11.3.19

Giorgio, malinconico tapiro. Ricordo di Manganelli. (Pietro Citati)



Conobbi Giorgio Manganelli nel 1957, a Roma, dove insegnava lingua inglese negli istituti tecnici. Ricordo ancora il signore gentile ed esitante, precocemente maturo, con una lieve tendenza alla pinguedine, che mi guardava con l'occhio fisso e allarmato, come se pericoli lo minacciassero da ogni parte. Sì, certo, dappertutto c'erano e ci sono rischi: noie, fastidi, letterati, ministri, signore beneducate, genitori, demoni; ma il vero rischio era lui stesso le omissioni, gli errori, le incertezze, i delitti compiuti in sogno, i pensieri che non osava pensare sino in fondo, l'assenza completa di difesa dal mondo. Assomigliava a un animale: un animale uscito di casa a caccia di cibo, insidiato da altri animali feroci e pericolosi, che si nascondevano chissà dove.
Una volta, un nostro amico comune disse che Manganelli non era antropomorfo; e lui si divertì molto. Aveva sempre saputo di essere della razza di Gregor Samsa. Aveva sempre saputo che uno scrittore, se vuole discendere nell'immensa zona desolata, dove si annidano le ombre dell'inconscio e dell'essere, deve diventare animale: un ratto, un cane, un malinconico tapiro. In quegli anni, lavoravamo insieme per l'editore Garzanti. Ci vedevamo spesso. Il mio deferente amico era molto colto. Conosceva benissimo la letteratura inglese e italiana. Scriveva qualche saggio critico. Ma il suo stile era incerto, lento e affaticato: sembrava un professore più intelligente degli altri; ed ero certo che non possedesse talento. Non sapevo quanto mi sbagliassi.
Niente mi meravigliò più di quello che accadde una sera del 1964. Stavo in ufficio, seduto per caso dietro una scrivania, quando Manganelli venne molto lentamente verso di me. Sembrava più che mai cauto, timoroso, diffidente di se stesso: una copia più giovane dell'ingegner Gadda: sedette su una sedia; e mi porse un libro, scusandosi e vergognandosi per un atto così insensato: “Sì, l' ho proprio scritto io”. Era l'Hilarotragoedia: un libro bellissimo. L'onesto professore era diventato all'improvviso uno scrittore di genio.
Qualche anno dopo, mi raccontò la sua storia. Sull'orlo della disperazione, senza speranza di vivere né di morire, aveva conosciuto Ernst Bernhard, il quale l'aveva aiutato ad attraversare le ombre dell'inconscio. Per qualche anno, aveva vissuto con loro, discorrendo soltanto di loro e con loro. Tutte le forme della sua mente erano state suscitate dal sonno in cui giacevano abbandonate e oppresse: l'analisi aveva risvegliato, in lui, lo scrittore nascosto; la letteratura l'aveva salvato dalla disperazione. Non potrei dire quale fosse il suo male. Tutte le parole tecniche sono improprie. Se penso alla sua anima, come posso parlare di nevrosi, o di depressione, o di angoscia? Quando lo vedevo in certi momenti allora il suo occhio sembrava terrorizzato da ciò che scorgeva dentro di sé, avevo l'impressione che tutte le furie del mondo non solo le sue, ma anche quelle dei passanti che incontrava per strada, o degli amici, o dei nemici, o del diavolo o di Dio avessero scelto il suo corpo come luogo per manifestarsi. In qualche modo, attraverso eruzioni o infingimenti o tortuosità, volevano venire alla luce. Tutto avveniva nel sottosuolo dove si ascoltano i soffi, gli ansiti e i guaiti delle creature invisibili. Laggiù non abitano le creature che noi conosciamo: fiere di vivere, di pensare, di parlare, di possedere un io, una moglie e dei figli. Ci sono soltanto gli spettri. Laggiù non c'è luce: ma soltanto la notte: la tenebra; così intensa da fingere, a volte, di essere luce e crepuscolo e persino letizia. Non vorrei dare l'impressione che Manganelli fosse uno scrittore abbandonato all'inconscio. Sapeva benissimo che, dal sottosuolo, provengono i maggiori pericoli per chi scrive. Era troppo intelligente per perdere il proprio controllo. Così, in parte senza volerlo, compì una doppia trasposizione. In primo luogo, trasportò le figure dell'inconscio nella parte intellettuale della mente; così che tutti i brividi, le folgorazioni, le fosforescenze, i trasalimenti, le voci, i sussurri, le metamorfosi dell'inconscio vennero rinchiusi nella sua mente bene organizzata. Di rado, uno scrittore ha compreso con tale intensità la natura assolutamente intellettuale di ciò che scrive: non c'è nessun fuori; l'universo si è contratto nelle strette pareti del cranio. In secondo luogo, come Poe, egli trattò l'inconscio con gli strumenti della retorica tardoantica, rinascimentale e barocca. Sorsero così, nel primo periodo della sua attività, grandi edifici cimiteriali, ricoperti di festoni, di fiorami, di corazze, di paludamenti, di trofei, dei quali Manganelli era insieme il signore, il servo e il bibliotecario e, poi, edifici più svelti, eseguiti con una splendida autorità. Se questa letteratura conosceva un rischio, era insieme quello dell'informe e dell'eccesso trionfale di forma: rischio nato dallo strano abbraccio tra inconscio e retorica.
Non era facile trovare un luogo dove vedere Manganelli. Né casa sua, né casa mia, erano il posto giusto per incontrarci. Aveva scelto lui il luogo: un ristorante toscano presso Porta Pia; suppongo che abbia adottato un ristorante diverso per ogni amico. Ci incontravamo molto spesso: nel piano inferiore, in una specie di cantina, dove sedeva sempre con le spalle esposte al vuoto e ai rischi del ristorante. Sebbene ci conoscessimo da più di trent'anni, ci siamo sempre dati del lei: con cerimonie, delicatezze, attenzioni, affettuosità, come nessun tu, forse, mi ha mai consentito. Da principio parlavamo sempre della realtà. Non so quale fiducia avesse in me come critico letterario, ma certo aveva un'immensa fiducia in me come rappresentante del misterioso mondo reale (sebbene gli appartenessi ancora meno di lui); e mi aveva nominato suo ambasciatore permanente presso le istituzioni visibili dell'universo. Con quale gioia e avidità golosa parlavamo di anticipi e percentuali da estorcere agli editori, o di compensi mai uditi da chiedere ai giornali presso i quali collaboravamo. Come un bambino, amava il danaro; e credo che, come Goethe, avrebbe voluto ricevere sonanti e splendenti monete d'oro, invece che insipidi assegni.
Parlando, Calvino si inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici: anche a me riesce quasi impossibile infilare un condizionale e un congiuntivo, o tanto peggio un congiuntivo dietro un altro congiuntivo; ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall'istinto formale. Parlavamo per due o tre ore; e sebbene abbia tanto chiacchierato nella mia vita, di nessuna conversazione mi ricordo come di quelle che ho avuto con lui nella cantina romana. Nient'altro che pensieri: puri pensieri e ipotesi che, rinchiusi in quella cantina, tra le interruzioni dei camerieri (voleva, il professore, l'olio sulla ribollita? e andava bene il vino dell'altra volta? e il porto doveva essere bianco o rosso?), indagavamo quello che ci era possibile. Suppongo che mi usasse come un allenatore. Alla fine era contento, e mi ringraziava della serata. Non so bene di cosa mi dovesse ringraziare. Lo riaccompagnavo in macchina, lungo la Nomentana, o fino al quartiere Prati.
Malgrado le sue ironiche denigrazioni dell'intelligenza, era intelligentissimo. La sua mente non aveva paura di nulla: di nessuna sfida o pericolo; tanto meno di avventurarsi nell'ombra o nella tenebra o nel sacro, perché sapeva benissimo che la nostra mente non deve far altro che misurarsi con ciò che si nasconde. Ma, dalle sue discese nell'ombra, non derivava alcuna vaghezza. Quando parlava e tanto più quando scriveva, era preciso, concettoso, folgorante, aforistico un Baltasar Gracian del ventesimo secolo. Capire lo rendeva felice: la gioia di capire lo rendeva più intelligente; e allora comprendeva con una tale velocità da bruciare l'oggetto compreso. Restava solo la sua parola, a metà tra un'ala di pollo e i fagioli all'uccelletto, e, nell'aria, un po' di mefistofelico zolfo. Allora rideva. Come tutte le persone intelligenti, rideva volentieri. Quando gli ero vicino, capivo che, nel mondo, consumati tutti gli orrori, esaurita la tragedia e l'angoscia, restava un'immensa, inesauribile e incomprensibile, riserva di riso.
Non ho mai viaggiato con lui, sebbene avessimo progettato insieme un lungo viaggio in Turchia. Credo che viaggiare fosse per lui, almeno nei primi anni, il momento della liberazione: in Cina o Islanda o Norvegia o a Singapore, il groviglio faticoso del mondo, il carcere dell'esistenza e i passi delle Furie venivano dimenticati. Viaggiava in una condizione di estrema felicità o di estrema tensione: possedeva le cose con centinaia di occhi, le gustava con le papille frementi della lingua, con i polpastrelli sensibilissimi, con l' attenzione spasmodica del naso e delle orecchie. Visto dall'aereo o dalle finestre dell'albergo, il mondo diventava un cibo saporoso, che il più fantastico dei cuochi aveva preparato solo per lui, seduto davanti a un desco immaginario, con gli occhi scintillanti di cupidigia. Oppure il mondo era un libro: una sterminata bibliografia vivente, fitta di voci, sottovoci, lemmi, sottolemmi, bibliografie, che consultava come una Pauly-Wissowa. Il viaggio non poteva durare a lungo; ed egli ritornava, non disperato ma rassegnato e furibondo, nel carcere della vita.
Tutto, intorno a lui, era carcere: le mura altissime, le torrette delle guardie, le celle d'osservazione, le stanze dell' incubo. Gli alberi, le piante, i fiori, con i quali un piccolo dio benigno cerca di alleviare le condizioni di vita del carcere, non esistevano per lui. Con le spalle contro la finestra, Manganelli illudeva la prigione con la sola occupazione che riteneva degna di un uomo. Studiava le Idee, le sedi dell'Essere, i luoghi dove abita Dio e la morte. Aveva letto Platone. Ma nessuno era più antiplatonico di lui. Invece di abitare sul culmine delle luci, Dio era morto, e lui poteva raccontare soltanto di dei defunti o mai esistiti. E quel Dio o quegli dei morti non erano circondati dalle bellissime forme luminose che Platone incontrò nella Pianura della Verità, ma da spettri, cose non nate, vischiose apparizioni deformi. Questo era il regno dell'Essere coltivato da Manganelli. Sarebbe stato forse più giusto chiamarlo regno del Nulla.
Nell'ultima parte della vita, compì la sua discesa definitiva nell' inferno. Evocò le ombre, le loro sedi e le loro cosmogonie senza ricorrere più alla mediazione della retorica: con una prosa rapida ed intensa. Così si consegnò, inerme, nelle mani delle Furie. Non so se comprese pienamente la sua decisione. Certo, tanti anni prima, inducendolo a conoscere l'ombra, la letteratura l'aveva salvato. Ma la letteratura non salva mai nessuno, per sempre, perché ci impone delle domande ogni volta più grandi e intollerabili. Ora essa esigeva che egli andasse in fondo, raccogliendo senza timori le voci, gli squittii, le forme smozzicate delle creature infernali. Non poteva sostare davanti a nessuna scoperta od orrore; e doveva diventare, lui stesso, quelle ombre e quegli orrori. Le angosce crebbero, nell'ultimo anno della sua vita, senza lasciargli quasi tregua. Anni prima in India, aveva avuto l' impressione che le pareti del tempo si avvicinassero fino a schiacciarlo, e lui non potesse far altro, per sfuggire al tempo, che buttarsi fuori dalla finestra, dal diciottesimo piano. Ora era sempre più soffocato e schiacciato dal tempo. I demoni si erano impadroniti della sua anima, e immaginarono per il suo corpo una malattia fantastica, che aveva tutti i sintomi di una malattia reale. Non osava uscir di casa, veder gente, essere invitato a pranzo, percorrere le strade, cenare con me al ristorante toscano. Dappertutto incontrava le Furie. Il mondo si era ridotto ai libri, i quali soltanto avevano la forza di pacificarlo. Ogni mattina, gli pareva di scorgere un cielo pallidamente luminoso: ma, alle dieci, il cielo era già fosco.
Morì di colpo, forse senza dolore, prostrato da una tensione che sarebbe stata insostenibile per chiunque. La sera dopo la sua morte mi telefonò un signore cerimonioso, per il quale entrambi avevamo molta stima. Gli chiesi se, la mattina dopo, sarebbe andato al funerale. Mi rispose: “È un appuntamento al quale non si può mancare”. Il funerale di Manganelli sarebbe dunque stato un'occasione ufficiale, come un discorso del Presidente Cossiga, il Premio Strega, un famoso party o la presentazione del libro dell'anno? Il mio interlocutore ignorava che Manganelli aveva mancato tutti gli appuntamenti della sua vita: aveva sbagliato tutte le occasioni obbligate; e non ci sarebbe stato nemmeno a quest'ultimo appuntamento, il suo funerale, né nella bara, né fra noi, in incognito tra la folla nella grande chiesa di Prati. Lui aveva sempre abitato da un'altra parte. Pensai: “Questo debbo raccontarlo a Manganelli”. Era l' unica telefonata che non potevo più fare. Qualche giorno dopo, lo sognai, come avevo sognato Calvino. Ma era un incubo: chissà perché, dovevo infilare un coltello nel petto di un grande animale peloso. Ubbidii piangendo all'ordine. Poi mi accorsi che l'animale ucciso giaceva al suolo nella stessa posizione in cui avevo visto Manganelli disteso sul letto funebre. Mi domandai di che cosa fossi colpevole. Non sapevo. Forse, come Gregor Samsa, Manganelli doveva venire immolato. Ci sono creature che scendono fra di noi, abitano la terra, vivono come capri espiatori, e poi vengono sacrificati, perché noi possiamo ancora scrivere libri, compiangere gli amici, camminare nei giardini, godere le gioie inutili dell'estate.

“la Repubblica”, 18 luglio 1990

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