3.3.19

Giraldi Cinzio, Shakespeare e le due Desdemone (Lorenzo Mondo)



Nell’aprile del 1563 l’umanista ferrarese Giovan Battista Giraldi Cinzio giungeva nella fredda Mondovì, con un viaggio compiuto in parte attraverso il Po e reso travagliato da un naufragio. Era stato chiamato da Emanuele Filiberto di Savoia a tenere corsi di letteratura, «con onorata provisione», nello Studio monregalese. Ritornato in possesso del suo Stato dopo l’occupazione francese, il Duca intendeva promuovere imo sviluppo culturale che fosse all’altezza delle sue ambizioni dinastiche e «italiane». Per questo aveva attirato da ogni parte della penisola fior di intellettuali che illustrassero quella università (ottenuta dai monregalesi a risarcimento dei perduti privilegi sulla gabella del sale, sarà di lì a poco rivendicata, con successo, da Torino, nuova capitale).
Giraldi Cinzio era personaggio di chiara fama e versato in più arti. Da giovane era stato tra i medici che si affaccendavano intorno a Lodovico Ariosto morente. Era stato per lunghi anni lettore di retorica all’università di Ferrara e intrinseco degli Estensi. I suoi scritti, soprattutto le tragedie, correvano per l’Europa. Fu accolto in Piemonte con molti riguardi, anche se l’idillio durò poco, perché il Duca non potè astenersi dal riservare agli invadenti Gesuiti l’insegnamento delle sue materie (nel 1569, si trasferirà, deluso, all’università di Pavia). Ma nel gran fervore iniziale, completò una raccolta di novelle alle quali attendeva da trent’anni. Videro così la luce, a Mondovi, gli Ecatommiti, cento novelle divise in dieci giornate e intrecciate con dialoghi di varia natura, che intendevano rifarsi al Decameron boccacciano di cui ripetevano la struttura: anche se la fuga dalla città e il dilettevole intrattenimento non erano qui dovuti a una pestilenza ma al sacco di Roma del 1527 a opera dei Lanzichenecchi.
La raccolta, che ebbe ai suoi tempi grande diffusione, fu stroncata duramente dalla critica idealistica (De Sanctis parlò di «Decamerone in putrefazione»). Le imputarono povertà espressiva, esasperato gusto dell’orrore, moralismo ipocrita. Diventò quasi il simbolo del Rinascimento maturo e decadente, vicino a scivolare nel detestato Secentismo. Solo in tempi recenti si è arrivati a un giudizio più equanime, a un apprezzamento di cui ora è testimonianza la pubblicazione degli Ecatommiti in edizione critica, nella pregevole collezione di «Novellieri italiani» dell’editore Salerno (tre tomi a cura di Susanna Villari). Gli studiosi hanno di che sbizzarrirsi, ma devono in ogni caso tenere conto di un meritp incontestabile dell'opera, tale da interessare una più larga cerchia di lettori. Contribuendo alla gran voga ci quello che potremmo definire il made in Italy culturale, gli Ecatommiti hanno lasciato tracce cospicue nelle commedie di Lope de Vega e hanno ispirato due tragedie di Shakespeare: Misura per misura e, con esiti particolarmente suggestivi, Otello.
«Fu già in Venezia un moro molto valoroso, il quale, per essere pro’ della persona e per aver dato segno nelle cose della guerra, di gran prudenza e di vivace ingegno, era molto caro a que’ signori...». Così comincia la storia della folle gelosia che porta il Moro a uccidere l’incolpevole Desdemona. Jago, Cassio e Otello in Giraldi non hanno nome, sono definiti l’alfiero, il capo squadra, il moro; la sola eroina si chiama Desdemona in entrambi i testi. È quasi un sigillo di comune appartenenza in una trama che da Shakespeare, rispettando le linee essenziali, viene profondamente arricchita e modificata.
Nella novella Desdemona non viene uccisa con lo strangolamento ma con un macchinoso, orrifico espediente: l'alfiero, in combutta con il moro, la tramortisce con uria calza piena di sabbia e fa precipitare il soffitto della stanza sul letto dove è stata adagiata. Così, Otello non si toglie la vita, ma viene ucciso dopo altre traversie dai parenti della donna. Soltanto all’alter ego di Jago viene riservata una stessa morte sotto la tortura. Il racconto, nella sua nudità e sommarietà, esercita un indubbio fascino. Certo si avvantaggia del riflesso retroattivo di una storia diventata a pieno titolo shakespeariana. È partita dall’Italia (per curiosi accidenti, dalla pedemontana Mondovì) e all’Italia viene restituita dall’Otello musicato da Rossini e poi da Verdi. Si mostra, anche per questa via, come sia volatile e pervasivo il percorso dell’immaginazione creativa.

“La Stampa”, 11 gennaio 2013

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