29.3.19

Florence Nightingale,«l’infermiera inglese». Una icona ottocentesca rivisitata da Masolino d’Amico (Viola Papetti)



È meglio godersi un breve, piccante, saggio biografico o percorrere il lungo interessante iter che una biografia standard, informatissima, ci propone?
Molto dipende da chi scrive e da chi è l’oggetto della scrittura, ovviamente. Ma personaggi ardui, verticali come i vittoriani inglesi, tutti d’un pezzo nelle loro pazzie e nelle loro virtù, anch’esse sospette, è meglio servirli in piccole dosi: freddi, sepolti sotto una salsa esotica. Un biografo raffinato come Lytton Strachey cuoce a fuoco lento un soggetto durissimo, Florence Nightingale (nata nel 1820 a Firenze, da cui il nome), la segue nella sua lunga vita – morì a novanta anni –, illustrando le numerose imprese, mosse dalla sua potente vocazione infermieristica. Ora, Masolino d’Amico sfida il grande biografo in un saggio ancor più breve del suo, ma che si avvantaggia di una prospettiva diversa, L’infermiera inglese (Skira, pp. 92, e13,00). Strachey aveva a disposizione l’ottima biografia di Edward Cook e una memoria ancora viva di quella che veniva chiamata la «dama con la lampada», mentre d’Amico si avvale, oltre agli scritti lasciati da lei, di studi più recenti. Strachey sferra un colpo da maestro proprio all’inizio: «Tutti conoscono la popolare figura di Florence Nightingale, la santa donna che si sacrificava per gli altri… consacrando con lo splendore della sua bontà il giaciglio del soldato morente… Ma la verità è un’altra . Un dèmone la possedeva... Così accadde che la vera Nightingale fosse più interessante di quella leggendaria e anche meno gradevole».
D’Amico inverte i termini: la donna leggendaria oggi si rivela funzionale alla nostra mania igienica e salutista, mentre il suo dèmone, la sua magrezza, il suo vago misticismo, la sua sessualità ancor più vaga, non ci provocano. I due ragazzi che ne parlano, i consueti dialoganti di d’Amico, il giovane De Witt III, americano sempre in cerca di un soggetto adatto alla televisione, e la sua informatissima fidanzata Saffron, al momento ricoverata in una clinica svizzera, la inquadrano con un linguaggio nuovo, agile e disinvolto, entro una visione tutta attuale della sua frenetica attività riformatrice delle strutture ospedaliere, militari, della stessa cultura assistenziale di tutto il paese. L’icona ottocentesca, troppo ovvia, si è esaurita nei primi film su di lei all’epoca del muto, due lungometraggi, del 1936 e del ’51, una commedia data a Broadway negli anni trenta, uno sceneggiato televisivo inglese recente. La sua improvvisa apparizione nell’ospedale di Scutari (Istanbul), il 4 novembre 1854, dieci giorni dopo la disastrosa battaglia di Balaclava, con un piccolo battaglione di infermiere, provvista di una congrua somma di sterline raccolte dal Times, con cui acquistò le attrezzature elementari per rimediare alle raccapriccianti condizioni in cui erano ammassati morti, morenti, feriti, aveva del miracoloso. E gettò luce non solo sulle responsabilità che portarono a quella disastrosa sconfitta, ma sull’intera gestione della guerra e dell’esercito. Alla fine della guerra «si calcolò che in sei mesi il 73 per cento dei caduti non erano morti in combattimento, ma per malattia».
Quella di Florence Nightingale fu anche una esasperante battaglia contro l’ostruzionismo delle gerarchie militari, la macchina amministrativa, le avversità politiche. Usò per le sue sacrosante battaglie amici e amiche e li ebbe accanto a sé fino alla fine. I suoi consigli o meglio i suoi dogmi si rivelarono sempre utilissimi, eccetto quando chiese agli ospedali militari indiani di tenere aperte le finestre. Ma a causa del caldo straordinario, tutto era tappato fino a sera, e solo allora si aprivano le finestre. «Glielo dissero, ma lei non volle sentire ragioni, e fu inflessibile».

Alias – il manifesto, 5 luglio 2015

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