12.3.19

Corea del Nord. La fabbrica dell’arte kolossal che riempie le casse di Kim (Edoardo Malvenuti)



Monumenti alti decine di metri, dipinti con decine di personaggi. I mille artisti del centro Mansudae producono opere gigantesche che trovano committenti dalla Germania al Senegal

Fuoco e fiamme. E fanti, elefanti, templi, nella giungla: un dipinto murale lungo più di cento metri, e decine di migliaia di personaggi che agitano questa fastosa celebrazione pittorica della capitale dell’impero Khmer durante il XII secolo. La gloria di Angkor è celebrata nel nuovo, scintillante museo Panorama: l’ennesima macchina per turisti di Siem Reap. Tutto made in Cambogia? No. Quello che si trova sotto il tetto spiovente di questo edificio è interamente made in Corea del Nord: l’investimento – di almeno 24 milioni di dollari –, la realizzazione artistica e la gestione. Pyongyang esporta arte, e lo fa da anni. Questo museo è solo l’ultimo di una serie di lavori commissionati e realizzati dal colossale Mansudae Art Studio, aperto e attivo dal 1959 nella capitale della Repubblica popolare democratica di Corea.
Il Mansudae, che ha una superficie di 120 mila metri quadrati e impiega circa 4 mila persone – fra cui un migliaio di artisti –, lavora su due fronti: in patria, e all’estero attraverso la divisione Overseas Projects. Tutto, o quasi tutto, ciò che di artistico e architettonico è creato nella terra dei Kim è pensato e realizzato in questo perimetro d’arte non lontano dal centro della capitale.
Il Grande Monumento, con le statue colossali di Kim Il-sung e Kim Jong-il, o l’imponente gruppo statuario (falce, martello e pennello) che celebra la fondazione del Partito dei lavoratori della Corea sono i due esempi più imponenti di queste creazioni. Ed è proprio questo savoir-faire per le opere ciclopiche che il Mansudae esporta all’estero come un’eccellenza nazionale. Spesso in Paesi africani, e non di rado per celebrare qualche presidente devoto al proprio ego: la divisione internazionale del centro d’arte lavora dal 1970 e ha costruito negli anni monumenti, stadi e palazzi dal Congo alla Cambogia, passando per la Namibia, lo Zimbabwe e persino la Germania, che ha affidato allo studio la riproduzione della Fontana della Favola a Francoforte, distrutta durante la Seconda guerra mondiale.
Ma la creazione più celebre del Mansudae in terra straniera è il Monumento al Rinascimento africano, un gruppo statuario alto 49 metri che domina Dakar, la capitale del Senegal. Più alto della Statua della Libertà o del Cristo di Rio, il monumento, voluto dall’ex presidente Abdoulaye Wade, ha avuto una storia travagliata. Affidato ai nordcoreani in quanto meno cari della concorrenza, l’opera è stata attaccata dall’opinione pubblica perché la donna prosperosa e poco coperta del complesso offende la sensibilità religiosa della popolazione musulmana. In più, lo stesso presidente è dovuto intervenire dopo il primo svelamento dei volti delle statue: tratti somatici troppo asiatici per diventare emblemi della nuova Africa. Wade ha richiesto e ottenuto un lifting statuario per “africanizzare” il monumento.
Per i lavori all’estero, squadre di artisti e operai nordcoreani si installano in loco e lavorano fino alla realizzazione della commessa. «Gli operai possono restare nel Paese dove l’opera è in costruzione anche anni. Un mio amico artista ne è rimasto tre nello Zimbawe». La voce è di Pier Luigi Cecioni, unico referente dello studio Mansudae per l’Occidente. Lui però non si occupa dei grandi progetti internazionali, che sono gestiti direttamente dal governo: il suo compito copre la vendita (online) e l’organizzazione di esposizioni in Italia di pezzi d’arte prodotti a Pyongyang.
«È cominciato tutto per puro caso», racconta Cecioni a pagina99. «Nel 2005 ero presidente di un’orchestra di musica classica di Firenze, e una nostra delegazione era stata invitata in Corea del Nord per un festival. Quando me l’hanno detto ho pensato ci fosse un errore, doveva per forza essere l’altra Corea. E invece no». Appassionato di arte, Cecioni quando arriva sul posto chiede di poter vedere qualcosa della produzione artistica locale, così è accompagnato al Mansudae. «Un posto incredibile dove centinaia di artisti, tra i 25 e i 75 anni, tutti laureati nelle scuole d’arte, lavorano ogni genere di materiale, si dedicano alle tecniche più diverse». C’è la pittura coreana tradizionale a china su carta, gli oli, i poster, i mosaici, il ricamo e la pittura con pietre preziose polverizzate.
Una produzione artistica standardizzata, un’arte ufficiale quindi? In un certo senso, ma bisogna essere precisi. «In una realtà come quella nordcoreana che riflette una società confucianamente ultra-ortodossa dipinta da un sottile strato di vernice rossa, non si può parlare di arte ufficiale, perché di fatto l’arte è sempre stata tutta ufficiale», ci spiega Maurizio Riotto, professore di lingua e letteratura coreana nell’Università “L’Orientale” di Napoli. E continua: «L’iniziativa del singolo artista non può essere considerata. Questo deve inquadrarsi in un gusto ufficiale dal quale non si può derogare, oggi come cinque secoli fa. In Estremo Oriente, del resto, ripetere all’infinito uno stesso tema non è mai stato motivo né d’imbarazzo né di vergogna: semmai, la bravura e l’originalità dell’artista si rivelano nel modo di trattare un tema tramandato da secoli».
Per gli artisti del Mansudae è un onore poter lavorare in questa città dell’arte. Non per i soldi, in Corea del Nord gli stipendi sono uguali per (quasi) tutti, né per la gloria. Piuttosto per il senso di collettività inculcato dalla propaganda: «L’apparato mostra in modo ossessivo ritratti eroici dei leader. L’immagine culto di Kim Il-sung come padre benevolo è mostrata per esempio nella visione della “grande famiglia socialista” in cui Kim Il-sung, e più tardi anche il figlio Kim Jong-il, il partito, e il popolo coreano sono legati con un unico cuore e un’unica mente. Sono un corpo solo, membri di una famiglia unita dal sangue. Sono figure mitizzate e come tali vengono venerate», spiega a pagina99 Giuseppina de Nicola, coreanista e antropologa docente del corso di lingua e letteratura coreana alla Sapienza di Roma.
Anche l’entrata del Masudae è “sorvegliata” da due immensi ritratti di Padre e Figlio della nazione. Alcune loro indicazioni hanno direttamente determinato lo sviluppo della pittura nordcoreana contemporanea. È stato Kim Il-sung, negli anni ’60, a rendere accettabile la pittura a olio e negli ’70 a valorizzare il paesaggio come soggetto pittorico. Il figlio è stato ancora più esplicito: «Un soggetto deve essere pitturato in modo che il suo significato sia comprensibile a chi lo guarda». Niente arte astratta o concettuale in Corea del Nord, quindi. E a sfogliare il catalogo sul sito del Mansudae Art Studio lo si nota immediatamente: niente avanguardismo, ma quadri oriental-bucolici, paesaggi urbani e poster che celebrano il lavoratore e la vita nel “paradiso” dei Kim. Ma tra tutte queste opere una serie salta all’occhio, per ricordare qualcosa a noi italiani. Quando agli ottavi della Coppa del mondo di calcio, allora Coppa Rimet, nel ’66 in Inghilterra ci siamo fatti infilare da un diagonale di Pak Doo-Ik. Quel giorno è entrato nella loro storia sportiva e dell’arte. Il titolo è una lezione amara da ricordare: One can always lose.

Pagina 99, 5 mazo 2016

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