laddove il problema posto dal gruppo di giovani Dc che alla fine abbandonò il partito conteneva una domanda assai più ampia e strategica. Lucio Magri fu molto ferito da questa incomprensione, lo racconta anche nella conversazione con Garzia e Crucianelli, quando riferisce del deludente incontro che lui e Chiarante ebbero, proprio a casa mia, con Enrico Berlinguer. E sulla questione cattolica è poi tornato spesso, sia quando entrò nel Pci, sia, in seguito, quando divenne segretario del Pdup, come prova un convegno promosso sulla questione nel ’75. Una problematica anomala rispetto alla cultura molto «classista» della nuova sinistra, in cui peraltro finirono per militare molti ragazzi provenienti dalle organizzazione cattoliche.
In polemica con la cultura laico-radicale Magri insistette nella sua relazione su un dialogo che si fondi su valori e bisogni, quelli di una riforma intellettuale e morale. Contro la rimasticatura di un’etica individualistica, contro un punto di vista anarchico libertario, di mera insubordinazione in cui si va involgendo la spinta del ’68.
Scrive Del Noce, in merito a questa vicenda rimasta assai in ombra nella storiografia che racconta i primi anni cinquanta (in Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista), che si trattò di «un fenomeno singolarissimo, di cui l’esempio senza paragone più importante sta nella vicenda della sinistra Dc di Dossetti in cui il capo abbandonava, per rigorosa coerenza intellettuale, e per nient’altro, la politica. Ora la gioventù Dc era stata influenzata in maniera decisiva da questo indirizzo. A chi rivolgersi ormai dopo il silenzio politico del maestro? Sta di fatto che negli anni approssimativamente tra il ’53 e il ’58, l’unico pensatore cattolico che ebbe udienza presso la gioventù Dc fu Felice Balbo. Né può essere sottovalutata l’importanza che ebbe la rivista “Terza generazione”, ispirata da lui anche se la sua durata fu breve».
In realtà l’incontro con Balbo fu importante soprattutto perché fu attraverso di lui che la parte più decisa dei Gruppi giovanili entrò in contatto con il leggendario Franco Rodano, indiscussa autorità dei cattolici comunisti ma anche assai influente presso il Pci stesso, sebbene Rodano sia rimasto sempre appartato. E però con Balbo i giovani Dc si trovarono su una soglia attraverso la quale stavano procedendo in direzione inversa: un gruppo importante di catto-comunisti (Balbo, Fedostiani e altri) abbandonava il Pci, loro andavano alla sua scoperta.
E così che Magri, assieme a Baduel e a Chiarante, approda al “Dibattito politico”, il settimanale (in seguito quindicinale) diretto da Mario Melloni (futuro Fortebraccio, il popolarissimo corsivista dell’Unità) e Ugo Bartesaghi, deputati Dc espulsi dal partito per avere votato contro la creazione della Ueo (riarmo europeo), ma di fatto da Franco Rodano.
La pubblicazione, in cui Magri scrive moltissimo (e con una molteplicità di pseudonimi) di tematiche sempre più connesse con il confronto politico e teorico interno al Pci, ebbe una sorte singolare: pensata come sede di dialogo fra cattolici e comunisti, finì per avere grande influenza nelle file stesse del Pci, dove si cominciava a discutere dell’ipotesi di centro-sinistra, un’opzione cui Rodano era fortemente contrario. Egli sospettava infatti del rapporto Dc-Psi e forze laico-borghesi, privilegiando un rapporto diretto Dc-Pci, fondato sul fatto che gli appariva assai più anticapitalista, per valori e interessi sociali, la base popolare e ancora contadina di quel partito rispetto ai ceti medi borghesi rappresentati da Psi, Pri, Psdi. Una posizione, questa, che si incontrava per molti versi con quella della sinistra comunista e che però portò Rodano, molti anni più tardi, a sostenere il compromesso storico, che era in realtà tutt’altra cosa.
È un fatto che in quegli anni Lucio Magri si trovò così a essere un eretico del Pci ancor prima di iscriversi a quel partito, cui avrebbe voluto aderire già subito e non potè. Come racconta lui stesso a Garzia e Crucianelli, resterà fuori dal Pci più a lungo di quanto avrebbe auspicato perché gli stessi dirigenti del partito, in nome di un accorgimento tattico un po’ miope, preferivano di gran lunga che si occupasse di dialogare con la sinistra Dc piuttosto che vederlo intromettersi nei propri delicati confronti interni.
Ci riesce, finalmente, nel 1958. E subito decide di abbandonare Roma per affrontare una prova sul terreno, nella piccola Federazione della sua città, Bergamo.

Lucio Magri, Alla ricerca di un altro comunismo, A  cura di Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Aldo Garzia, Il Saggiatore, 2011

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